FRUGONI, Carlo Innocenzo
Nacque a Genova il 21 nov. 1692 da Giovan Stefano e da Camilla Isola, entrambi patrizi genovesi.
La famiglia, come era peraltro consentito alla nobiltà genovese dagli statuti, aveva esercitato ed esercitava la mercatura, il che lo esporrà a crudele ironia alla corte di Parma. Egli ebbe due fratelli, Domenico Leonardo e Antonio, morti entrambi senza discendenza, e tre sorelle: Annetta, moglie di G. Tassarello ministro di Genova alla corte di Torino, Giovannetta, sposa di A. Saoli, e Violante, monaca.
Dei primi studi non si sa nulla, ma è certo che egli si sentì sempre sacrificato all'interesse dei fratelli, visto che i genitori lo spinsero a entrare giovinetto e senza vocazione alcuna nella Congregazione somasca, "uccellato dai suoi educatori" del collegio di Novi Ligure, nel quale appena quindicenne vestì l'abito. Svolto dal 12 maggio 1708 il noviziato a Genova, nella casa della Maddalena, pronunciò il 20 maggio 1709 i voti solenni e sottoscrisse, senza valutarne la gravità, l'atto di rinuncia ai cospicui beni familiari. Completati gli studi a Novi e a Milano, venne inviato a insegnare retorica nel collegio di Brescia: fu lì che nel 1716 si affacciò al mondo letterario, entrando a far parte della colonia Cenomana dell'Arcadia col nome di Comante Eginetico, con il quale sarà conosciuto più che con il suo proprio.
Nel 1717-18 il F. fu a Roma, nel collegio Clementino, sempre come insegnante di retorica; ma già nel 1719 risulta di nuovo presente a Genova, nel liceo della Maddalena. Il 16 maggio 1720 raggiunse Bologna, per insegnare retorica nell'Accademia di Porto dei somaschi.
Il periodo bolognese ebbe grande importanza per la formazione letteraria del F.: strinse amicizia con G.P. e F.M. Zanotti, F.A. Ghedini, P.J. Martelli, G.G. Orsi ed E. Manfredi, che già aveva incontrato a Venezia durante un breve soggiorno. Il legame più stretto fu però quello con G.P. Zanotti, col quale aveva in comune la facilità a verseggiare, il piacere della buona tavola e il gusto delle burle e delle rime salaci. A Bologna provò anche il primo dei suoi molti innamoramenti, quello per Faustina Maratta (figlia del pittore Carlo), la celebratissima Aglauro degli arcadi, vedova di F. Zappi, uno dei fondatori dell'Arcadia che egli aveva conosciuto durante il soggiorno romano. Il tono delle odi che il F. dedicò alla donna è pervaso di gioiosa sensualità (Opere, V, pp. 475-482, 483-486, 490-495), anche se la scoperta dell'amore gli fece prender coscienza dell'inganno subito con la monacazione, delle possibilità perdute, della felicità negata.
Nell'ottobre 1721 il F. dovette lasciare Bologna per Piacenza: gli amici bolognesi lo munirono di ampie credenziali per i molti "eruditi cavalieri" della corte di Parma, che diverranno presto suoi amici ed estimatori. Furono P.F. Scotti, O. Barattieri, B. Morandi, G. Pollastrelli, G. Bandini, L. Dal Verme e i conti Marazzani Visconti che dal 1715 coltivavano la colonia Trebbiense dell'Arcadia. Vicino al F. fu soprattutto il marchese U. Landi, uomo colto e innamorato della poesia, che divenne suo protettore e contribuì non poco alla sua affermazione letteraria e sociale. Nel 1722 il F. si era impegnato a tradurre in versi la tragedia Rhadamiste et Zénobie (1711) di P. Joliot de Crébillon, che sarà rappresentata a Bologna durante il carnevale del 1724 (e ivi pubblicata, Radamisto e Zenobia, in quello stesso anno). Quest'opera lo fece apprezzare dal cardinale Marco Cornelio Bentivoglio d'Aragona, legato di Romagna, che diverrà suo importante protettore, sebbene lo spingesse a comporre opere drammatiche, per le quali il F. non riteneva di avere attitudine.
