CASTELLAMONTE, Carlo di
Figlio di Cesare, nacque intorno al 1560, e fu quindicesimo conte di Castellamonte della linea Cognengo. Fu tra i primi patrizi piemontesi professionalmente attivi nell'architettura; prima d'intraprendere tale attività soggiornò a Roma (1579) ove subi l'influsso di Domenico Fontana con le sue cadenze uniformi. A Torino fu assistente e collaboratore dell'ingegnere ducale Ascanio Vitozzi, a fianco del quale intervenne (1600) nell'erezione del santuario di Vicoforte subentrandogli poi nel 1615.
Al Boggio (1896) spetta la prima valutazione critica della sua personalità: si sa così che il 26 apr. 1602 (ma Promis e Collobi posticipano la data al 1606) Carlo Emanuele I gli accordò un posto nella sua guardia, senza obbligo di servizio, "per dargli più comodità d'attendere alle cose del disegno alle quali si va applicando". Menzione assai onorevole, confermata due anni dopo dall'incarico di progettare la chiesa dell'Arciconfraternita del SS. Sudario dei Piemontesi a Roma: ma il viaggio che vi compì per ordine del duca (e di cui sussiste, nei conti del 1650, il pagamento) fu occasione per rimeditare in ambito più vasto le idee del maestro. Erronea è la datazione al 1604 dell'oratorio della Confraternita di S. Rocco (poi abbattuto) a Torino: in tale data fu concessa solo l'autorizzazione a ingrandire la cappella, il cui effettivo ampliamento ebbe luogo, su suo progetto, nel 1607 sebbene dieci anni dopo (3 luglio 1617) egli - da Verrua ov'era impegnato alle fortificazioni - fosse ancora in trattative per ultimarla. Pure del 1607 sono disegni per la sistemazione della S. Sindone in una cappella autonoma, che ebbe inizio nel 1611 e dopo varie vicende (cui partecipò anche il figlio Amedeo) fu sostituita dal progetto guariniano. D'un anno anteriore - la consacrazione avvenne il 20 ott. 1606 - è invece la chiesa maggiore (scomparsa anche essa) dell'eremo dei camaldolesi a Pecetto, d'ideazione vitozziana ma del C. nell'impianto e nei particolari. Non ancora assorbito dalla corte, egli appare in questi anni sempre a lato del Vitozzi, non quale puro esecutore bensì come realizzatore autonomo di piani impostati dal maestro, ad esempio nel castello di Rivoli (1606). Né è da trascurare l'attività di scenografa per gli spettacoli allestiti nel 1606-07 nel salone di palazzo Madama. Di tale partecipazione attiva e della stima derivatane è prova la concessione (3 ott. 1612) d'uno stipendio di 400 scudi annui, sia pur col monito "a duplicare d'hor avanti con maggior animo di prima all'ufficio suo".
Oltre che architetto civile, il C. fu anche ingegnere militare e in tale ufficio attese a varie opere di fortificazione (Asti, Acqui, Castelnuovo, Crescentino): del 1614 è un'ispezione a quelle di Nizza. Con tale data si giunge in prossimità della morte del Vitozzi (spentosi il 23 ott. 1615) e all'assunzione, da parte del C., della carica d'architetto ducale, ma la cronologia del Boggio è contraddetta in più punti dalla Collobi (1937), cui si deve il secondo intervento d'importanza sulla figura dell'artista. In effetti i documenti rimastici poco ci dicono della sua formazione (anche se è plausibile il soggiorno romano, tale essendo la matrice del Vitozzi) né molto ci illuminano sugli incarichi svolti per conto o indipendentemente dal maestro. Alla scomparsa di quest'ultimo è un esperto architetto sui quarantacinque anni ad assumere la direzione dei complessi progetti del duca, curando al tempo stesso opere idrauliche (Parere sovra la fabrica dell'imboccatura da farsi al Naviglio, che scorre da Ivrea a Vercelli..., Torino 1616) e militari (fortezza di Verrua, 1617).
