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GOZZI, Carlo

di Giovanni Ziccardi - Enciclopedia Italiana (1933)
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GOZZI, Carlo

Giovanni Ziccardi

Fratello di Gasparo (v.), nacque a Venezia il 13 dicembre 1720. Avviato da abati poco dotti all'esercizio delle lettere, tentò la via delle armi militando tre anni in Dalmazia, e tornò in patria col grado di cadetto di cavalleria. Nel 1747 partecipò con altri alla formazione dell'Accademia dei Granelleschi, per difendere la purezza della lingua fiorentina. Rivoluzionario, sia pure con qualche incoerenza, nelle dottrine letterarie, fu invece avverso al rinnovamento scientifico e filosofico del secolo, ritenendolo pericoloso alla fede, alla morale cristiana, ai poteri costituiti. Perciò agli scrittori che sostenevano le nuove teorie fu fieramente nemico, persuaso di essere uno dei pochi saggi viventi tra una folla universale di pazzi. La caduta della repubblica veneta nel 1797 sembrò avverare le sue fosche predizioni. Morì a Venezia il 4 aprile 1806.

Da questo spirito di opposizione e di contraddizione trasse origine gran parte degli scritti suoi. Contro il Goldoni e contro il Chiari egli difese la commedia improvvisa, tra l'altro, con La Tartana degli influssi per l'anno bisestile I756 (1757), coi Canti due del ratto delle fanciulle castellane (1761), coi Fogli sopra alcune massime del Genio e costumi del secolo dell'abate Pietro Chiari e contro ai poeti Nugnez de' nostri tempi (1761), con la Marfisa bizzarra, poema in 12 canti (1761-68) pubblicato nel 1774.

Nella Marfisa la decadenza e la rovina della Francia eroica carolingia è presagio doloroso della caduta di Venezia. Eroina di quel mondo corrotto e abbietto è Marfisa, che tutta accesa di Filinoro, ciarlatano ricco di sfacciataggine e di trappole, finisce, nello sfiorire della bellezza, pinzochera elemosiniera. Figure episodiche sono Matteo (il Goldoni), Marco (il Chiari), Dodone della Mazza (il G. stesso), nel quale si raccoglie con scarsa coerenza l'intento satirico. L'espressione è spesso di una comicità intensa, briosa e netta, ma spesso anche è affogata nelle invettive e nelle tirate morali, che restano fuori della concezione del poema; l'originalità di esso consiste nella fusione ironica delle idealità cavalleresche medievali con la misera realtà del Settecento veneziano.

Origine polemica ebbero anche le Fiabe. Al Goldoni e al Chiari che, per difendere la bontà delle loro commedie scritte, avevano opposto gli applausi degli spettatori alle critiche acerbe del G., questi rispose parodiandoli con L'amore delle tre melarance (1761), scenario affidato all'arte della compagnia del Truffaldino Antonio Sacchi, per dimostrare che il popolo applaudiva perfino le fole della nonna, recitate all'improvviso dalle maschere. Le risate e gli applausi furono grandi e cordiali, e la prova fu raggiunta. Ma l'autore, incorato dal successo, nel comporre le altre fiabe (Il corvo, 1761; Il re cervo, La donna serpente, Turandot, 1762; La Zobeide, 1763; I pitocchi fortunati, Il mostro turchino, 1764; L'augellino belverde, Zeim re dei geni, 1765), cedé alle ragioni dell'arte, e le scrisse anche lui quasi per intero. In esse il meraviglioso magico dell'Oriente viene a contatto col realismo dell'Occidente ed è espresso in caricatura dalle maschere, mentre spesso dalla favola esce un ammaestramento morale.

Nella coesistenza del meraviglioso e delle maschere appare essenziale il riso, consona la satira, intruso il tragico; meglio riusciti sono perciò Re cervo e L'augellino belverde. Nel Re cervo è ripreso il motivo del re, che ricerca la verità sotto ingannevoli apparenze. Nell'Augellino la forza comica è per un verso nelle passioni che spingono i personaggi ad agire, e che sono sentite seriamente da loro, mentre son guardate ironicamente da noi; è per un altro nello strambo filosofare di due giovani traviati, il quale alla prova dei fatti si rivela dannoso e irragionevole. In questa parodia tragico-filosofica si avverte una somiglianza con lo spirito animatore delle Nuvole di Aristofane.

Le Fiabe, desunte per l'argomento specialmente da Lo cunto de li cunti del Basile, dai Mille e un giorno, dalle Mille e una notte, dalla Posilecheata del Sarnelli; in relazione storica con la commedia improvvisa e col teatro della Fiera e quello italiano di Francia; per l'inosservanza delle tre unità, per l'unione del tragico col comico e del realistico col mirabile per la catarsi morale, rientrano nella storia del preromanticismo. E questa fu la ragione della fortuna che esse ebbero presso i popoli germanici.