Nel corso di un viaggio da Piacenza a Bologna, a Modena fu colto dal vaiolo: scampò, ma atterrito dall'idea della morte fece voto alla Madonna di S. Luca di cambiar vita, voto che però ben presto i divertimenti, il lusso, le belle dame, i teatri, i salotti, le accademie e le villeggiature gli fecero dimenticare, pur accentuando i sensi di colpa e le malinconie di cui sono felice testimonianza le canzoni Per la festa di S. Antonio, La navigazione d'Amore e Ritorno dalla navigazione d'Amore (per cui cfr. Opere, V, pp. 23, 456, 462-469). S'invaghì in quel tempo della contessa Ginevra Albergati Fontana, bellissima e corteggiatissima, che lo respinse provocando in lui una crisi d'ipocondria. La disillusione lo indusse a comporre e a diffondere un libello diffamatorio in versi sulle principali dame bolognesi e sui loro amanti, servendosi di un linguaggio spesso crudo. Se le protezioni di cui godeva lo salvarono per il momento da sanzioni gravi, una nuova impresa di tal genere gli fu fatale. Chi fosse "l'amplissimo personaggio" attaccato questa volta dal F. è scoperta recente: si trattava di G. Crispi, arcivescovo di Ravenna, che aveva pubblicato una rozza e ingenua opera di edificazione, sulla quale il F. diffuse un'Ammonizione di persona devota… che, applaudita con divertimento dal bel mondo, suscitò le ire delle gerarchie ecclesiastiche e dei superiori somaschi. Il solo a scendere in campo in difesa del F. fu il letteratissimo cardinale Bentivoglio d'Aragona, il quale gli diede asilo nella sua villa di Montericco, e lo munì poi di commendatizie per la corte di Parma, in particolare, per il principe ereditario Antonio Farnese (Arch. di Stato di Parma, Carteggio Farnesiano, Int., b. 666, agosto 1724).
Questi lo accolse benignamente, lo condusse nella sua villeggiatura di Sala, e lo presentò al duca Francesco suo fratello, del quale il F. cercò di ottenere il favore pubblicando il "baccanale" Pan - Dio della Villa - in Sala (Parma 1724), un polimetro di 321 versi oggi rarissimo (una copia presso la Bibl. Palatina di Parma). Avendo ormai assaggiato il lusso e gli splendori di corte, gli fu particolarmente penoso obbedire ai superiori per ritirarsi a Piacenza, nel collegio degli orfanelli. Accomiatandolo, il principe Antonio gli aveva affidato l'incarico di rimaneggiare un vecchio melodramma, Il trionfo di Camilla, sul quale il F. si gettò a corpo morto, nonostante la sua scarsa propensione per quel genere letterario.
A Piacenza fu preso da attacchi di depressione grave e finì con l'ammalarsi. Guarito non resistette alla tentazione di correre a Parma per il carnevale, dove passò alcuni mesi felici, intercalati da una gita a Genova fra marzo e giugno. Intanto era rappresentato con successo Il trionfo di Camilla con le musiche di L. Vinci, mentre egli, rientrato a Piacenza a fine agosto, cominciava ad apprezzare i circoli aristocratici piacentini, anch'essi capaci di offrirgli conversazioni, gite e buoni pranzi, che il F. allietava con i suoi versi. Il 1° febbr. 1726 era nuovamente a Parma, per mettere in scena un suo melodramma, I fratelli ritrovati (Opere, I, p. 14), musicato da G.M. Capello e interpretato dal "divino" Farinelli. In maggio ricevette una visita del Metastasio, che accompagnò per i principali salotti, con grande vantaggio per il proprio prestigio.
Costretto dai superiori a rientrare ancora una volta a Piacenza il F., ormai insofferente, fuggì e alla fine di settembre 1726 si ristabilì a Parma, ove sperava di poter diventare il cantore dei fasti farnesiani; gli toccò ancora, invece, dedicarsi all'assai meno congeniale melodramma. Sperava altresì, il F., di poter regolarizzare la sua posizione ottenendo lo scioglimento dai voti. La pratica si trascinò per anni, finché Clemente XII, nel 1733, lo liberò da alcuni vincoli "con certe condizioni"; solo nel 1743 il F. ottenne, da Benedetto XIV, di essere costituito prete secolare, sciolto per sempre da ogni voto claustrale.
