DE MARCO, Carlo
Nacque a Brindisi il 12 nov. 1711 da Carlo e da Anna Booxich (del tutto errata è la data di nascita 1734 riportata da qualche studioso). Rimasto orfano del padre ancor prima della nascita, fu allevato dallo zio materno Iacopo Antonio, di condizione borghese. Studiò diritto civile a Napoli, dove poi si esercitò nell'avvocatura, potendo anche godere della protezione di un potente uomo politico, Carlo Mauri. Nel 1743 ottenne l'ufficio di uditore della provincia di Matera; fu poi avvocato fiscale e quindi commissario di campagna nella provincia di Terra di Lavoro, distinguendosi per intelligenza, dirittura ed integrità. Il 6 ott. 1759, nell'ambito della riorganizzazione delle segreterie di Stato, Carlo di Borbone, in partenza per la Spagna, nominò il D. segretario di Stato di Grazia e Giustizia e degli Affari ecclesiastici. Egli in tal modo cumulava i due incarichi che avrebbe ricoperto ininterrottamente per oltre trenta anni, abbinandoli spesso con altre mansioni di un certo rilievo (già nel 1761 fu nominato anche, per circa due mesi, all'interim dellasegreteria di Azienda e Commercio).
Nei molti anni in cui fu al potere il D. si distinse come funzionario onesto, efficiente, fedelissimo al sovrano e agli interessi dello Stato. Di ispirazione giannoniana, con spiccate simpatie per il riformismo a tendenza giansenista, sensibile all'insegnamento morale di A. Genovesi e di G. Filangieri, a cui fu molto legato, ricoprì un posto di rilievo nella lotta perseguita da una larga fascia della classe politica napoletana e dallo stesso re contro le usurpazioni o le ingerenze nelle prerogative statali da parte della Chiesa cattolica. Fu un uomo religioso, persino pio, ma con una concezione decisamente laica dello Stato; la sua dottrina giurisdizionalistica e regalistica lo spinse a promuovere l'accrescimento dell'autorità e del potere della Corona e quindi a contribuire significativamente al processo di secolarizzazione dello Stato, registratosi nel Regno napoletano dal periodo della Reggenza fino alla fine degli anni Ottanta.
In qualità di ministro dell'Ecelesiastico tutti i provvedimenti contro la politica della Curia romana o contro enti ed organismi ecclesiastici napoletani passarono per le sue mani. Di politica ecclesiastica si occuparono, però, nel Regno, anche il re, il primo segretario di Stato, il Consiglio di Stato, la giunta degli Abusi (due organismi questi ultimi ai quali prese parte per diversi anni anche il D., fornendo un non trascurabile contributo). Spesso perciò la politica anticuriale del ministro fu subordinata alla situazione politica del momento, ai rapporti di forze interni alla classe politica napoletana, all'atteggiamento del re e della corte e in modo particolare alla non sempre lineare partecipazione di Ferdinando IV alle controversie con il papa ed alle posizioni moderate assunte dalla regina Maria Carolina e dal suo favorito Giovanni Acton. Il D. sì limitò quindi ad essere talvolta preciso esecutore ed operoso collaboratore dell'azione anticuriale di altri ministri regalisti, come B. Tanucci; talvolta invece si erse a protagonista, a principale punto di riferimento del movimento, in intransigente antitesi con la politica troppo moderata o pragmatica di ministri anche molto illuminati come D. Caracciolo.
Alla base delle posizioni più intransigenti del D. vi fu anche l'influenza del tardo giansenismo napoletano. La sua adesione a tale movimento, che d'altra parte ebbe nel Regno connotati più politici che teologici, non fu dottrinaria ma pratica, dovuta alla vicinanza con alcune posizioni del suo credo regalista, come l'affermazione di un cristianesimo esigente che riformasse una Chiesa degenerata.
Momento importante del suo avvicinamento al giansenismo fu - secondo molti studiosi - il rapporto con il nizzardo Carlo De Gros, che il D. ospitò nel 1764 dopo la sua espulsione da Roma, scegliendolo come proprio confessore e consigliere. In seguito appoggiò apertamente i maggiori esponenti del movimento: Gennaro e Giuseppe Cestari, Domenico Forges Davanzati, Giovanni Andrea Serrao che aiutò a divenire vescovo di Potenza nel 1783, Alberto Capobianco di cui nel 1788 appoggiò le revisioni al Catechismo e l'anno dopo la nomina a cappellano maggiore.
