CARLO EMANUELE I, duca di Savoia
Figlio di Emanuele Filiberto e di Margherita di Valois, sorella di Enrico II di Francia, nacque il 12 genn. 1562 nel castello di Rivoli.
L'avvento di un erede valse a scongiurare il pericolo che la successione si trasferisse al ramo Savoia-Nemours, intimamente legato alla causa francese, e a confortare l'opera intrapresa dal vincitore di San Quintino per restaurare le fortune dello Stato sabaudo appena riconsegnatogli dalla pace di Cateau-Cambrésis.
Cresciuto sotto la stretta tutela della madre (preoccupata dell'organismo gracile e sofferente del figlio) e affidato alle cure di precettori di riguardo, ma non certo di grande talento politico, come il giureconsulto Antonio Govean, l'astronomo Francesco Ottonaio e il matematico G. B. Benedetto, C. E. molto lentamente fugò le inquietudini che si nutrivano intorno alla sua salute cagionevole, assuefacendosi alle fatiche dell'esercizio militare, e solo verso la maggiore età venne manifestando i primi sintomi di un temperamento altero e volitivo. D'altra parte, non gli fu facile al momento dell'assunzione al trono (avvenuta il 30 agosto del 1580) districarsi dal complesso intreccio di influenze che premevano a Torino, da parte francese e da parte spagnola, sulle principali famiglie della nobiltà e sulla cerchia degli intimi di corte.
Gli stessi consiglieri che Emanuele Filiberto aveva designato in punto di morte per aiutare il giovane principe nei suoi primi atti di governo non facevano mistero delle loro opposte simpatie e agivano di conseguenza: chi, come il conte Bernardino di Racconigi, per stabilire valide intese con Enrico III; chi, come Andrea Provana di Leinì, per rafforzare i rapporti già esistenti con Filippo II. La missione del maresciallo di Retz (giunto in Piemonte nel novembre 1580, latore di una offerta ufficiale di matrimonio con la principessa Cristina di Lorena, nipote di Caterina de' Medici) e il protrarsi dei negoziati già avviati da Emanuele Filiberto per le nozze del duca con l'infanta di Spagna, fra estenuanti intrighi e sottintesi, rivelarono in maniera emblematica il sottile equilibrio di forze fra i due partiti rivali e la sostanziale incertezza di C. E. nel venirne a capo. Di qui il duplice modo di procedere che avrebbe caratterizzato la sua versatile condotta negli anni immediatamente successivi da un lato, un riserbo spinto talora all'eccesso nei maneggi diplomatici e di governo, frutto più di indecisione e di inesperienza che di calcolo deliberato per non scoprire anzitempo tutte le carte del proprio gioco; dall'altro, la tendenza a liberarsi di ogni impaccio e a lusingare le proprie ambizioni con sortite improvvise e irruenti, basate più su un certo fiuto e su un audace spirito bellicoso che su elementi di sicura e autentica abilità politica.
Il ginepraio in cui C. E. andò a cacciarsi fra il 1581 e 1582 con l'impresa contro Ginevra non fu che la prima di una serie di impasses dovute a questa inclinazione avventurosa, a una febbre di fare, che solo col tempo sarebbe stata sorretta in qualche modo da una più oculata e scaltrita scelta di mezzi, e da un apparato militare più robusto e meglio addestrato. Rassegnatosi alla cessione di Carmagnola alla Francia e costretto nei faticosi negoziati con Madrid, in margine alle pratiche per il progettato matrimonio ad accantonare i piani via via concepiti per l'ingrandimento dei suoi possedimenti sul versante italiano (dall'acquisto della Sardegna, in cambio dei territori d'oltralpe, alla legittimazione dei diritti su Asti, a una nuova messa a punto delle pretese sul Monferrato), egli s'era venuto convincendo che il momento fosse favorevole, quantomeno, al recupero del dominio su Ginevra.
A dargli tale affidamento erano, da una parte, l'estrema gravità cui erano giunte le lotte civili in Francia, circostanza questa ritenuta sufficiente a scongiurare il rischio di un intervento diretto di Enrico III; dall'altra, il rinnovato slancio offensivo con cui procedeva l'opera della Controriforma in altre parti d'Europa, ciò che avrebbe dovuto garantire automaticamente il tacito consenso di Filippo II, e l'appoggio concreto del pontefice, a un'impresa che si riprometteva l'annientamento del principale focolaio dell'ideologia calvinista.
All'atto pratico, queste aspettative si dimostrarono illusorie mentre fallì l'azione predisposta per un'occupazione a sorpresa di Ginevra (18 apr. 1582). Lungo la strada l'iniziativa di C. E. non s'era scontrata solo con la ferma intenzione della Francia di ribadire il suo patrocinio sulla città del Lemano, a dispetto delle connivenze dei Ginevrini con le agitazioni degli ugonotti nel Delfinato e nel Saluzzese (troppo importante era infatti la posizione di Ginevra quale cerniera strategica nelle comunicazioni fra il Sud e il Nord dell'Europa perché Enrico III potesse disinteressarsi della questione, col rischio che la città, una volta caduta in mano ai Savoia, potesse divenire facile transito per le armate spagnole dirette verso la Franca Contea e i Paesi Bassi). I preparativi militari del governo di Torino avevano messo in allarme anche i Gonzaga e altri principati italiani nonché i Cantoni svizzeri, a cominciare da Berna timorosa di un eventuale sconfinamento nel Vaud e nei balliaggi ceduti a suo tempo da Emanuele Filiberto. Al duca, privato all'ultimo momento anche del sostegno diplomatico della Curia romana preoccupata dell'atteggiamento francese, non rimase pertanto che accettare la proposta di rimettere l'esame delle sue ragioni a un consesso di rappresentanti dei Cantoni svizzeri (luglio 1582), anche se egli continuò a sperare per qualche tempo, con l'adescamento delle nozze di Lorena, che Enrico III si sarebbe convinto a far opera di mediazione in favore degli interessi sabaudi.
L'insuccesso militare e l'isolamento diplomatico che l'avevano accompagnato segnarono la conversione di C. E. a una politica scopertamente filospagnola, ma in una situazione ben diversa da quella che aveva portato Emanuele Filiberto a fare affidamento su Madrid per mirare al pacifico consolidamento dello Stato e per tenere a bada le gelosie della Francia.
Poco o nulla restava di quel prezioso patrimonio di buoni rapporti che il duca di Savoia aveva coltivato accortamente con i Cantoni svizzeri, cattolici e protestanti, al fine di coprirsi il fianco da quella parte e non dar esca a manovre francesi. E nei reciproci risentimenti fra C. E. ed Enrico III, sempre più acuti al punto da far temere un'aperta rottura, nelle macchinazioni intessute, da un lato, per far insorgere la Linguadoca e la Provenza, dall'altro, per incoraggiare la resistenza della Dieta elvetica alle pretese sabaude su Ginevra, si erano venute consumando le ultime possibilità del governo ducale di destreggiarsi fra le due potenze egemoni per non cadere in condizioni di pesante vassallaggio.
Non per questo C. E. aveva smesso di coltivare ingarbugliati progetti per risolvere in suo favore la questione del titolo regio e dei diritti di precedenza in Italia (acconciandosì, magari, a un apparentamento con i Medici di Toscana), per ritentare la conquista di Ginevra, 0 per rilanciare le sue aspirazioni su Saluzzo e il Monferrato. Ma, nella misura in cui egli accumulava questi e altri disegni, sempre più indispensabile si dimostrava l'adesione o l'acquiescenza della Spagna. E Filippo II sapeva troppo bene manovrare le sue pedine per non trarre dal focoso attivismo del giovane principe sabaudo il massimo vantaggio possibile al minimo prezzo.
Di fatto il consenso al matrimonio (11 marzo 1585) con la sua seconda figlia, Caterina, fu l'unica concessione del sovrano spagnolo alle reiterate sollecitazioni di C. E. per rendere più esplicita e concreta l'alleanza con Madrid. Nessun altro pegno il duca riuscì a strappare nei colloqui tenuti col suocero a Saragozza, dopo il perfezionamento del contratto nuziale.
L'unione di sangue con la dinastia spagnola parve comunque a C. una garanzia sufficiente per riprendere le armi contro Ginevra, tanto più che anche Roma sembrava ormai decisa a metter da parte ogni apprensione sulle eventuali reazioni della Francia, sempre più afflitta dai torbidi delle guerre di religione per esser ritenuta in grado di opporsi con successo a un'iniziativa che pareva raccogliere il favore di alcuni Cantoni elvetici.