All'assunzione al trono di Antonio Farnese fu incaricato dell'orazione funebre per il duca defunto, che pronunciò nel febbraio 1727 sulla piazza dei Cappuccini. In occasione del matrimonio del nuovo duca con Enrichetta d'Este il F. pubblicò Il trionfo dei pubblici voti (Parma 1728) e curò alcune rappresentazioni teatrali - tra cui la Tebaide di Stazio nella traduzione del card. Bentivoglio - e, il 17 apr. 1730, il suo Scipione in Cartagine…; quindi, per aver compilato una notizia biografica del duca, ottenne l'ambito titolo di storiografo ufficiale della corte.
La morte senza figli di Antonio Farnese, il 20 genn. 1731, se pose fine a un periodo felice per il F., generò una fra le più incredibili farse della storia: l'ultimo Farnese infatti - forse in buona fede e ingannato dalla moglie - nominò erede "il ventre pregnante di tre mesi" di lei che, se pure non incinta, simulò la gravidanza fino a quando non fu inevitabilmente smascherata. Tutta l'Europa si mobilitò: il Ducato fu militarmente occupato in nome di don Carlos di Borbone, figlio di Elisabetta Farnese. Al F. certo dovette mancare l'intuito, perché si schierò con la duchessa vedova Enrichetta, dedicando ben 26 composizioni al "ventre pregnante". Nonostante lettere di giustificazione largamente inviate e suppliche alla duchessa vedova Dorotea Sofia, madre di Elisabetta, che aveva assunto la reggenza, egli fu costretto a rimanere lontano da Parma, dove rientrò solo alla fine del 1732 quando la spedizione spagnola a Orano gli permise di dedicare a Filippo V la canzone Orano espugnata… (Opere, IV, pp. 448-456), che gli valse il perdono e un nuovo stipendio.
Da quel momento si dedicò anima e corpo al servizio della casa di Borbone. Così, nel 1734, diede alle stampe a Parma il volume Rime dell'abate F. pubblicate sotto gli auspici della s.r.c.m. Elisabetta Farnese…, una delle pochissime raccolte che la ritrosia del F. a pubblicare in vita ci abbia lasciato.
Scoppiata la guerra di successione polacca, la vittoria di Bitonto conseguita da don Carlos fu occasione di una Canzone del F. (Opere, V, p. 479), considerata una fra le sue cose migliori: solenne, compatta, felice nell'ispirazione. Ma presto le truppe piemontesi e imperiali invasero e devastarono il Parmense, frantumando il piccolo mondo cortigiano del Frugoni.
Egli partì per Genova il 16 nov. 1734, e là attese trepidante l'esito della guerra; la pace di Vienna del 1738 che vide Parma ceduta all'Austria fu per lui un duro colpo. Ormai senza alloggio, senza stipendio e senza protezioni, rientrò comunque nel Ducato, dove trovò ospitalità presso i conti Terzi di Sissa (sia in città che nella villa di Rocca di Vigatto), per i quali pubblicò alcune "raccolte di gratitudine": per don Francesco (Parma 1738), per le nozze della di lui figlia Corona col marchese B. Rangoni (ibid. 1741), e per quelle dell'altra figlia Costanza col conte A. Marazzani Visconti (Milano 1744).
Anche questo periodo si concluse con un episodio destinato a suscitare scalpore: il F., infatti, che aveva sempre nutrito massima disistima per i medici, riunì alcune satire in un manoscritto intitolato Poesie piccanti dell'anno 1740, in cui attaccava duramente "la vana arte febea". Le polemiche che ne seguirono costrinsero il F., alla fine del 1742, a partire per Venezia.
