NUVOLONE, Carlo Francesco
NUVOLONE, Carlo Francesco. – Figlio del pittore Panfilo e di sua moglie Isabella, nacque tra il 1608 e il 1609 a Milano, città nella quale risiedette per tutta la vita.
Benché già i documenti in vita e poi le fonti lo ricordino spesso con il soprannome di Panfilo, in riferimento al nome del padre, la sua formazione dovette svolgersi in buona parte al di fuori della bottega paterna, come sembrano testimoniare sia la frequentazione della scuola di pittura dell’Accademia Ambrosiana diretta dal Cerano (Giovanni Battista Crespi), sia le informazioni fornite da Orlandi ([1704], 1753) riguardo agli studi compiuti da Nuvolone in età giovanile sulle opere dello stesso Cerano e di Giulio Cesare Procaccini. Una conferma in tal senso è fornita dall’analisi della produzione più precoce dell’artista, che trova i suoi primi punti di riferimento nella pala dedicata a s. Vincenzo della parrocchia di Varallo Pombia, di poco successiva al 1631, e nella grande Pietà e santi della collegiata di Bormio, sicuramente collocabile tra il 1631 e il 1634.
Entrambe le opere rivelano infatti una chiara suggestione per il vibrante patetismo dei due capiscuola del primo Seicento lombardo, che Nuvolone declina in un linguaggio dalla spavalda franchezza esecutiva ma un poco farraginoso nell’articolazione compositiva, come evidenzia in particolare il s. Sebastiano della tela di Bormio, ancora ispirato a modelli tardocinquecenteschi. Queste prerogative consigliano di riferire alla medesima fase altre opere contraddistinte da analoghe propensioni di stile e da una stesura quasi sprezzante, come il S. Giovanni Evangelista approdato nell’Ottocento nella chiesa di S. Stefano a Milano, il Sogno di s. Giuseppe della chiesa di S. Agostino a Como e i Quattro evangelisti della Quadreria arcivescovile di Milano. Caratteri per ovvie ragioni diversi rivela la pala con l’Assunta e santi della chiesa di S. Francesco a Pontremoli, che Carlo Francesco realizzò poco oltre il 1633 in collaborazione con Panfilo, al quale si deve l’orchestrazione della scena, decisamente più disciplinata rispetto a quella delle opere appena citate.
Un importante, successivo momento della stagione precoce del pittore è rappresentato dalla pala realizzata nel 1636 per la chiesa di S. Marta a Milano (Pavia, Pinacoteca), che pur ribadendo l’orientamento di Nuvolone nei confronti di Cerano e Procaccini, si distingue dai dipinti precedenti per un linguaggio più sciolto e maturo e per una maggiore padronanza disegnativa. Utile a testimoniare l’affermazione conquistata dall’artista presso la committenza del capoluogo lombardo, la pala oggi a Pavia costituisce a sua volta un valido termine di paragone per altre notevoli imprese da immaginare riferibili ai medesimi tempi, tra le quali vale la pena segnalare la tela con il Martirio dei ss. Vito e Modesto destinata alla chiesa di S. Vito al Pasquirolo sempre a Milano (ora nel locale Museo diocesano), la grande lunetta con S. Michele arcangelo dei Musei civici di Como e la Scuola di s. Agostino dei Musei civici di Milano.
Con le loro ambientazioni quasi sempre tenebrose e con l’inquietudine espressiva che le pervade, apprezzabile in particolare nella drammatica pala per S. Vito al Pasquirolo e nella lunetta comasca, le opere fin qui segnalate documentano, nel loro complesso, la sostanziale fedeltà di questa fase iniziale di Carlo Francesco agli orientamenti cupi e concitati della pittura borromaica dei primi decenni del secolo. Che quello sia l’orizzonte entro il quale si mosse il giovane Nuvolone lo confermano i dipinti realizzati per il collezionismo privato in quegli anni – dal Martirio di una santa del Musée du Louvre al Tarquinio e Lucrezia della collezione Borromeo all’Isola Bella – nei quali l’artista dimostra di dialogare da vicino con le opere da cavalletto, certo non meno fosche e intense, della prima maniera di Francesco Cairo.
Per trovare riferimenti cronologici sicuri nel catalogo di Nuvolone successivamente al 1636 occorre arrivare al 1642, anno a cui risale la pala con l’Immacolata Concezione e Federico Borromeo della chiesa di S. Maria ad Arona, cui segue di poco l’Adorazione dei pastori del duomo di Novara, messa in opera nel 1643. Le due opere segnano un mutamento sostanzioso nel linguaggio dell’artista, evidente nell’adozione di un eloquio più disteso nel quale si insinua una delicata vena sentimentale, testimoniata in particolare dal brano della Vergine col Bambino al centro della tela novarese, la cui tavolozza schiarita si distingue radicalmente da quella utilizzata nei dipinti del decennio precedente. Si tratta di un passaggio cruciale nella parabola stilistica di Nuvolone, che troverà pieno compimento nelle opere realizzate a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta, lungo la coerente traiettoria che dalla Purificazione della Vergine dei Musei civici di Piacenza (1645) conduce all’Assunta della Pinacoteca di Brera a Milano (1646), alla Verginein gloria adorata da s. Carlo Borromeo e dal beato Felice da Cantalice della Pinacoteca nazionale di Parma (1647) e quindi alla Madonna del Carmine in S. Giorgio a Cuggiono e al Riposo durante la fuga in Egitto della chiesa di S. Maria e S. Giorgio ad Annone Brianza, entrambi del 1648.