In realtà, ancora una volta i calcoli di C. E., per quanto più cauti e ponderati che in precedenza, si rivelarono fallaci. Scartata la prospettiva di una congiura che avrebbe dovuto aprire le porte della città, dopo l'esito infelice della prima prova, e dileguatesi via via le speranze di provocare una scissione fra i Cantoni protestanti, che anzi avevano badato a rafforzare la loro coalizione per iniziativa di Zurigo e di Berna dopo la Dieta di Baden del gennaio 1584 e a rassicurare formalmente Ginevra con un regolare trattato di alleanza (agosto 1584), non era rimasta al principe sabaudo altra soluzione che quella di giocare sino in fondo la carta dell'appoggio spagnolo. Ma Filippo II aveva subito fatto intendere di voler predisporre ogni cosa a suo modo: prima, facendo intervenire il governatore di Milano per sorvegliare da vicino ogni minimo particolare relativo all'allestimento dell'impresa, poi attendendo che si profilasse qualche possibilità di accomodamento dall'arbitrato delle assemblee elvetiche (o dai buoni uffici dei Guisa presso Enrico III) e ponendo nuove condizioni sulla condotta delle operazioni militari, col risultato di tirare per lungo le cose oltre gli stessi limiti di prudenza che C. E. s'era imposto per la circostanza.
Quando nel luglio 1586 si stabilì infine di comune accordo di passare all'azione, il momento propizio era ormai svanito. Gli indugi degli avversari avevano consentito a Ginevra di stringere le sue maglie difensive e di raccogliere altre forze fra i protestanti in Germania e Francia.
Deluso dagli scarsi risultati dell'amicizia spagnola e deciso a far da sé, C. E. - che fino allora aveva ritenuto racquisto di Ginevra indispensabile per la sicurezza dei propri domini - cercò di prendersi un'immediata rivincita spostando i suoi obiettivi verso la penisola e sul versante francese.
Lo confortava in questa risoluzione la certezza che la Savoia gli fosse ormai saldamente devota, dopo le riforme amministrative del padre e il rafforzamento dei presidi militari, ma soprattutto la convinzione che, al punto in cui erano giunte le cose in Francia, Enrico III (costretto ad abbandonare la stessa capitale dopo l'offensiva di Enrico di Navarra e a mal partito di fronte alle trame di Enrico di Guisa) avesse ben poche possibilità di intervenire su un terreno così lontano come il Saluzzese o il Delfinato, tanto più con la Spagna proiettata all'offensiva su tutto lo scacchiere europeo. A una preparazione diplomatica più accorta (che a lungo aveva contribuito a fuorviare l'attenzione sui reali propositi sabaudi dietro lo schermo di una riedizione delle pretese sul Monferrato o su Ginevra, onde a Madrid Filippo II s'era affrettato a far pervenire al genero preoccupati ammonimenti perché se ne stesse "più quieto nell'animo") s'era accompagnata, in questo caso, una organizzazione più efficace e discreta dei preparativi militari. Ma, soprattutto, C. E. aveva evitato di aspettare il beneplacito di Madrid manovrando con successo per linee interne, sia pur sottili e sempre sul punto di spezzarsi, trattando sottomano con il Lesdiguières che continuava a tenere il Delfinato e alimentando, in pari tempo, nel Saluzzese i timori che le forze del luogotenente francese non fossero sufficienti a bloccare un'eventuale calata degli ugonotti. D'altra parte, i Savoia potevano vantare antichi diritti feudali su Saluzzo, anche se il trattato di Cateau-Cambrésis aveva sancito la soggezione del marchesato alla corona francese e i negoziati condotti qualche anno prima in vista di un matrimonio con Cristina di Lorena avevano confermato la volontà di Parigi di escludere la cessione del Saluzzese dal novero delle ipotesi di accordo.
A nulla sortì l'estremo tentativo del nuovo ambasciatore spagnolo a Torino de Acuña (successo nel marzo 1588 al barone Sfondrato) perché C. E. rinunciasse ai suoi progetti, col pretesto che essi avrebbero recato danno alla causa di Filippo II impegnato in quel momento nell'offensiva contro l'Inghilterra; né valse a scoraggiarlo il rifiuto del governatore di Milano, duca di Terranova, di assicurargli adeguati rinforzi in caso di bisogno. Il pericolo di una scorreria degli ugonotti nel Saluzzese, e quindi del propagarsi dell'eresia nelle sue stesse terre, assai meno reale di quanto il principe sabaudo non amasse far credere nell'intento di trarre dalla propria parte Sisto V e di legittimare quindi la sua iniziativa, servì assai bene a dare parvenze difensive a una strategia che si rivelò, fin dai primi giorni, una vera e propria offensiva ben concertata per impadronirsi dell'intero marchesato, al di là di alcune mosse tattiche per salvaguardare l'incolumità del ducato da un'avanzata dei capi ugonotti con cui del resto il governo di Torino continuava a tenere segrete relazioni. Espugnata di sorpresa Carmagnola (28 sett. 588), l'esercito piemontese occupò infatti, una dopo l'altra, le piazze di Centallo, Saluzzo e Revello per completare infine, nel giro di due mesi, la conquista del Saluzzese senza incontrare eccessiva resistenza.
C. E. aveva saputo cogliere al volo l'occasione che gli offrivano le difficoltà in cui si dibatteva la Francia, per riprendersi d'un colpo quella libertà d'azione che sia il fallimento dei piani su Ginevra sia la soffocante tutela della Spagna gli avevano fino allora precluso. Di fronte al fatto compiuto, vani erano stati i tentativi del sovrano francese perché il duca di Savoia cedesse il governo del marchesato di Saluzzo al cugino duca di Nemours, mentre Filippo II (pur irritato dall'impresa del genero che aveva minacciato in precedenza di abbandonare alla sua sorte senza dargli "né un soldato né un reale") aveva dovuto ricredersi impegnandosi a sostenerlo, sia pur sottobanco, per non rimettere in discussione le ragioni dell'atteggiamento filospagnolo del governo sabaudo e non far cosa sgradita al pontefice, timoroso dei progressi degli ugonotti nel Delfinato.
Fu così possibile a C. E. respingere, con l'aiuto decisivo del governatore di Milano, l'attacco mossogli da Ginevra verso la Savoia da una coalizione organizzata per iniziativa congiunta di Enrico III e di Enrico di Navarra, con l'apporto di Berna e di altri Cantoni svizzeri (aprile 1589). Sembrava, anzi, che fosse venuto il momento favorevole per saldare i conti con Ginevra, quando l'assassinio quattro mesi dopo del sovrano francese spinse C. E. ad avventurarsi in un'altra più spericolata sortita, unendo la conquista del Saluzzese con quella del Delfinato e della Provenza.
Bloccato a suo favore il conflitto nei confronti di Ginevra (con l'intenzione di riaprirlo non appena lo giudicasse opportuno) tramite un accordo di pace con Berna che gli lasciava mano libera (Noyon, ottobre 1589), il duca si preparò a calare in Provenza, accampando i suoi diritti alla corona francese come figlio di Margherita di Valois, e incitando la Lega alla lotta contro Enrico di Navarra in nome della comune causa cattolica.
Del resto, da troppo tempo era andato attizzando il fuoco (con segrete trame a Lione, a Marsiglia, a Valence e in altri centri) per acconciarsi a un atteggiamento di neutralità - come gli veniva autorevolmente consigliato da Madrid - e per rinunciare, quindi, a un voto del Parlamento di Aix, il quale lo invitaya ad assicurare con un intervento diretto la protezione della Provenza e degli interessi cattolici.
Preceduto da un corpo di spedizione al comando del conte di Martinengo, inviato sul posto nel luglio 1590, C. E. assumeva formalmente, il 23 novembre, il governo della Provenza "sotto l'obbedienza e l'autorità del re e della corona di Francia".
Nel breve spazio di due anni la situazione che aveva inchiodato il ducato sabaudo, stretto fra Francia e Spagna, a una posizione di umiliante soggezione, sembrava essersi capovolta. L'irrequietezza di C. E. aveva finito col prendere la mano a Filippo II mentre la Francia, stremata dalle lotte interne e minacciata da un'offensiva del Farnese dalle Fiandre, pareva ormai fuori del gioco. In realtà s'era trattato di un fuoco di paglia. Nel vorticoso giro delle pesanti contribuzioni finanziarie imposte dalla veemente politica di C. E. s'erano disperse le poche risorse economiche del paese mentre le forze militati erano troppo esigue per garantire l'espulsione dei Francesi dalla regione alpina e presidiare nello stesso tempo i nuovi acquisti in Provenza.