In quella città gli aspetti piacevoli della vita (galanteria, mondanità, carnevale, gioco, che non fu la meno grave delle sue passioni) furono coronati dall'incontro con i due principali e più duraturi astri femminili della sua vita, Aurisbe Tarsense (la veneziana Cornelia Barbaro Gritti), e Nidalma Mellenia (la duchessa M. Ginevra Toruzzi Millini, romana). Della prima, poetessa in vernacolo veneziano, si innamorò follemente fra gelosie dispetti e molta letteratura (in concorrenza con C. Goldoni, P. Chiari, F. Algarotti, S. Bettinelli e P. Metastasio); lui la rese celebre e lei, nonostante le "pur amabili malizie e perfidie", gli rimase legata a lungo. Con la seconda fu tutt'altro: ella amava la poesia, studiosa e seria, rappresentò una vera, dolce e confidente amicizia che continuerà negli anni, per corrispondenza, dopo il rientro di lei a Roma. A Venezia, però, nell'autunno del 1744 conobbe anche la miseria e una grave malattia.
Il 28 ott. 1745, non appena appreso che Parma era tornata sotto il controllo dei Borboni, partì senza esitare per l'amata città, dove però già il 20 apr. 1746 rientrarono gli Austriaci. La situazione non muterà più fino alla pace di Aquisgrana del 1748 che sancirà il ritorno dei Borboni in un Ducato stremato dalle tasse austriache, nel quale anche i ricchi amici del F. versavano in cattive condizioni.
Di lui in quegli anni si hanno poche notizie: si lasciò ancora una volta coinvolgere in una querelle per la diffusione di un feroce libello contro il ricco e avaro O. Mazza, padre del poeta Angelo, colpevole di non aver compensato un lavoro letterario commissionato al F., al conte A. Bernieri e al conte G.A. Scutellari. Si tratta dei 60 sonetti della Ciaccheide, composizione di incredibile oscenità e sconcezza che fece la delizia dei salotti e provocò le furie del Mazza (ser Ciacco), scabrosa al punto da venir pubblicata solo nel 1768, anonima e con la falsa indicazione di Danzica.
Don Filippo di Borbone prese possesso del Ducato l'8 marzo 1749, e la stella del F. riprese a brillare: il 2 ag. 1750 presentò una supplica per essere riammesso a servire, e ne ottenne 100 zecchini; alla nascita del primogenito ducale pubblicò uno splendido in-folio illustrato - Festa pastorale nel nascimento… (Parma 1751) - che gli valse il 29 genn. 1751 la nomina a istitutore di belle lettere italiane del neonato infante Ferdinando, carica che conserverà fino al 1758. Frattanto la grande figura di G. du Tillot andava rafforzando sul Ducato quell'influenza benefica che ne farà per qualche tempo "l'Atene d'Italia", piccolo ma raffinato centro di cultura, e i rapporti del F. con il ministro furono fin dall'inizio eccellenti.
Nel marzo 1752 il F. compì un viaggio a Genova, nella speranza di raccogliere l'eredità del fratello Antonio, ma il testamento paterno l'aveva escluso espressamente a favore delle femmine: ne nacque un processo che egli vinse in parte, ottenendo il saldo dei suoi cospicui debiti e una piccola rendita.
Fu quello il periodo più felice della vita del F., libero dalle ristrettezze economiche più pressanti, favorito dal du Tillot che, forse anche per calcolo politico, dava alle arti un appoggio straordinario, sia pure con i limiti della cieca imitazione dei modelli francesi e dell'assoluta preferenza per il teatro - penosa questa per il F. - il quale aveva sempre coltivato quel genere obtorto collo mentre ora doveva compiacere un ministro persuaso di aver trovato un novello Metastasio che avrebbe attuato il suo sogno di rinnovare il melodramma. Il 25 febbr. 1754 ottenne la carica di "revisore degli spettacoli e direttore dei regi teatri", con 6.000 lire di Parma di stipendio, poi portate a 8.000, nonché il beneficio dell'abbazia di S. Remigio a Parodi.