La serrata sequenza di queste immagini d’altare bene esemplifica infatti l’approdo di Nuvolone a un nuovo registro espressivo ormai pienamente barocco, che trova i suoi tratti distintivi nell’ariosa regia delle scene e più ancora nelle prerogative del trattamento pittorico, animato ora da una tessitura atmosferica e lievitante, in grado di conferire alle figure una consistenza vaporosa, adeguata all’inflessione intenerita che ne ispira le espressioni e gli atteggiamenti.
Mai abbandonate nel seguito della sua carriera, le scelte di stile operate da Nuvolone in questo momento di svolta costituirono l’imprescindibile viatico non solo all’intera carriera del fratello Giuseppe, le cui prime opere note si collocano proprio nei secondi anni Quaranta del Seicento, ma anche al diffondersi di una vera e propria maniera ‘nuvoloniana’, attestata dall’innumerevole quantità di opere di collaboratori e imitatori che replicarono a diversi livelli di qualità i modelli del caposcuola.
Le peculiarità e le sollecitazioni che stanno alla base di questa maturazione furono interpretate in modo fuorviante nella letteratura sette e ottocentesca, immaginando dapprima una dipendenza del pittore dai modelli di Guido Reni, fino ad attribuirgli lo pseudonimo di ‘Guido di Lombardia’, e poi ipotizzando una sua familiarità con la pittura di Bartolomé Esteban Murillo. Ben diverse sono in realtà le ragioni che stanno alla base dell’evoluzione di Nuvolone, nella quale si riconosce, innanzitutto, la volontà di portare alle estreme conseguenze le inclinazioni ‘affettuose’ e neo-correggesche, oltre che le aperture verso il pittoricismo rubensiano, che già dimoravano nella pittura di Giulio Cesare Procaccini. Tuttavia, se si osservano i preziosi effetti cromatici che nobilitano specialmente le Purificazione della Vergine di Piacenza e l’Assunta di Brera, non è difficile comprendere come a orientare questa fase dell’artista abbiano contribuito anche suggestioni più moderne, in direzione soprattutto del magistero coloristico di Van Dyck, forse apprezzato per il tramite delle contemporanee esperienze della pittura genovese. Proprio lo stretto rapporto con i fatti genovesi costituisce del resto uno degli aspetti salienti dell’intera vicenda del barocco lombardo, del quale Nuvolone fu, a partire da questo momento, un indiscusso e prolifico protagonista, insieme con Francesco Cairo, Giovan Battista Discepoli e Johann Christoph Storer.
Oltre che negli specifici indirizzi di stile cui si è fatto cenno, la piena partecipazione del pittore agli ideali barocchi si coglie anche negli originali caratteri della sua produzione per il collezionismo privato, che proprio in coincidenza con gli anni Quaranta del Seicento sviluppa una precisa predilezione per la messa in scena di temi profani, tratti non solo dal repertorio mitologico (Didone ferita; Cefalo e Procri), ma anche da testi normativi della letteratura cinquecentesca, come il Pastor Fido di Giovan Battista Guarini (Silvio e Dorinda). Tra languori di eroine discinte e gesti teatrali prende forma, in tal modo, una galleria di rappresentazioni sensuali, dai toni melodrammatici, che illustra con efficacia i mutamenti del gusto intervenuti presso il collezionismo milanese del tempo, ormai affrancato dalle scelte rigoriste promosse in epoca borromaica.
Il successo della felice formula espressiva messa a punto in questa fase non verrà meno nei tempi successivi, che dai tardi anni Quaranta fino alla fine della carriera registrano una serrata sequenza di impegni la cui ricognizione pone, come difficoltà più rilevante, la distinzione delle competenze di Carlo Francesco da quelle di Giuseppe. Una questione resa complessa dagli accertati episodi di collaborazione tra i due fratelli e più ancora dalla sostanziale contiguità della loro grammatica stilistica, documentata anche dalla frequente adozione da parte di Giuseppe di invenzioni e modelli divulgati dal fratello più anziano. Emblematico, in questo senso, risulta il caso del ciclo di tele e affreschi con Storie bibliche realizzato tra il 1648 e il 1652 nella cappella del Salvatore del santuario della Beata Vergine di Vimercate, nel quale si riesce a percepire l’intervento congiunto dei due fratelli, senza che ciò consenta di isolare in modo perentorio la mano di Giuseppe da quella di Carlo Francesco, qui più che mai impegnati all’unisono nel trasferire sul terreno della narrazione veterotestamentaria il loro suadente teatro degli affetti.