Bastò la ripresa delle ostilità da parte del Lesdiguières (impadronitosi agevolmente di Grenoble alla fine dell'anno 1590) per far crollare tutto l'impianto faticosamente costruito pezzo per pezzo dai tempi della prima sortita contro Ginevra, e per rendere ancor più pesanti i legami con la Spagna. A ben poco valse infatti il viaggio intrapreso da C. E. nel marzo 1591 alla volta di Madrid per sollecitare personalmente l'aiuto della corona spagnola. Al momento del suo ritorno in Piemonte, il Lesdiguières, che aveva sbaragliato le ultime resistenze piemontesi in Provenza e in Savoia, s'accingeva a varcare il Monginevro (settembre 1592). Sicché la nuova campagna iniziata nel maggio 1593, con l'aiuto di Clemente VIII e alcuni rinforzi spagnoli, non fu che una spossante battaglia di retroguardia per sbarrare il passo all'invasione dell'intero ducato. In queste condizioni, e con tutti gli svantaggi di ordine diplomatico seguiti all'abiura e al definitivo successo di Enrico IV entrato nel marzo 1594 a Parigi (dal graduale mutamento d'indirizzo della Curia romana alla tregua d'armi con la Spagna), fu già un notevole successo se C. E. riuscì a recuperare (ottobre 1594) la piazza di Bricherasio e la rocca di Cavour (ma non il forte di Exilles, passaggio obbligato sulla strada dalla Francia), e a ottenere infine nell'agosto 1595 una sospensione dei combattimenti, che egli sperava fosse il preludio di un accordo generale di pace (conferenze di Bourgoin, Pont-Beauvoisin e Susa).
Anche se non erano cadute tutte le speranze di riaggiustare la situazione, arrivando magari a un'intesa diretta con Enrico IV, molti dei fattori da cui C. E. aveva tratto animo e forza in passato, s'erano andati dissolvendo. La lunga guerra nell'alto Piemonte, e poi sin quasi alle soglie della capitale, aveva prodotto danni irreparabili alle campagne e decimato le capacità contributive dei sudditi (nel 1592, in soli quindici giorni, fra donativi e imposte straordinarie s'erano levati più di 100.000 scudi, a non contare le requisizioni per i viveri e l'alloggiamento delle truppe). Quel tanto di coesione fra le diverse Comunità dei domini sabaudi che era stato arduo ricostruire dopo tante lacerazioni politiche e territoriali appena rimarginate, aveva sofferto durante le ultime vicende militari profonde incrinature. Mentre l'obiettivo che aveva concorso a tenere unita la classe dirigente, la conquista di Ginevra, s'era sempre più allontanato. Era stata questa meta a guidare i primi passi di C. E., convinto altrimenti di non potersi "chiamare padrone di Savoia", ed essa era rimasta negli anni successivi al centro dei rapporti con la Spagna e di ogni altra iniziativa, nella certezza che sarebbe stato impossibile far valere altrimenti sul piano diplomatico i diritti sabaudi. Al confronto, le rivendicazioni sul Monferrato erano passate in seconda linea mentre non si riteneva che l'acquisto del marchesato di Saluzzo potesse tramutarsi in possesso definitivo. Non s'era spento infatti alla corte francese lo sdegno per l'affronto subito, e bruciava ancora alle orecchie di C. E. l'epiteto di "ladrone savoiardo". A suo giudizio, solo la questione di Ginevra, la prospettiva di liquidare una volta per tutte la principale cittadella dal movimento calvinista, avrebbe potuto far breccia prima o poi sulle grandi diffidenze e sull'esasperante atteggiamento dilatorio ostentati dal governo di Madrid.
Il consolidamento delle fortune di Enrico IV e la morte di Filippo II (1598), seguita di poco alla scomparsa (7 nov. 1597) della moglie Caterina, rimisero in discussione le direttive fino allora seguite e diedero uno sbocco imprevisto ai progetti di Carlo Emanuele I. Sebbene a un accordo con il sovrano francese si opponessero sia la Spagna sia gli altri principati italiani (dal granducato di Toscana, che intendeva mantenere la preminenza nei rapporti con Parigi collocando per la seconda volta sul trono francese una principessa medicea, ai Gonzaga che temevano il rafforzamento del ducato sabaudo e quindi delle pretese sul Monferrato, a Venezia che auspicava un ritorno dei Francesi a Saluzzo, con un piede fermo in Italia, quale contrappeso alla preponderanza spagnola nella penisola), la ricerca di una valida intesa con Enrico IV divenne la direzione di marcia obbligata della politica di C. E. nelle difficili strette precedenti il trattato di Vervins. Alternando le trattative di pace con la ripresa delle ostilità (coronate nel febbraio 1598 da un brillante successo che era valso a sloggiare le forze del Créqui dalla Maurienne), il duca riuscì infine a ottenere l'ammissione dei suoi plenipotenziari al tavolo dei negoziati di pace (2 maggio 1598) e l'attribuzione a Clemente VIII dell'arbitrato sulla questione di Saluzzo.
Tre lunghi anni sarebbero tuttavia passati prima che si potesse giungere a una definizione della controversia. Se Enrico IV era interessato a un riavvicinamento con i Savoia (tanto più in un momento di grave imbarazzo della Spagna, ancora disorientata dal vuoto politico lasciato dalla scomparsa di Filippo II), non era tuttavia disposto a transigere sul prezzo da pagare contando sul progressivo cedimento del "duc sans Savoye" (come sprezzantemente definiva C. E.) e sulla ripresa a Torino di un forte "partito francese".
L'incontro fra i due diretti protagonisti nel dicembre 1599 a Fontainebleau, per quanto preparato con ogni cura dal duca (che aveva messo in moto, a conforto dei suoi diritti, tutte le armi della diplomazia sabauda e sondato le intenzioni del pontefice), si risolse in un'estenuante schermaglia senza alcun risultato concreto. Anzi - nella misura in cui registrò da parte di C. E. (messo di fronte all'alternativa di una immediata riapertura del conflitto o di un trattato svantaggioso) il consenso di massima a una soluzione di compromesso basata sulla restituzione di Saluzzo, in cambio della nomina di un governatore gradito al governo piemontese - l'esito del convegno parve dar ragione alle previsioni del sovrano francese: "Mes prédécesseurs ont mis le duc de Savoye en pourpoint, je le mettrai en chemise". Questa prospettiva si sarebbe puntualmente realizzata se C. E., perso per perso, non avesse deciso, al ritorno a Torino, di soprassedere agli impegni assunti in Francia e di ricorrere ancora una volta all'aiuto di Madrid per fronteggiare le rappresaglie di Parigi, profilatesi nell'agosto 1600 con una nuova massiccia offensiva del Lesdiguières. Con le finanze ormai esauste e il pericolo di sommosse interne, fu gran ventura per il principe sabaudo trovare presso Filippo III, preoccupato dalle ambizioni egemoniche di Enrico IV, un aiuto più consistente di quanto avesse osato sperare, e scoprire in Clemente VIII, irritato per la noncuranza con cui si guardava da parte francese al mandato conferitogli e desideroso di farsi garante della pace conclusa fra Francia e Spagna, un mediatore ostinato ed efficace. Il legato pontificio Pietro Aldobrandini, inviato a celebrare le nozze di Enrico IV con Maria de' Medici, riuscì dopo molti stenti a concordare infine un'intesa, sancita nel trattato di Lione del 17 genn. 1601.
C. E. cedeva alla Francia Casteldelfino, la Bresse, i territori di Bugey, Valromey e Gex, e s'impegnava a smantellare la fortezza di Béche-Dauphin e a pagare 100.000 scudi; in compenso, conservava il marchesato di Saluzzo e il possesso delle fortezze di Centallo, Demonte, Roccasparvera e del ponte di Grésin, sul Rodano con i villaggi vicini, ossia di uno degli itinerari più importanti nelle comunicazioni fra la penisola, la Franca Contea e i Paesi Bassi. Quello che a prima vista era sembrato un cambio estremamente vantaggioso per la Francia, grazie all'acquisizione di province assai più estese e prospere del Saluzzese, si rivelò a una più ponderata valutazione un successo non indifferente della diplomazia sabauda. Malgrado la sconfessione dell'operato dei suoi plenipotenziari e le tergiversazioni con cui C. E. aveva cercato di rimandare la ratifica definitiva del trattato, egli a giudizio del Lesdiguières - "avait agi en prince et le roi en marchand". Di fatto, aveva arrotondato e consolidato i suoi possessi sul versante italiano, con la prospettiva in futuro di una maggiore omogeneità politica e territoriale del ducato, sacrificando regioni periferiche che comportavano un'onerosa dispersione di forze e che sarebbe stato comunque difficile conservare di fronte alle proiezioni espansive della corona francese.
Egli stesso lo avrebbe rilevato pochi anni dopo nei suoi Ricordi aggiunti al testamento del 1605, quando osservava che il "cambio grasso [per Enrico IV] era però in effetti così sicuro per questi Stati e dannoso per i Francesi che ogni volta che si volesse riscambiare, sempre i Francesi lo feriano, ma in niuna maniera conveniva farlo, perché si metteva l'inimico nel cuore e nelle viscere di qua in Piemonte. Ed è molto meglio aver uno Stato unito tutto, come è questo di qua da' monti, che due, tutti due mal sicuri, tanto più che, ritenendo il marchesato di Saluzzo, si difficoltà assai ai Francesi la calata in Italia".