Recentemente (1971-72) B. Signorelli ha potuto anticipare il suo intervento al castello del Valentino (tradizionalmente ascritto al terzo decennio) al 1620, in relazione coi piani d'ingrandimento della città ma soprattutto con le nozze (1618) dell'erede al trono con Cristina di Francia. La retrodatazione prova che a breve distanza dalla morte del Vitozzi il C. era coordinatore e autore delle principali imprese edilizie cittadine: e da lettere tra luglio e settembre dello stesso anno risulta infatti l'uso di maestranze già attive col predecessore, l'impiego di materiali tratti dalle fornaci della Città Nuova e lo storno di fondi dal bilancio del Valentino a quello del Palazzo Nuovo (poi Reale). La presenza di un sovrastante francese o savoiardo, La Fortune, e di specialisti della stessa origine propone il tema delle fonti per il tetto alla francese (incerto se Ph. de l'Orme o De Cerceau), oltre che della data d'inizio della Vigna Reale (agosto 1621), precedente anch'essa d'un ventennio quella tradizionale. Il Vesme riporta una lettera al duca (19 nov. 1619) che attesta l'ardore del C. nel soddisfare il committente e il puntiglio d'apparire "di differente temperatura di quella che mi viene attribuita". Può esser eco di riserve sulla sua maniera, ma è certo che a quest'epoca il C. è ormai nel pieno delle capacità espressive e pronto non solo a realizzare "delizie" per la corte ma a inventare un'immagine della città intesa (in assonanza con le origini) quasi schema cartesiano. Al 1620 risale infatti il progetto d'ampliamento noto come "Città Nuova".. recuperante sul lato meridionale uno spazio vergine da opporre con le sue disciplinate geometrie al reticolo viario medievale e da collegare alla vitozziana piazza del Castello e al primo tratto della contrada stessa traendo dalla contiguità materiale precisi intenti ideologici.
Che la via Nuova (oggi Roma) si snodi dalla porta omonima fino al cospetto della reggia aprendosi, come un polmone, sulla spaziosa area della Piazza Reale (S. Carlo) è un modo non solo di opporre strutture accentrate ad altre dispersive, ma di coordinare effetti scenografici (in tale senso "barocchi") alle finalità esemplari del modello: coassialità quale esaltazione del centro di comando. La Collobi volle tuttavia ridurne l'originalità esaltando l'influsso del Vitozzi e valutandone la ricettività in senso passivo, deducendo inoltre dalle prestazioni militari del C. l'origine d'una certa carenza di respiro (scarso senso volumetrico, povertà inventiva, riduzione degli edifici a valori epidermici a scapito di quelli funzionali); in seguito il Brinckmann (1949) contestò al C. addirittura l'abito professionale facendone un esecutore diligente (ma dilettantesco) delle idee personali - queste sì, indiscusse - di Cristina.
Tra il progetto vitozziano e quello del C. s'era inserito brevemente quello di E. Negro di Sanfront, irrealizzato ma utile a potenziame il lessico: e il C. infatti amplia le misure tradizionali portando la larghezza della via da 7 a 11 metri e quella dei portici a 7,50 e surrogando alla zonizzazione la stratificazione altimetrica della popolazione (Cavallari Murat, 1967). Tale spazio "abnorme" è stato inteso dalla Griseri quale esempio primario di "maniera grande" del Seicento retorico, ostentazione d'un gusto affine a quello delle corti europee, subordinato quindi a un dispotismo accentratore perfino ove si tratti di dimore private. La sequenza di elementi di moto e di riposo è riassunta dai larghi ritmi della piazza, ove la si riconduca all'impianto originario; con colonne binate e distanziate (furono chiuse in pilastri nel 1773) e oculi a giorno e le facciate retrostanti aperte sulla campagna intatta. Unitario è anche lo schema delle fronti sulla via Nuova, evitando dispersioni e coonestando le parti singole a un effetto di fuga che trova, come s'è detto, il suo punto focale nella reggia.