Oltre alle Fiabe il G. scrisse numerosi altri drammi, traducendo e rifacendo lavori particolarmente spagnoli del Calderón, del Moreto e di altri, con lo scopo di reagire alle tragedie urbane di moda, e oscurando i pregi dei drammi originali. Origine polemica ebbero anche le Memorie inutili (1797). Un disgraziato contrasto, sorto per i begli occhi dell'attrice Teodora Ricci e per la recita delle Droghe d'amore (1777), indusse a fuggire da Venezia il segretario del Senato P.A. Gratarol, il quale, condannato a morte in contumacia, si difese e accusò con una Narrazione apologetica (1780). A questa il G. oppose le Memorie; e per dimostrare che quegli aveva torto, narrò tutta la propria vita: i ricordi d'infanzia, i casi della giovinezza, i miseri litigi domestici, le lotte sostenute da lui contro il Chiari, il Goldoni, il Bettinelli e altri, e infine lungamente il pettegolezzo col Gratarol. Riuscì ora felice per bizzarre pitture, vivezza comica e sale satirico, ora noioso e stucchevole per chiacchiera prolissa.

Ediz.: Opere edite e inedite, voll. 14, Venezia 1801-3; Le spose riacquistate, Venezia 1819; Le fiabe, a cura di A. Masi. Bologna 1885; La Marfisa bizzarra, a cura di C. Ortiz, Bari 1911; Memorie inutili, a cura di G. Prezzolini, voll. 2, Bari 1910.

Bibl.: V. Malamani, Saggio bibliografico degli scritti di C. G., in Le fiabe, II, Bologna, pp. 523-559; C. Levi, Saggio di bibliografia degli studi critici su C. G., in Rivista delle biblioteche e degli archivi, XVII (1906), pp. 20-30; E. Masi, C. G. e le sue fiabe teatrali, prefazione alle Fiabe; G. Ziccardi, Le fiabe di C. G., in Giorn. stor. della lett. italiana, LXXXIII (1924), pp. 1-53, 241-284; E. Carrara, Studio sul teatro ispano veneto di C. G., Cagliari 1901; G. Ziccardi, La Marfisa bizzarra di C. G., nella Rass. crit. della lett. ital., Napoli 1919, pp. 1-33, 73-111, 145-163; P. Molmenti, C. G. inedito, in Giornale stor. d. lett. ital., LXXXVII, pp. 36-73. V. anche goldoni.

Vedi anche
Gasparo Gózzi Gózzi, Gasparo. - Letterato veneziano (Venezia 1713 - Padova 1786). Tra i principali esponenti dell'Accademia dei Granelleschi, raggiunse grande notorietà nel campo degli studi danteschi con l'opera Giudizio degli antichi poeti sopra la moderna censura di Dante attribuita ingiustamente a Virgilio, cioè ... Pietro Chiari Letterato (Brescia 1712 - ivi 1785), gesuita. Scrisse una quarantina di romanzi, ai loro tempi fortunati, anche se spesso rimanipolazioni di romanzi stranieri; ma la sua rinomanza è dovuta alle tragedie e commedie, con e senza le maschere, in prosa e in versi, con le quali egli si atteggiò a riformatore ... Marcello Morétti Morétti, Marcello. - Attore teatrale (Venezia 1910 - Roma 1961). Dopo un lungo apprendistato in varie compagnie, nel 1947 entrò nel Piccolo di Milano imponendosi nell'Arlecchino servitore di due padroni di C. Goldoni, regia di G. Strehler. Da allora la sua fama è rimasta legata alla maschera di Arlecchino, ... Melchiorre Cesaròtti Cesaròtti ‹-ʃ-›, Melchiorre. - Letterato (Padova 1730 - Selvazzano, Padova, 1808). Spirito irrequieto, iniziò ma non proseguì la carriera ecclesiastica, pago del solo titolo di abate. Professore nel seminario di Padova, ove era stato allievo, poi precettore di famiglie patrizie a Venezia, fu infine dal ...
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Vocabolario
gozzuto
gozzuto agg. e s. m. (f. -a) [der. di gozzo1]. – 1. Di persona, che ha il gozzo: ebbe veduto per la sala e in terreno certi contadini g. (Sacchetti). 2. Di uccelli, che hanno la gola prominente e rigonfia per un ingrossamento del gozzo;...
carlo
carlo s. m. – Denominazione generica di monete emesse da sovrani di nome Carlo; fu data allo scudo (filippo) di Carlo II re di Spagna e dell’imperatore Carlo VI, e a una moneta d’oro del valore di 5 talleri di Carlo duca di Brunswick....
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