Tuttavia la svolta determinata dal trattato di Lione non venne avvertita immediatamente a Torino. Anzi, la prospettiva di un'espansione al di la delle Alpi si riaffacciò in occasione della congiura del maresciallo di Biron contro Enrico IV, a cui C. E. aveva prestato mano, e venne sostenuta con un nuovo assalto a sorpresa contro Ginevra, appoggiato da Filippo III (11 dicembre 1602), ma andato a vuoto come i precedenti tentativi di conquista del 1582 e del 1589. Un accordo nel luglio 1603 ribadì le clausole del trattato del 1570, la reciproca restituzione delle terre indebitamente occupate dall'una e dall'altra parte, e l'obbligo del governo di Torino di non assembrare soldatesche o costruire fortezze alla distanza di quattro leghe dalla città.
Per quanto si trattasse di una soluzione di compromesso temporanea, essa segnò di fatto la fine dell'"ossessione ginevrina" di C. E. e lo spostamento dei suoi interessi al versante italiano: non senza, peraltro, l'intermezzo di ambiziosi quanto chimerici disegni politici e di prestigio. Inviando nel 1603 i figli Filippo, Vittorio Amedeo e Filiberto a Valladolid per compiervi la loro educazione, il duca non nascose infatti le sue intenzioni di mettere le mani avanti nella successione alla corona spagnola qualora Filippo III fosse rimasto senza erede, o di strappare comunque per il secondogenito l'investitura del Regno di Napoli; e, ristabilendo le relazioni diplomatiche con il governo di Londra in occasione dell'avvento di Giacomo I, arrivò a progettare una lega della Spagna e delle altre potenze cattoliche con l'Inghilterra. Né le sue iniziative si fermarono a questo punto, dal momento che nello stesso tempo avviava segreti maneggi per assicurarsi il possesso di Cipro e il titolo regio.La conversione agli affari italiani e l'orientamento verso la Francia emersero lentamente nel corso del 1605, in concomitanza con una più puntuale verifica (alla luce della concreta situazione della penisola) dei motivi ispiratori della precedente alleanza con la Spagna e con il periodo di maggior fulgore del regno di Enrico IV. Sia che riconsiderasse lo "status questionis" relativo al Monferrato, sia che riesaminasse il contenzioso ancora aperto con i Medici sui diritti di precedenza e il trattamento regio, sia ancora che si soffermasse sulla controversia con Genova per le sue mire sulla Riviera di Ponente o con i Grimaldi in merito alla giurisdizione dei feudi di Mentone e Roccabruni, C. E. si trovava infatti a batter la testa con l'ostilità preconcetta della Spagna a qualsiasi mutamento sia pur formale, dell'assetto vigente.
Al governo di Madrid davano ombra tanto i negoziati dei Savoia per stabilire alleanze matrimoniali con i Gonzaga e gli Estensi, quanto i tentativi del duca di inserirsi più attivamente nel giro dei rapporti politici della penisola, sia pur con la semplice ambizione di far da paciere (come in occasione della contesa sulla giurisdizione ecclesiastica fra Venezia e la S. Sede, seguita all'interdetto di Paolo V del 1606). Né il patronato di Filippo III sui figli aveva recato a C. E. alcuno dei frutti originariamente sperati. Anzi, dopo la morte nel febbraio 1605 del primogenito Filippo e la nascita di un erede alla corona spagnola, il soggiorno degli altri due figli in Spagna s'era trasformato in una sorta di pegno forzato in mano alla corte di Madrid a ulteriore garanzia della pesante tutela già esercitata sul governo di Torino.
Sebbene l'alleanza col re cattolico mostrasse ormai la corda, i tempi di un avvicinamento alla Francia segnarono tuttavia il passo per lungo tempo.
Non era facile sgomberare il campo a Parigi dal codazzo di rancori mai sopiti seguito all'occupazione sabauda del Saluzzese mentre, da una parte e dall'altra, si diffidava reciprocamente della condotta imprevedibile e delle ambigue sottigliezze diplomatiche dei due protagonisti, come del resto era apparso ancora una volta nel 1604-1605 in occasione dei sondaggi intrapresi per iniziativa di Enrico IV sulla possibilità di rivedere i termini dello scambio avvenuto con il trattato di Lione (a patto di una neutralità dei Savoia), o sulle reazioni di C. E. a un approfondimento dei negoziati in vista di un'eventuale lega offensiva in Italia. Ma, soprattutto, i rispettivi interessi continuavano ad essere profondamente distanti fra loro. Per il sovrano francese era essenziale rimettere piede in Italia puntando su una restituzione di Saluzzo, o magari sull'acquisizione della città di Cuneo, ma ciò avrebbe significato riaprire le porte del Piemonte all'ingerenza diretta di Parigi. Per il duca di Savoia, l'eventualità di un'intesa, più intima con Enrico IV, raccomandabile sotto molti aspetti (perché - egli osservava nelle istruzioni del 1605 al figlio - "è tanto grande il male e forte che ci può fare quel re, confinando [ … ] tutta la Savoia, E Piemonte e il contado di Nizza e Barcellonetta, ch'io lauderei sempre di stringere bene da quella parte, dove può venir il danno maggiore, e massime con gli aiuti sì lenti, limitati e pochi ch'abbiamo avuto sino a qui de' Spagnoli"), avrebbe dovuto bilanciare almeno i vantaggi dell'alleanza esistente con la Spagna, e in concreto la restituzione senza alcun compenso territoriale delle province transalpine cedute nel 1601, con in più la garanzia per gli sviluppi futuri di un buon matrimonio dell'erede al ducato con la figlia del re di Francia, o della sua ultimogenita con il delfino. Stando così le cose, soltanto qualche grosso fatto nuovo sul piano internazionale avrebbe potuto creare una qualche proficua occasione di convergenza fra i due governi.
In effetti sarebbero passati altri quattro anni prima che maturasse un capovolgimento di fronte della politica sabauda. Nel frattempo l'obiettivo di un'alleanza con la Francia si era venuto precisando. Fin dalla missione a Parigi di Mercurino Arborio Gattinara nell'ottobre 1607 era emerso l'interesse di C. E. per una spartizione della Lombardia, sulla base di una lega con la Repubblica di Venezia che avrebbe ricevuto in compenso Cremona e la Ghiara d'Adda.
Nel frattempo giungevano in porto le pratiche di matrimonio col duca di Mantova e con quello di Modena: nel 1608 la principessa Margherita sposava Francesco Gonzaga e Isabella si univa con Alfonso d'Este. La politica di C. E., attenta a stabilire solidi rapporti di buon vicinato con gli altri principati italiani, sembrava dare qualche frutto. Intanto segni inequivocabili della volontà del duca di scrollarsi di dosso certe pesanti ingerenze della Spagna, giudicate ormai inammissibili, si manifestavano alla corte di Torino: dopo l'allontanamento dei consiglieri più devoti alla causa spagnola (a cominciare dal segretario di Stato Roncas, notoriamente stipendiato dal governo di Madrid), seguì nel gennaio 1605 l'esecuzione del conte d'Albigny, già governatore in Savoia, a cui si rimproverava di tenere informato Filippo III, per odio personale verso Enrico IV, in merito ai nuovi disegni politici coltivati dal suo signore.Non valse a distrarre C. E. dai propositi di espansione verso il Milanese né il fallimento delle trattative per una confederazione italiana in funzione antispagnola (dopo il rifiuto del duca di Mantova, le esitazioni di Venezia e il riavvicinamento fra Madrid e la S. Sede), né le tergiversazioni di Enrico IV di fronte a nuove proposte degli emissari sabaudi e alla richiesta di una risposta definitiva in merito alle combinazioni matrimoniali di cui più volte s'era parlato. D'altra parte, non sortivano ad alcun esito fra il 1608 e il 1609 due iniziative a cui Filippo III aveva dato corda per blandire l'amor proprio del duca di Savoia e tenerlo sotto controllo, fuori dal terreno minato degli affari italiani.
Il progetto di una spedizione contro l'Impero ottomano a Cipro (la quale avrebbe dovuto esser appoggiata dalla Spagna e da Roma e conferire a C. E. quel titolo regio da lui tenacemente ambito) naufragò infatti anzitempo dinnanzi all'opposizione di Venezia, prima ancora di fare i conti con la robusta potenza militare della Sublime Porta (sollecita comunque da parte sua a prevenire e, quindi, a liquidare il moto insurrezionale dei Ciprioti). Mentre analoghe trame incoraggiate fra alcuni signori macedoni da emissari sabaudi per una sollevazione che, estesa anche ad altri capi locali di Serbia e Bulgaria, avrebbe dovuto portare all'elezione a loro re di C. E. o di uno dei suoi figlioli, si scontrò - prima ancora che con un complesso di dati di fatto che la sbrigliata fantasia del duca di Savoia e l'estrema vaghezza dei suoi piani sembravano non tenere in alcun conto - con il rifiuto di Madrid di abbinare all'appoggio in favore dell'"impresa del Levante" altre singolari concessioni che la riguardavano più da vicino (dalla Sardegna, a Finale con Mentone e Roccabruna, a una parte del Monferrato da procurarsi ai Savoia con l'acquisto per conto dei Gonzaga di Sabbioneta).