Il Goldoni - quell'anno a Parma - gli dedicò Il Cavalier giocondo, in segno di rappacificazione dopo le gelosie veneziane per la Gritti: con la quale, peraltro, il F. giunse alla rottura - causa la gelosia della donna - dopo un'infatuazione per la danzatrice francese Marie La Rivière, cui dedicò un'Epistola (Parma 1758) e un Sonetto d'addio (Opere, II, p. 544). La sostituirà quale musa ispiratrice Caterina Gabrielli, "la Coghetta". Fino al 1760 egli curò un numero considerevole di rappresentazioni teatrali, sia di opere altrui da lui rielaborate sia di originali suoi propri, come nel carnevale 1756-57 i quattro poemetti martelliani e Le feste di Tersicore (Parma 1756), che ebbero uno strepitoso successo e risonanza europea, non meno di Ippolito ed Aricia (Opere, VII, p. 235), o de I Tindaridi e Le Feste d'Imeneo (Parma 1760), quasi tutte condizionate dagli schemi e dalle musiche di J.-Ph. Rameau, anche se con la novità dell'introduzione dei cori da lui voluta.
Nel 1757 fu incaricato di redigere le costituzioni e i privilegi della R. Accademia di belle arti, della quale venne ben presto nominato segretario perpetuo, con amplissimi poteri che fecero di lui la più prestigiosa figura ufficiale delle lettere locali. In verità di quella carica egli più che adempiere i doveri godette i privilegi (il du Tillot dovette più volte amichevolmente ammonirlo per questo), circondandosi d'una piccola corte di giovani rampanti (C.G. Rezzonico, L. di Canossa) e di belle dame (la contessa D. Del Bono, la marchesa M. Bevilacqua), ai quali tutti dedicò un numero sterminato di componimenti poetici. Nel 1763 lasciò la direzione degli spettacoli al conte A. Sanvitale, che era vissuto in Francia per anni, visto che la riforma del teatro vagheggiata dal du Tillot e dal duca si era ridotta all'imitazione pedissequa delle forme e degli splendori di Versailles, e per il teatro non scrisse più. Fu allora che ricevette dal sovrano l'ordine di raccogliere e pubblicare i suoi lavori: anche se inizialmente lusingato, capì ben presto che sarebbe stato un impegno difficilissimo e quasi irrealizzabile giacché - generosissimo di composizioni e poco vanitoso - non aveva quasi mai conservato copie, tanto che si trovò a doverle ricercare a destra e a manca per mezza Italia.
A tale scopo nel 1761 si recò a Venezia, dove avrebbe dovuto realizzarsi l'edizione, ma incontrò (o inventò) mille difficoltà, anche quando nel dicembre l'impresa fu trasferita a Parma. Di rimando in rimando riuscì a far slittare il tutto fino alla sua morte, probabilmente non solo per la difficoltà di reperire l'ingente numero dei suoi lavori, che comunque temeva di non aver più la forza di correggere e limare, ma soprattutto per timore di sottoporre il complesso della sua opera ai critici, specie dopo che G. Baretti l'aveva così duramente attaccato sulla Frusta letteraria (in partic. n. 21, 1° ag. 1764).
In quell'anno fu a Parma Corilla Olimpica, protetta dell'Algarotti, che il F. si sentì obbligato a celebrare (Opere, X, p. 72). Nel giugno 1765 si apprestava ad accompagnare a Genova l'infanta Luigia che andava sposa al principe delle Asturie, quando poco dopo l'improvvisa morte del duca suo protettore lo bloccò, riempiendolo di apprensione per le sue cariche e i suoi benefici, visto che il suo ben noto epicureismo non era certo fatto per ingraziargli l'ipocrita bigotteria del successore duca Ferdinando. A Genova andò comunque l'anno successivo, ad affrontare un ennesimo processo e per sostenere i diritti dell'amata nipote Anna Cambiaso Rivarola con un curioso lavoro in versi, Supplica ai prestantissimi giudici della Rota civile (Opere, IX, p. 40). Vinta la causa volle tornare a Parma, nonostante la ricca ospitalità che le nipoti gli offrivano a Genova: ma aveva ormai 69 anni e si sentiva stanco, sebbene l'aspetto e la buona salute gli concedessero una "esteriore mentita gioventù"; abbandonò del tutto le ricerche per la pubblicazione delle sue opere. Nel 1767 cadde gravemente ammalato, ma si riprese e nella primavera del 1768 volle fare una gita a Mantova. La sua ultima composizione fu destinata a celebrare la guarigione da una grave malattia del du Tillot.