Documentate anche da altri episodi, come la pala con l’Apparizione della Vergine di Caravaggio della chiesa di S. Vitale a Parma, del 1649, queste incertezze non impediscono comunque di delineare in modo sufficientemente circostanziato l’ultimo tratto dell’attività di Carlo Francesco. Per quanto riguarda la produzione di pale d’altare, l’intervento isolato dell’artista si riconosce infatti, anche grazie alle indicazioni fornite dalle firme e dai dati documentari, in un numero piuttosto considerevole di esemplari, tra i quali può essere utile ricordare quelli di datazione accertata: vale a dire la Cena in Emmaus del duomo di Monza (1650), la tela con S. Pietro e s. Chiara della Pinacoteca di Brera, destinata in origine alla chiesa milanese di S. Giovanni in Conca (1652), la Maddalena penitente realizzata per la chiesa di S. Maria Maddalena ad Alessandria (1655), il S. Pietro e s. Giacomo che risanano lo storpio in S. Vittore a Milano (1659) e l’Annunciazione della chiesa dell’Annunziata di Oleggio (1661).
Posti in sequenza, questi dipinti illustrano la progressiva acquisizione da parte di Nuvolone di una stesura più alleggerita e soffusa, oltre che di una più insistita attenzione per la resa in chiave sentimentale dei temi trattati: due peculiarità che, non a caso, costituiscono la nota dominante anche della coeva produzione ad affresco, un campo nel quale Carlo Francesco si cimentò con particolare assiduità a partire dal ciclo della cappella di S. Michele della certosa di Pavia, del 1648. Poco di seguito venne infatti convocato al Sacro Monte di Varese per dipingere la cappella III e la cappella V (dedicate rispettivamente alla Natività e alla Disputa tra i dottori), la seconda delle quali reca la firma dell’artista e la data 1650; al 1654 risalgono invece gli affreschi, realizzati in collaborazione con Giuseppe, della cappella X (Vittoria di s. Francesco sulle tentazioni) del Sacro Monte di Orta, dal quale Carlo Francesco ricevette anche l’incarico relativo agli affreschi della cappella XVII (Agonia di s. Francesco), realizzati però in gran parte da Giuseppe dopo la morte del fratello. Completa questo serrato catalogo di imprese decorative, utile a definire il consistente lascito fornito anche su quel versante dal pittore alla civiltà figurativa del barocco lombardo, il ciclo profano di palazzo Ferrero Fieschi a Masserano, eseguito intorno al 1660, ancora una volta però con la partecipazione preponderante di Giuseppe.
Un ultimo, significativo capitolo dell’attività di Nuvolone va individuato nella sua dimestichezza col genere del ritratto, già ricordata nelle note di Orlandi ([1704] 1753) che lo riguardano. Ribadita dalla scelta di affidare proprio a lui l’effigie, oggi perduta, di Maria Anna d’Austria, di passaggio a Milano nel 1649 prima di celebrare il suo matrimonio con Filippo IV, questa specializzazione è documentata da un consistente nucleo di ritratti superstiti, alcuni dei quali fissano le sembianze di personalità illustri del mondo culturale milanese, come Manfredo Settala (1646), oppure di esponenti di spicco del contesto politico e diplomatico del tempo, quali Bartolomeo Arese e il governatore dei Paesi Bassi Don Giovanni d’Austria (1656; tutti in collezione privata). A questi esemplari di committenza prestigiosa si affiancano numerose raffigurazioni di personaggi più o meno illustri della nobiltà lombarda, che Nuvolone raffigurò privilegiando la messa in posa del ritratto di corte barocco, sulla scia dei sontuosi modelli ‘internazionali’ di Anton Van Dyck, come illustra a titolo di esempio lo smagliante Ritratto di gentildonna delle Collezioni comunali d’arte di Bologna. La scelta di questo modello impegnativo non gli impedì tuttavia di introdurre nelle sue migliori rappresentazioni ritrattistiche, dal Giovan Battista Lauro di collezione privata (1650-1654) al Cavaliere in veste di s. Maurizio (Parma, Pinacoteca nazionale), una vena disincantata e affabile, in grado di eludere il paludamento dell’impostazione aulica.
Del resto che la sua vocazione personale si indirizzasse proprio verso esiti antiretorici lo dimostra il carattere confidenziale del magnifico Autoritratto della famiglia Nuvolone, realizzato intorno alla metà del secolo insieme a Giuseppe (Milano, Pinacoteca di Brera), nel quale Carlo Francesco si raffigura al cavalletto in atto di dipingere un volto.
Morì a Milano il 1° agosto 1661.
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