Che C. E. credesse veramente in questi velleitari progetti o che di essi si servisse come diversivo per celare i suoi reali propositi, sta di fatto che la sua irrequietezza - alimentata dalla vanità del titolo regio (l'unica acquisizione che, stando alle istruzioni date al conte di Verrua, inviato a Madrid alla fine del 1608, sarebbe stata in grado di farlo emergere dal "mazzo degli altri principi d'Italia") - era ormai giunta a un punto tale da portarlo ad arrischiare, alla prima scintilla, il passo decisivo.
La disputa insorta in Germania fra l'Impero e i principi protestanti in merito alla successione nel ducato di Clèves (marzo 1609) diede infine corpo al progetto di un'alleanza con il sovrano francese (accorso in difesa dell'unione di Hall nel timore che gli Asburgo procedessero all'occupazione di un territorio così importante al confine fra le Fiandre e i Paesi Bassi) per un'offensiva concertata contro il Milanese.
I piani a lungo covati da C. E., per un consolidamento del principato sabaudo a spese della Lombardia e del Monferrato, sembravano inserirsi perfettamente nel "gran disegno" di Enrico IV di riassetto politico dell'Europa sotto l'egemonia di Parigi, nell'ambito del quale una confederazione di Stati di media grandezza (Savoia, Venezia e Domini pontifici) avrebbe dovuto bilanciare la preponderanza spagnola nel sud della penisola.
Su queste basi veniva concluso il 24 apr. 1610 a Bruzolo (in Val di Susa) un duplice trattato, per cui da un lato si stabiliva un'alleanza difensiva e offensiva fra la Francia e il Piemonte (aperta all'adesione di altri Stati italiani) e, dall'altro, C. E. si impegnava a scendere in campo con le sue forze (appoggiate da quelle del Lesdisguières) contro la Spagna puntando su Milano, in cambio della Lombardia. Senonché la morte violenta di Enrico IV (14 maggio) troncò ogni progetto qualche giorno prima dell'inizio delle ostilità lasciando il duca, ormai compromesso, esposto alla rappresaglia della Spagna. In questa circostanza fu una fortuna per C. E. che venisse a morte due mesi dopo il governatore di Milano conte di Fuentes che, fortificate Alessandria e Novara, si apprestava a capo di 30.000 uomini a invadere il Piemonte. Ma egli non poté evitare, anche di fronte all'avvicinamento fra la Francia e la Spagna imposto dalla reggente Maria de' Medici, di fare i conti con Madrid, decisa, sia pur senza ricorrere alle armi, a dare una lezione esemplare alle velleità di indipendenza del principe sabaudo. Un'ambasceria straordinaria del conte della Motta non valse a rabbonire Filippo III onde non fu risparmiata a C. E. l'umiliazione di dover chiedere grazia per iscritto tramite il figlio Emanuele Filiberto, inviato nel frattempo a Madrid e costretto, nel rimettere la supplica del padre, a implorare in ginocchio e pubblicamente debita assoluzione (19 nov. 1610).
Dalla sfortunata conclusione dell'approccio franco-sabaudo il duca non uscì tuttavia con le ossa rotte. Se aveva dovuto pagare un duro prezzo all'arroganza del sovrano spagnolo (tale da rodergli l'anima ma da non segnarlo indelebilmente), aveva preservato in compenso lo Stato sabaudo da una catastrofe e mantenuto intatti i suoi possedimenti. E già questo era stato un discreto successo, considerata anche la situazione interna in cui versava il paese. Il decennio di pace trascorso dal trattato di Lione non era bastato infatti a reintegrare le risorse del ducato sabaudo dopo le dure prove cui la popolazione era stata chiamata nel primo periodo del regno.
Alle ricorrenti cadute della produzione agricola in coincidenza e al seguito delle varie levate e campagne militari, s'era accompagnata una costante svalutazione della moneta che nemmeno gli anni di normalità politica dopo il 1601 erano riusciti ad arrestare. Se ciò era dovuto in parte alla presenza di troppe monete "basse" di lega scadente (grossi o sottomultipli) o di monete adulterate, e all'inosservanza delle norme sull'introduzione di coni forestieri parimenti esosi e "tosati", un ruolo non indifferente nel processo di deprezzamento avevano continuato ad avere le immediate e urgenti necessità della finanza pubblica, le spese di prestigio e per negozi diplomatici di una corte che doveva largheggiare in pensioni ed emolumenti per star dietro all'ambiziosa politica del sovrano, oltre agli stanziamenti richiesti da un esercito sempre sul piede di guerra. Successive misure di risanamento assunte da C. E. avevano dato ben scarsi risultati; né d'altra parte le forti immissioni (per esigenze belliche e di altra natura) di monete "basse", il cui valore era inferiore al nominale d'emissione, erano certo tali da migliorare la situazione ma contribuivano anzi ad aggravarla, così come per altra parte i provvedimenti coattivi per l'"abbassamento" delle monete che, se non erano insoliti anche in altri Stati, si susseguivano tuttavia in Piemonte con troppa frequenza perché raggiungessero anche quel minimo di effetti positivi sulla circolazione che le autorità si ripromettevano. In ogni caso, C. E. non era riuscito a bloccare il vasto giro di speculazioni connesso alla penetrazione di monete straniere di basso conio o falsificate, e all'esportazione di oro e di argento, indice non certo marginale di uno stato di disordine e di frammentazione che trovava conferma anche in altri campi, a cominciare da quello delle rendite ecclesiastiche. Varie terre rimaste sotto la tutela diretta della Chiesa (come il feudo di Masserano), numerose parrocchie ancora governate da vescovi francesi, larghe evasioni fiscali sui benefici ecclesiastici, una massa aggrovigliata quanto tenace di vecchi privilegi, refrattari a qualsiasi tentativo di riscatto da parte del governo, e altri abusi ancora contribuivano a rendere quanto mai precaria la potestà amministrativa, del principe e non concorrevano, certo, ad alleviare le condizioni delle Comunità e delle finanze pubbliche. Né C. E. aveva potuto spingersi oltre un certo limite nei suoi volenterosi tentativi di porre rimedio in qualche modo a questo stato di cose, dato il costante interesse nutrito da Torino per l'appoggio della Curia romana (rivelatosi determinante, come lo era stato durante la controversia per Ginevra e nei preliminari al trattato di Lione, anche in occasione dei successivi sondaggi con la Francia e delle ultime pratiche diplomatiche per un onorevole componimento con la Spagna). Né egli aveva voluto gravare la mano sulla nobiltà che, malgrado tutto, gli continuava a dimostrare fedeltà. Anzi, costretto dalle permanenti necessità di danaro, aveva dovuto ricorrere ad alienazioni del suo stesso patrimonio, moltiplicare uffici e investiture, concedere grazie e vendere feudi vacanti per avere di volta in volta di che colmare i larghi vuoti delle casse ducali.
Con una situazione finanziaria non certo florida (l'ultimo espediente per far quattrini era stata l'introduzione nel 1610 di una tassa di registrazione sugli atti notarili) e con una popolazione che non aveva fatto in tempo a riprendere fiato (gravata dai "tassi" sulla proprietà fondiaria, di cui era esente la nobiltà, e da numerosi balzelli sui consumi, sui raccolti di grano, di riso, sui bozzoli, su fiere e altre attività), sarebbe stato lecito attendersi da C. E. una condotta politica più prudente, di miglioramento e di restaurazione delle forze dello Stato, tanto più dopo il gravissimo pericolo corso nel 1610. Erano bastate invece le dimostrazioni d'affetto popolare del giugno 1611, allorché s'era sparsa a Torino la voce di un presunto attentato alla sua vita per mano di un francese, per rassicurare C. E. sulla inalterata devozione deisudditi e confortarlo nei propositi di rivincita. E la messa a punto di altri maneggi diplomatici (in vista di una lega di principi italiani appoggiata dalle potenze protestanti, di un accordo matrimoniale per il figlio Vittorio Amedeo con i Medici, tale da portargli in dote nuovi territori, o di un buon accordo con l'Inghilterra che gli assicurasse, oltre a una parentela di prestigio con la casa reale inglese, qualche prezioso aiuto finanziario) fu sufficiente per riconfermarlo nel convincimento di avere ancora parecchie carte da giocare, in altalena fra Francia e Spagna, sullo scacchiere internazionale. Sicché, alla morte senza discendenza maschile di Francesco IV Gonzaga (22 dic. 1612), egli non esitava a ricorrere alle armi pur di far valere le sue rivendicazioni sul Monferrato, sostenendo il carattere femminino di tale feudo e, quindi, i diritti di successione della nipote Maria (l'unica figlia nata dal matrimonio del duca di Mantova con Margherita di Savoia), la cui tutela toccava alla madre e a lui come nonno materno.