Il F. morì in Parma il 20 dic. 1768, dopo aver lasciato per testamento le sue carte al Rezzonico.
Dopo la morte rispuntò con rinnovato vigore l'annosa questione della pubblicazione delle sue opere che - fra ambizioni, gelosie, ripicche - divenne quasi un affare di Stato. Alla fine l'incarico fu dal duca affidato al Rezzonico (con la collaborazione di P. Manara), il quale si mise al lavoro nel 1773, sulla base di un elenco, lasciato dal F., di persone presso le quali era forse possibile reperire manoscritti suoi; il maggior problema che si presentò fu se procedere a un rigoroso vaglio critico, oppure includere tutto quanto fosse possibile reperire. Prevalse quest'ultimo criterio, e certo non giovò alla fama dell'autore per esser stata la maggior parte delle composizioni estemporanea o quasi, poco limata e non pensata per la pubblicazione. D'altra parte è difficile immaginare che altro avrebbe potuto fare il Rezzonico alle prese con quell'incredibile mole di copie, copie di copie, imitazioni e apocrifi. Comunque le Opere poetiche… del F. (esclusi i melodrammi) uscirono a Parma nel 1779, in nove splendidi volumi tipograficamente curati dal Bodoni (se ne aggiunse poi un decimo), il primo dei quali arricchito da una Memoria storica e letteraria della vita e delle opere di C.I. F., opera del Rezzonico, che resta la principale fonte biografica e bibliografica sul poeta. Le critiche furono numerose e severe: emblematica quella di I. Affò, che pubblicò anonima a Firenze la Lettera di messer Ludovico Ariosto al pubblicatore delle opere di C.I. F.…, datata dagli Elisi il 1° apr. 1780, cui il Rezzonico replicò con durezza (Apologia dell'edizione frugoniana, Firenze 1781).
Per l'elenco completo delle edizioni del F., si rimanda a C. Calcaterra, Storia della poesia frugoniana (Genova 1920) e al volume Lirici del Settecento, per cura di M. Fubini (Milano-Napoli 1959, p. 226).
Taluni atteggiamenti moralistici della critica ottocentesca hanno pesantemente influenzato il giudizio dei posteri sull'opera frugoniana, che meriterebbe di essere rivisitata. In realtà la produzione del F., sebbene raggiunga raramente la misura dell'assoluto, contiene tuttavia importanti elementi d'innovazione della poesia lirica: in particolare quell'uso libero ed elegante del verso sciolto che, giovandosi di una tecnica raffinata, ariosa e musicale, finì per riproporsi quale modello per autori del calibro del Monti, del Parini, del Foscolo. Oggi l'interesse per il F. si concentra soprattutto sull'interprete sommo, più di ogni altro autore italiano, di quella douceur de vivre sull'orlo dell'abisso rivoluzionario che nella letteratura francese è tanto largamente rappresentata. Dopo tutto egli non è frivolo, né ipocrita, né vano: gran parte dei suoi lavori è ispirata ai valori dell'amicizia, dell'amore, della riconoscenza, da lui vivamente sentiti. Quanto al mondo arcadico - del quale è sempre stato considerato uno fra i massimi rappresentanti, sebbene con sottintesi negativi - egli poté viverlo, probabilmente, con il distacco e l'affettuosa ironia che questi versi ben rappresentano: "Favola è Arcadia nostra / che va, sott'auree leggi, / donando nomi e greggi / e campi che non ha".