Attorno a quest'episodio centrale si pongono le date delle realizzazioni singole. Nel 1619 la costruzione temporanea al Moncenisio per il torneo (La presa di Rodi) in occasione delle nozze di Vittorio Amedeo e l'erezione, di poco successiva, della porta Nuova (provvisoria) a Torino. E l'anno che vede il C. occupato al "palazzo novo grande", cioè alla residenza ducale, non solo alla facciata ma (lettera del 20 dic. 1619) all'interno, per gli appartamenti destinati a Cristina di Francia. Quattro anni dopo, regnando ancora Carlo Emanuele, elevò la cappella di S. Francesco nella chiesa di S. Maria al Monte: il suo intervento è documentato da un atto del 6 dic. 1623 (Tamburini, 1968, p. 86 n. 10). Più rilevante sarà poi la sua presenza nella fase operativa promossa dal nuovo sovrano (1634-37) e conclusa dall'esecuzione dell'altar maggiore. Nel '22, inoltre, il C. ampliò la piazza del duomo contrapponendo all'edificio sacro un fabbricato a portici (demolito recentemente). Suo fu pure il disegno per la porta Nuova (in forma stabile) nel 1623. Nel '29 diede impulso al compimento del palazzo del parco di Viboccone, le cui forme esterne (mediate dal Vitozzi) riescono bene inserite nell'ambiente naturale. Così pure per la dimora suburbana di Millefiori (Miraflores), la cui vaghezza è tramandata dai contemporanei. E poco dopo (1632) eccolo recingere di mura l'ampliamento urbano da lui ideato, mal saldando i cinque bastioni nuovi ai preesistenti, lasciando esposto un rientrante verso Po e attirandosi così le critiche del Morello, allievo del rivale Sanfront. È l'ultimo decennio della sua operosa vita e vi si condensa il meglio della sua genialità: dal 1633 al 1640 la decorazione del castello del Valentino, ove pittori e stuccatori si sottomettono al suo gusto (e per via interposta a quello del Tesauro), fondendo istanze romane alle francesi e giungendo a "un'arte di corte" (Griseri) nel peso dato agli ornamenti, più manieristici che barocchi; nel 1635 la sistemazione dell'altare della Madonna del Popolo nella chiesa della SS. Trinità a Torino; nel 1637 il tracciamento della Piazza Reale (S. Carlo) seguita due anni dopo dalla costruzione della chiesa di S. Cristina (4 ott. 1638: acquisto della casa del C. da parte di Cristina per farne poi dono, il 3 marzo 1639, alle carmelitane scalze), proseguita e ultimata dal figlio Amedeo. Arbitraria è invece l'ascrizione della chiesa gemella di S. Carlo, probabilmente di M. Valperga. Pure al '39 si può assegnare la riplasmazione del Castello (palazzo Madama) nel quale la reggente stava trasferendo la propria residenza e dove il C. sacrificò il cortile ricavandone un atrio-salone, cioè due ambienti destinati rispettivamente a ingresso nobile e ambiente di parata. L'ipotesi è avanzata, per ragioni stilistiche, dal Mallé (1970, p. 106) mancando ogni documentazione in merito. Insostenibile è l'autografia della chiesa di S. Salvario (di cui esiste una veduta del Boetto, 1650) che se anche concepita dal C. fu ultimata - e assai più tardi - dal figlio.
Si è detto dell'attività d'ingegnere militare, confermata dalle nomine a ingegnere di Sua Altezza, a soprintendente alle fortezze, a luogotenente alla artiglieria ed edifizi dell'acqua dei 13 dic. 1626 e del 27 giugno 1634 (Manno). Variamente collocati nel tempo (e non sempre collimanti da fonte a fonte) sono gli interventi del C. alle fortificazioni di Nizza (1621), Ottaggio (1625), Avigliana (1630). Montmélian (1633), Savigliano (1637). A quest'attività s'affianca quella d'apparatore-scenografo: vanno menzionati almeno il carosello Il trionfo delle allegrezze del mondo allestito in piazza Castello per la nascita di Francesco Giacinto (1632) e con probabilità l'addobbo della cattedrale per le esequie di Vittorio Amedeo I (1638: Griseri, 1966, p. 50, tavv. 70, 79-81). Nel 1633 (8 luglio) il duca gli aveva pure commissionato la stesura del Regolamento per la misura delle fabbriche subordinante all'approvazione dell'architetto l'esercizio della professione da parte dei capomastri. Il 17 febbr. 1638 redasse a Vigone il testamento: lasciò erede il figlio Amedeo, nato dal matrimonio con Ippolita Maria Fiocchetto, figlia del celebre protomedico, che sarà architetto anche lui. La morte dovette avvenire tra il 10 gennaio e il 20 marzo 1641 a Torino.
Tra le opere attribuite al C., ma non documentate, sono i palazzi Taffini d'Acceglio a Savigliano, Isnardi di Caraglio e Saluzzo di Cardè e villa Ghiron oltre al campanile e all'altare della Confraternita dello Spirito Santo a Torino.
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