Nell'aprile 1613, senza attendere il risultato definitivo dei complessi negoziati avviati per la legittimazione delle sue pretese (abilmente contestate punto per punto dal cardinale Ferdinando Gonzaga, appoggiato dalla corte spagnola), occupava di sorpresa Alba, Trino e Moncalvo, minacciando di avanzare risolutamente verso Nizza Monferrato e Casale, soccorsa all'ultimo momento da un drappello di Francesi al comando di Carlo Gonzaga duca di Nevers. Sembrava a C. E. che - approfittando degli indugi della Francia (afflitta dai dissidi interni riaccesisi sotto la reggenza di Maria de' Medici) e della Spagna (diffidente del cardinale Ferdinando Gonzaga e forse disposta a una spartizione del Monferrato) - gli potesse riuscire lo stesso colpo di mano già portato a termine con successo al tempo della conquista del marchesato di Saluzzo. Ma le cose andarono ben diversamente. Di fronte alle forti pressioni di Madrid (che aveva provveduto a concentrare sul confine con il Piemonte le forze del governatore di Milano Hurtado de Mendoza e ordinato a una flotta in viaggio verso il Levante di portarsi sotto Nizza e Villafranca) e al crescente isolamento diplomatico dei Savoia nei rapporti con gli altri Stati della penisola (convinti, in un primo momento, che C. E. avesse agito su istigazione della Spagna e preoccupati, poi, di salvaguardare ad ogni costo la pace in Italia), il duca dovette sgomberare (il 18 giugno) le città di cui s'era impadronito e accingersi a un difficile braccio di ferro con Madrid.
La Spagna, oltre a voler regolare a modo suo la questione della successione dei Gonzaga, pretendeva il disarmo immediato delle milizie sabaude, pena l'invasione del Piemonte. Ma fu proprio questa intimazione perentoria che non ammetteva replica, formalmente inaccettabile e respinta con successo sul campo di battaglia nel settembre 1614 (dopo l'assalto su Novara e il forzato ripiegamento degli Spagnoli), a trasformare di colpo il dissenso e l'ostilità con cui da altre parti d'Italia s'era reagito alla scorreria nel Monferrato del "gobbo savoiardo" in aperta simpatia per la causa sabauda. Venezia, che aveva rotto qualche mese prima le relazioni diplomatiche (ma ormai convinta delle buone ragioni politiche illustrate da C. E. al nuovo ambasciatore Rinieri Zen sulla necessità inderogabile di "scuoter questo giogo che gli Spagnoli ci vogliono mettere"), fu la prima a ricredersi agendo di concerto con Roma per una soluzione della contesa in termini onorevoli per gli interessi piemontesi. Né d'altra parte la Francia, di fronte alla minaccia incombente sul Piemonte, poteva permettersi di restare alla finestra, col rischio di trovarsi gli Spagnoli a ridosso delle Alpi e di perdere nel frattempo una pedina preziosa del suo gioco politico in Italia come era stata fino allora l'amicizia del duca di Mantova.
Il secondo trattato di Asti (21 giugno 1615), successivo a un primo trattato (proposto il 1º dic. 1614 dal nunzio pontificio Savelli e dall'ambasciatore francese marchese di Rambouillet) che aveva segnato una breve tregua d'armi fra le due parti, sancì il successo politico e morale dell'impresa di Carlo Emanuele I. Non soltanto la Spagna doveva consentire - dietro garanzia della Francia (che tornava così a inserirsi negli affari italiani), di Venezia e dell'Inghilterra - un disarmo simultaneo ("se la Spagna - aveva detto C. E. - guadagna ancor oggi questo punto, da quindi innanzi noi principi d'Italia staremo ai suoi piedi"), ma il duca era autorizzato a ribadire formalmente le sue ragioni sul Monferrato, il cui esame veniva deferito al tribunale cesareo.
C. E. chiudeva così a testa alta lo scontro con il colosso spagnolo e dalla insperata conclusione traeva partito per consolidare le sue posizioni in coincidenza con l'ondata montante di consensi e di viva ammirazione per il fermo contegno da lui assunto, diffusasi qua e là per mezza Italia. A qualcuno poté sembrare anzi che fosse venuto infine il momento per l'emancipazione della penisola dall'egemonia di Madrid (onde C. E. fu esaltato come il paladino dell'indipendenza italiana contro l'oppressione straniera) e non mancò chi giunse a vaticinare un moto unitario sotto le sue insegne, al di là delle intenzioni del principe sabaudo e dei rapporti di forza reali. Tuttavia le voci di plauso che si levavano da uomini di lettere e da privati, la marea di argomentate scritture politiche, di ardenti poemi, di alati encomi e panegirici, di impetuosi libelli e di veementi esortazioni contro la Spagna servirono pur a qualcosa: a smuovere almeno alcuni principati italiani dal loro contegno abituale di mortificante rassegnazione e passività. In particolare, Venezia trovò la forza di uscire dal suo atteggiamento tradizionale di prudente neutralità. Alla luce di quanto andava succedendo in Piemonte, le mire espansionistiche dell'Impero sull'Adriatico (rifattesi avanti con la guerra di Gradisca, per l'eterna questione del Friuli, e con la protezione dei pirati uscocchi) e, su un altro versante, le ricorrenti violazioni alla sua sovranità da parte della marineria dei domini spagnoli del Napoletano indussero il Senato a valutare con più attenzione il pericolo di una manovra a tenaglia degli Asburgo nell'Italia settentrionale.
C. E. seppe valersi del lustro procuratogli da tanti cantori delle sue gesta (dallo Zuccolo, che lo additava come "lo scudo e la spada d'Italia", al Tassoni, al Testi, al Boccalini, che nel secondo trattato di Asti avevano visto le "esequie" della Spagna) e delle impazienze manifestate da più parti (come se, insieme con la reputazione, anche la potenza militare della corona cattolica fosse ormai "morta e sepolta"), per rompere gli indugi e dare di nuovo fuoco alle polveri. Passato all'offensiva ai primi di settembre del 1616 prendendo a pretesto l'inosservanza dei trattati da parte di Madrid (complice l'arrogante presunzione del nuovo governatore di Milano don Pedro de Toledo, notoriamente avverso ai patti di Asti e promotore di varie congiure interne prontamente sventate), l'esercito piemontese, battendo sul tempo gli avversari, riuscì a occupare Masserano e Crevacuore (postesi sotto la protezione della Spagna, per la complicità dei Ferrero-Fieschi feudatari della Chiesa) e, ricacciati gli Spagnoli in Lombardia, a penetrare nelle Langhe e nel Monferrato espugnando, dopo l'arrivo di rinforzi dalla Francia, San Damiano e Alba (marzo-aprile 1617). L'improvvisa diserzione dalla causa comune della corte di Parigi, nell'ambito della quale erano di nuovo andate prevalendo le tendenze ispanofile, privò il duca di Savoia di un successo che ormai sembrava a portata di mano. Stremata da un assedio di più di due mesi, Vercelli dovette capitolare (26 luglio 1617) mentre riemergevano, dopo gli entusiasmi suscitati dalle prime fulminee vittorie, le reciproche diffidenze fra Venezia e Torino: la prima, perplessa di fronte alle esitazioni di C. E. a portare decisamente l'offensiva nel Milanese, malgrado gli aiuti del Lesdiguières, e inquieta in pari tempo di fronte alla prospettiva di avere per vicino, in caso di successo franco-sabaudo in Lombardia, un principe troppo irrequieto e bellicoso; la seconda, sospettosa della riluttanza della Repubblica a dichiarare guerra aperta a Filippo III e insoddisfatta della sua irresolutezza sul piano militare. D'altra parte la Spagna, pur di tagliare la strada a una confederazione veneto-sabauda, si accordò con la Francia (capitolato di Parigi, 6 sett. 1617) per imporre la sospensione delle ostilità e regolare separatamente le questioni più gravi concernenti Venezia e la casa d'Austria e quelle con il duca di Savoia.