Fonti e Bibl.: Parma, Biblioteca Palatina, Manoscritti frugoniani; Arch. di Stato di Parma, Decreti e rescritti, 8, 1760-61, f. 183; Raccolta speciale di documenti farnesiani, Epistolario scelto, C.I. F.; Parma, R. Accad. di belle arti, busta II, mazzo I, 11 genn. 1761; busta II, carte aggiunte, 24 luglio 1763; Piacenza, Biblioteca piacentina, Fondo Landi, cod. 43; Genova, Arch. dei padri somaschi alla Maddalena, Atti del Collegio di Novi, ad Indices; Modena, Biblioteca Estense, Autografoteca Campori, cod. 897 (γ-0-4-9); Bologna, Biblioteca dell'Archiginnasio, Mss., A, 2064, n. 81; A, 2044-2045, ff. 9, 23-33, 183-193, 197; A, 2433, f. 3; B, 157 (lettere ad A. Bernieri e a F. Hercolani); Ibid., Biblioteca universitaria, 302 (239), fasc. V, n. 14 (ms. della satira sulle dame bolognesi); 383 (407), busta II (lettere a G. Casali); 453 (574), n. 16; 1819 (3937), caps. CII, nn. 82 s.; Novelle letterarie di Firenze, XIV (1753), col. 130; XVII (1756), col. 187; XXX (1769), col. 38; n.s., X (1779), col. 499; n.s., XI (1780), col. 824; n.s., XIV (1783), col. 519; n.s., XVII (1786), coll. 311-313; G. Baretti, La Frusta letteraria, a cura di M. Bontempelli, III, Milano 1929, pp. 219 s. e passim; C.G. Della Torre di Rezzonico, Elogio del sig. abate C.I. F., in Discorsi accademici, Parma 1772, pp. I-VIII, 3-16; A. Cerati, Elogio dell'abate C.I. F, Padova 1776; G. Cocconi, Prefazione a Poesie scelte di C.I. F., I-IV, Brescia 1782-83; A. Fabroni, Elogi d'illustri italiani, I, Pisa 1786, pp. 160-206; F. Soave, Poesie scelte dell'abate C.I. F., con la vita e un discorso, I-IV, Bassano 1812; E. De Tipaldo, Biogr. degli Ital. illustri, VII, Venezia 1840, pp. 44-47; E. Bertana, Intorno al F., in Giorn. stor. della letteratura ital., XXIV (1894), pp. 337-379; L. Balestrieri, Feste e spettacoli alla corte dei Farnesi, Parma 1909, passim; C. Calcaterra, Il traduttore della "Tebaide" di Stazio, ricerche intorno alle relazioni del card. C. Bentivoglio con C.I. F., Asti 1910; Id., Il F. prosatore, Asti 1910; Id., La Ciaccheide di C.I. F., A. Bernieri e G.A. Scutellari, Parma 1912; L. Frati, Una satira bolognese dell'abate F., in Giorn. stor. della letteratura ital., LX (1912), 2, pp. 146-158; G. Rossi, Il sonetto cartaginese di C.I. F., in Varietà letterarie, Bologna 1912, pp. 422-427; F. Picco, I soggiorni in Piacenza di C.I. F., Piacenza 1914; M. Dardana, Un letterato piacentino del sec. XVIII, Piacenza 1914 (sull'amico del F., U. Landi), passim; A. Equini, C.I. F. alle corti dei Farnesi e dei Borboni…, I-II, Milano-Palermo-Napoli 1920; L. Sammartino, L'abate letterato galante del Settecento (C.I. F.), Salerno 1921; U. Benassi, Il F. e i Rezzonico. Letteratura e politica in una corte italiana del Settecento, in Giorn. stor. della letteratura ital., LXXX (1922), 2, pp. 95-119; C. Zuretti, Alcuni sonetti da attribuirsi a C.I. F., in Athenaeum, n.s., I (1923), pp. 114-130; B. Croce, La letteratura italiana del '700, Bari 1949, pp. 12 ss.; M. Fubini, Arcadia e illuminismo, in Questioni correnti di storia letteraria, Milano 1949, pp. 503 ss.; C. Calcaterra, Il Barocco in Arcadia e altri scritti sul Settecento, Bologna 1950, passim; G. Natali, Il Settecento, Milano 1950, ad Indicem; E. Raimondi, Aspetti del grottesco barocco: dal F. al Tesauro, in Convivium, XXVI (1958), pp. 261-279.