La successiva pace di Madrid (26 settembre) valse ad approfondire i motivi di dissenso nell'intesa a distanza fra i Savoia e la Serenissima: C. E. doveva rinunciare al Monferrato assegnato al protetto di Francesco II, Ferdinando di Mantova, e Venezia accontentarsi dell'internamento degli uscocchi. A dispetto dei sentimenti di italianità sbandierati da una parte e dall'altra, la Repubblica aveva badato, al primo annuncio delle proposte spagnole, a tenere aperte le porte ai negoziati, mentre il ducato sabaudo soltanto di fronte all'ambiguo ritardo con cui gli Spagnoli procedevano all'esecuzione dell'accordo di Pavia (9 ott. 1617) che stabiliva la reciproca restituzione delle terre occupate, a cominciare da Vercelli, era giunto a concordare (marzo 1618) una lega con Venezia, venutasi a trovare in una situazione critica per l'intenzione del viceré di Napoli duca di Ossuna di continuare la guerriglia marittima nell'Adriatico e per le pericolose trame del governatore di Milano, sfociate poi nella famosa congiura dell'ambasciatore spagnolo, marchese di Bedmar. Il fatto è che all'eccessiva circospezione di Venezia, rimproverata a buon diritto da Torino quale segno di una politica troppo gretta ed esclusiva, insensibile alle ragioni della "libertà d'Italia", faceva riscontro un attivismo frenetico e in ogni direzione della diplomazia sabauda, giudicato non a torto dal Senato veneto più congeniale alle vecchie ambizioni dinastiche dei Savoia, sempre in bilico fra Spagna e Francia, che all'acquisizione consapevole di un vero ideale nazionale, per cui mancava del resto il consenso di altri principi.
Che questa animosa prontezza nell'afferrare ogni occasione da cui potesse scaturire un qualsiasi vantaggio territoriale continuasse a ispirare, malgrado tutto, i disegni politici più intimi di C. E., lo si vide perfettamente al momento della guerra dei Trent'anni.
In sostanza, l'idea di una larga intesa fra gli Stati italiani da opporre all'egemonia spagnola era stata l'unico espediente cui far ricorso in una situazione d'emergenza che aveva visto, dopo la morte di Enrico IV, un riavvicinamento fra Parigi e Madrid e messo in pericolo, quindi, i principi basilari della politica dei Savoia, il loro serrato gioco di intrighi e compromessi, ora a fianco della Spagna ora a fianco della Francia, per mantenere una certa autonomia e libertà d'azione. Non appena il conflitto politico-religioso scoppiato nella Europa centrale nel 1618 annunciò i prodromi di un ennesimo duello fra Borboni e Asburgo, C. E. si affrettò a ritornare alle vecchie regole del gioco. Il matrimonio fra l'erede Vittorio Amedeo e Cristina di Francia, figlia di Enrico IV (10 febbr. 1619), rese evidente in quale direzione il duca di Savoia intendeva muoversi, tanto più in coincidenza con i vasti disegni da lui concepiti per trarre profitto dalla coalizione di interessi emersa in Germania e appoggiata dall'Olanda e dall'Inghilterra nella lotta contro gli Asburgo.
Accostatosi ai principi protestanti e assicurato il suo aiuto alla causa dei Boemi, per cui non mancò di sollecitare anche Venezia (dal momento che "ci voleva sangue e danaro"), egli mirava infatti alla corona regia di Boemia e intendeva porre la sua candidatura, in alternativa a Ferdinando d'Asburgo, alla dignità imperiale vacante dopo la morte dell'imperatore Mattia (come stabilito dalla convenzione di Rivoli del 18 maggio 1619 con gli emissari dell'elettore palatino e del margravio di Anspach). Fiducioso come sempre nella sua fertile immaginativa e nelle sue personalissime iniziative, C. E. non arretrò nemmeno quando il 28 ag. 1619 con voto unanime, nonostante i complessi maneggi diplomatici da lui orditi, Ferdinando venne eletto imperatore. Venuta meno anche la trama abbozzata dal vicerè: di Napoli Ossuna, il quale per proprie esclusive ambizioni aveva sondato il duca di Savoia proponendogli la Lombardia in cambio di un'alleanza con Venezia e il Lesdiguières, fu la questione della Valtellina a farlo scendere nuovamente in campo nel più vasto teatro della politica europea.
Il "sacro macello" (19 luglio 1620) con cui i cattolici valtellinesi su istigazione di Madrid avevano massacrato i Grigioni protestanti, padroni da più di un secolo della Valtellina e inclini a fare di Sondrio una "seconda Ginevra", e l'immediata invasione della regione da parte degli Spagnoli (decisi ad acquisire il controllo dei passi alpini che costituivano l'unica via rapida di collegamento dei loro possessi in Italia con i paesi del ramo austriaco e, indirettamente, con le Fiandre) erano d'altra parte avvenimenti troppo gravi, tali da mettere a repentaglio la sicurezza stessa e gli interessi strategici sia del ducato sabaudo sia di Venezia (per cui il libero attraversamento delle Alpi era questione vitale), perché non si riaffacciasse a Torino la prospettiva di una lega offensiva franco-veneta-piemontese. Tuttavia, soltanto dopo la morte del Luynes (che alla corte di Parigi s'era sempre opposto tenacemente a una rottura con la Spagna) e la palese inadempienza da parte del governatore di Milano duca di Feria del trattato di Madrid dell'aprile 1621 (per cui Filippo III s'era impegnato a sgomberare al più presto la Valtellina), C. E. riuscì a stanare Luigi XIII da un atteggiamento di passivo riserbo che minacciava ormai - anche alla luce dei successi degli Asburgo in Germania - di stringere l'Italia in una morsa definitiva e di modificare irreparabilmente l'equilibrio generale in Europa.
Alla lega firmata fra Savoia, Francia e Venezia il 7 febbr. 1623 seguì peraltro il rinvio per lungo tempo di ogni decisione operativa, in coincidenza con le iniziative diplomatiche spagnole per impedire che il sovrano francese si ponesse a capo del movimento antiasburgico, finché con l'avvento al potere del Richelieu, la firma del trattato franco-olandese del giugno 1624 e un nuovo legame familiare (il matrimonio fra Tommaso, principe di Carignano, con Maria di Borbone-Soissons), venne dato il via a una duplice offensiva che avrebbe dovuto concludersi con la cacciata degli Spagnoli dalla Valtellina e la conquista di Genova. Senonché, fallito l'attacco alla città ligure nonostante i progressi compiuti nell'entroterra appenninico dalle forze sabaude, per una serie di malintesi nella condotta delle operazioni militari e l'efficace replica degli Spagnoli, non rimase a C. E. - il quale aveva dovuto fronteggiare nel frattempo, sia pur vittoriosamente (difesa di Verrua, ottobre 1625), l'avanzata del duca di Feria - che sottomettersi alle condizioni del trattato di Monçon (5 marzo 1626), concluso dalla Francia a insaputa degli alleati, con cui la Valtellina veniva restituita ai Grigioni, ma sotto la larvata tutela di Madrid.
Al cedimento del Richelieu, premuto all'interno dal riaccendersi delle lotte religiose e pago dell'equilibrio strategico stabilitosi in Germania, il duca di Savoia reagì con un repentino mutamento d'indirizzo. Ritenendo ormai irraggiungibile la Lombardia, egli confidò nelle risorse diplomatiche del conte-duca di Olivares, abile negoziatore del trattato con i Francesi e nuovo astro della politica spagnola. Poiché era imminente l'estinzione del ramo italiano dei Gonzaga e si profilava la successione della casa dei Nevers, ossia di una dinastia intimamente legata alla Francia, tanto valeva accordarsi con la Spagna e ritornare a puntare su uno degli obiettivi classici che - assieme a Ginevra (non del tutto dimenticata, ancora nel 1623, a dispetto dell'avvicinamento alla Francia) - avevano informato la politica sabauda inserendola nel più vasto contesto della lotta in Europa fra Borboni e Asburgo.
Alla morte di Vincenzo II Gonzaga, C. E. (grazie a un trattato segreto steso il 25 dicembre 1627 con il governatore di Milano don Gonzalo de Cordoba) si assicurava il benestare della Spagna a una spartizione del Monferrato e passava, quindi, senz'altri indugi, all'occupazione di Trino, Alba, San Damiano e Moncalvo (aprile 1628), ossia della porzione di territorio riservatagli dall'accordo.
Raggiunto così il suo scopo e forte della posizione acquisita, egli cercò, da un lato, di chiudere onorevolmente la controversia riapertasi con Genova in seguito alla scoperta della congiura di Giulio Cesare Vachero (marzo 1628) cui aveva prestato mano per impadronirsi della città, e, dall'altro, di alzare il prezzo della sua alleanza dopo il brillante successo militare riportato in agosto a Sampeyre su un corpo di spedizione francese inviato in soccorso di Carlo di Nevers. A C. E. sembrò che la possibilità di sbarrare i varchi alpini, mentre si protraeva l'assedio di Casale da parte degli Spagnoli (che invocavano una più attiva collaborazione del duca di Savoia), gli offrisse il destro per imporre le sue condizioni: l'occupazione di Ginevra, qualora avesse dato via libera alle truppe francesi; l'acquisizione di Genova, nel caso opposto. Senonché la definitiva affermazione in Francia del Richelicu, dopo l'espugnazione di La Rochelle e l'accentramento nelle sue mani di ogni iniziativa politica valsero a dare all'intervento francese ben altra forza diplomatica e militare e a scompaginare, nel giro di pochi mesi, la tela pazientemente tessuta dal duca di Savoia.
Dopo un inutile tentativo di fermare l'esercito francese che, condotto personalmente da Luigi XIII, aveva varcato il Monginevro (1º marzo 1629), C. E. ritenne più opportuno scendere a patti con il Richelieu con una convenzione firmata in quello stesso mese a Susa. Al duca di Savoia, che si impegnava ad alleggerire l'assedio di Casale, veniva riconosciuto il possesso di Trino e di altre terre per una entrata complessiva di 15.000 scudi annui, oltre ad Alba e Moncalvo, in cambio dell'occupazione francese di Susa. Egli si illudeva di aver ottenuto così il tempo necessario, una volta allontanata la minaccia di una presa spagnola di Casale, per destreggiarsi ancora tra Francia e Spagna, in attesa della piega che avrebbero assunto gli avvenimenti. Ma, incalzato da un lato dal Richelieu che avrebbe voluto un suo immediato pronunciamento e a mal partito dall'altro con il nuovo comandante spagnolo Ambrogio Spinola (che aveva ripreso con assai più slancio l'assedio di Casale, fermamente intenzionato sia a tenere a bada le pretese sabaude su Genova sia a non distrarre altre forze per dare man forte ai Piemontesi), fu infine costretto a disporsi alla resistenza contro il pericolo più immediato, quello proveniente dalla Francia. Persi Pinerolo e il marchesato di Saluzzo (marzo 1630), egli dovette cedere altro terreno dopo la sconfitta di Avigliana (10 luglio) e - mentre gli crollava addosso la notizia del sacco imperiale di Mantova - accorrere, per tamponare altre minacce d'invasione, a Savigliano. E qui si apprestava, ormai amareggiato e sconvolto dagli avvenimenti, a un'estrema difesa di ciò che rimaneva del ducato (dopo la perdita anche della Savoia, invano presidiata dal principe Tommaso) quando la morte lo colse, il 26 luglio 1630.
Lasciava uno Stato che le ultime vicende avevano ridotto a brandelli. Non si trattava soltanto dei vasti squarci territoriali provocati dall'offensiva francese (onde, con la pace di Cherasco del 19 giugno 1631, il figlio Vittorio Amedeo I avrebbe dovuto rinunciare fra l'altro a Pinerolo, pedina preziosa della Francia in Piemonte e vera e propria testa di ponte per una calata verso la Valle padana, in cambio di Alba e di una manciata di terre nel Monferrato, passato ai Nevers) o delle profonde lacerazioni che da allora avrebbero spaccato in due la classe dirigente, divisa fra filofrancesi e filospagnoli, e portato qualche anno più tardi a una lunga guerra civile. Dal 1629 anche la peste, accompagnata da una dura carestia, s'era di nuovo abbattuta sul paese e sulla stessa capitale, dopo aver già infierito nel 1589-90 bloccando inesorabilmente l'incipiente aumento della popolazione delineatosi a metà del Cinquecento. Con un'agricoltura sconvolta dalle conseguenze delle guerre del Monferrato, dal prelievo forzoso di risorse e dal passaggio di numerosi eserciti, e con quel po' di attività manifatturiera e commerciale (le tessiture di Pinerolo e di Vercelli, le imprese dei mercanti-banchieri chieresi, le botteghe torinesi) irrimediabilmente rovinata dall'inasprimento delle imposte e dall'interruzione dei traffici, il Piemonte aveva finito col pagare tutto insieme un tributo assai più alto di quello che dal primo decennio del Seicento, di pari passo con lo spostamento dell'asse commerciale dal Mediterraneo all'Atlantico e la decadenza dell'artigianato e della mercatura comunale, avevano dovuto subire altre regioni italiane. D'altra parte, soltanto a prezzo di durissime imposizioni (onde l'ambasciatore veneto Donato osservava: "dalla vita in poi i sudditi danno tutto, niente eccettuato, al Duca, e il Duca tutto loro domanda, eziandio quel pane e quel vino che suole ogni anno servire a propria sostanza") e dall'esaurimento dello stesso patrimonio ducale (con ricorrenti indebitamenti dovunque potesse ottenere credito) C. E. aveva potuto tener dietro alle sue tumultuose ambizioni e far fronte, in qualche modo, ad una politica ardimentosa i cui fini erano di gran lunga sproporzionati rispetto alle forze disponibili. Rimasero infatti a metà le iniziative intraprese per potenziare le risorse delle campagne con alcune opere di irrigazione e sistemazione fondiaria e per acclimatare saldamente, nell'ambito di un indirizzo tendenzialmente mercantilista, nuove attività industriali nei settori di trasformazione dei prodotti agricoli, accanto alle vecchie officine per gli armamenti che egli cercò di potenziare. Né gli riuscì il tentativo avviato nel 1624 di riunire al demanio quanto aveva dovuto alienare per provvedere alle spese di guerra e a varie opere di ingegneria militare e di ampliamento della capitale. Sicché continuò a rimanere predominante il ruolo della vecchia aristocrazia fondiaria, in possesso di notevoli estensioni di terra e in grado di far valere le sue prerogative nella ripartizione del carico fiscale e in tutti i rapporti con le Comunità.
Tuttavia il mezzo secolo di regno di C. E. aveva visto il primo dispiegarsi, sia pur con tutti gli elementi di instabilità e di precarietà politica che la sorte sfortunata dell'ultima guerra nel Monferrato aveva prodotto, di una moderna organizzazione assolutistica. Gli stati, cioè le assemblee delle varie classi, non vennero più convocati e i pochi tentativi di ribellione della nobiltà più periferica furono prontamente repressi mentre l'autorità del principe si avvalse dell'eliminazione delle ultime reliquie del sistema giudiziario barbarico e della liquidazione del banditismo, del parziale affrancamento della servitù della gleba, della difesa severa dell'ortodossia religiosa (a costo di chiudere un occhio sugli abusi della giurisdizione ecclesiastica), ma soprattutto del riordinamento amministrativo del Piemonte e del marchesato di Saluzzo, per consolidarsi ed estendersi. Se l'apparato burocratico (dai due Consigli di Stato ai prefetti, refendari e governatori, sovraintendenti nelle varie circoscrizioni all'amministrazione della giustizia, e alle questioni finanziarie e politico-militari) si trovò il più delle volte a subire le iniziative di C. E. (per la sua innata diffidenza o la sua irruente tendenza a fare e a disfare ogni cosa, conforme ai suoi oscillanti e turbinosi progetti), più che a condividerne consapevolmente la responsabilità, resta il fatto che aveva avuto modo di formarsi infine un'organizzazione amministrativa, diplomatica e militare più solida ed efficiente che in passato con gente di mestiere meglio preparata ai suoi compiti. D'altra parte, lo spostamento al di qua delle Alpi del centro di gravità del ducato, nonostante i tentativi per impossessarsi di Ginevra, già avviato da Emanuele Filiberto e sancito definitivamente dallo scambio della Bresse e del Gex con il marchesato di Saluzzo, aveva contribuito a rafforzare i quadri nazionali dell'esercito e, dando più spazio all'elemento piemontese nelle cariche pubbliche, a imprimere una direzione più univoca alla politica interna ed estera dello Stato sabaudo. In questa prospettiva trovò spazio anche un primo embrione di politica culturale, attenta (soprattutto dopo l'eco positiva suscitata nella penisola dallo scontro del 1613 con la Spagna) a coltivare il favore del mondo delle lettere e delle arti. A Torino, abbellita da nuove chiese e dimore patrizie e da una ricca pinacoteca, scossa dal suo abituale grigiore da una fastosa vita di corte e dalle stesse molteplici avventure galanti del sovrano, ebbero cordiali accoglienze fra gli altri il Tasso, il Chiabrera, il Marino, il Tassoni, mentre il Botero fu chiamato a occuparsi dell'educazione dei principi (anche se furono pesanti in compenso le abdicazioni ai gesuiti nel campo dell'istruzione). Paradossalmente, proprio dall'alleanza con la monarchia spagnola C. E. aveva ottenuto (grazie all'acquisizione del marchesato di Saluzzo) il più importante risultato della sua febbrile e spregiudicata azione politica, e ancora sull'avvicinamento al gruppo austro-spagnolo egli aveva puntato le sue carte per concludere con un successo di prestigio (il Monferrato o Genova) gli ultimi anni di regno. Tutto ciò nulla toglie al significato più profondamente antispagnolo della sua politica. Sia la tenace difesa dell'individualità dello Stato sabaudo sia la capacità di C. E. di fare di ogni sua rivendicazione una questione di risonanza internazionale valsero infatti a rimettere costantemente in discussione il predominio di Madrid nella penisola e ad avere, quindi un peso rilevante nel più ampio contesto dell'equilibrio europeo.
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