Rispetto all'azione di ministro dell'Ecclesiastico è da considerarsi di minor rlievo quella parallela di ministro di Grazia e Giustizia. Anche in questa veste il suo principale intento fu quello di accrescere l'autorità dello Stato, facendo esercitare spesso al re la prerogativa della grazia, per mezzo di indulti, e cercando di combattere quelle forze politiche che esercitavano poteri giurisdizionali. Così negli anni Sessanta appoggiò la lotta contro gli abusi feudali dei Monteleone, schierandosi con i sudditi di questi; quindi tentò assieme al Tanucci di impedire al clero l'esercizio del potere giurisdizionale verso i laici. Su questa seconda questione entrambi i ministri furono messi in minoranza nel Consiglio di Reggenza.
Nei primi tempi in cui fu ministro dell'Ecclesiastico il D. operò in simbiosi coi Tanucci, condividendo le nette posizioni anticuriali dell'uorno politico toscano e proseguendo la politica intrapresa da Carlo di Borbone alcuni decenni prima. Il primo importante provvedimento anticuriale del Tanucci e del D. fu rivolto nel 1762 contro i benefici ecclesiastici: un terzo delle rendite furono devolute ai poveri. Meno rigida di quella dello statista toscano fu la posizione del D., negli anni successivi, riguardo alla ventilata espulsione dei gesuiti. A suo avviso bisognava trovare un pretesto giuridico per farla figurare conseguenza di un reato commesso dall'Ordine, come negli altri paesi europei. Nell'ottobre 1767 prevalse l'intransigenza del Tanucci, che individuava nella Compagnia di Gesù un pericolo immediato per lo Stato e la vita stessa del re e accusava il D. di essere un "giansenista declamatore", ancora infarcito di diritto canonico. La giunta degli Abusi deliberò l'espulsione dei gesuiti in una sola seduta e il 20 novembre Ferdinando IV, da poco maggiorenne, firmò il decreto relativo. Al D. spettava il compito di ideare una risoluzione per incamerare i beni dell'Ordine sciolto.
Due anni dopo il D. istituì la cattedra universitaria di storia dei concili, ridimensionando al tempo stesso il vecchio insegnamento di diritto canonico, i cosiddetti Decretali, di cui nel 1768 il Genovesi aveva chiesto l'abolizione.
Negli ultimi anni in cui fu al potere, il Tanucci attenuò, assieme al D., la politica anticuriale perseguita fino a quel momento, anche in virtù degli orientamenti di segno diverso della regina. Nel D. tale processo di ammorbidimento fu forse influenzato dall'insorgere di una malattia, che lo tenne per qualche tempo in serio pericolo di vita. Quanto al resto egli continuò, in questo periodo, a svolgere con competenza e rigore le proprie funzioni, mentre veniva considerato meritevole del titolo di marchese, conferitogli il 25 febbr. 1771, ed adatto - come in passato - a ricoprire incarichi provvisori, come quello della segreteria di Guerra e Marina affidatogli per alcuni giorni nel dicembre 1773.
La sostituzione del Tanucci con G. Beccadelli marchese della Sambuca, uomo di Maria Carolina propenso ad un'azione di pacificazione con la Curia, segnava l'inizio di un decennio assai moderato in politica ecclesiastica. L'anticurialismo risultava notevolmente attenuato, nonostante il D. fosse rimasto al suo posto e sempre su posizioni di ispirazione tanucciana. Così nel 1779 la cattedra di storia dei concili fu abolita, mentre una controversia con Roma, per la nomina di alcuni vescovi senza il preventivo assenso del re, fu tolta dalle mani del D. e dopo tre anni di diatribe si chiuse in modo insoddisfacente per Napoli. In questo periodo al D. vennero assegnati il diploma di gran croce dell'Ordine constantiniano e la commenda annessa, costituita dalla rendita di una badia napoletana.
La politica ecclesiastica del Regno di Napoli tornò ad essere improntata ad un marcato regalismo ed il D. tornò a mostrare il suo volto di intransigente avversario della Curia e di Roma durante i quattro anni del ministero Caracciolo. Al D. all'inizio del 1786 fu innanzitutto affidato per qualche giorno l'interim della prima segreteria di Stato, in attesa dell'arrivo del Caracciolo dalla Sicilia. In quegli stessi giorni egli entrava a far parte - con l'Acton e lo stesso Caracciolo - del Consiglio di Stato, un importante organismo consultivo composto di soli tre membri. Il D., avvalendosi della preziosa collaborazione di Girolamo Vecchietti, primo ufficiale nella segreteria dell'Ecclesiastico e convinto regalista, nel giugno 1786 ispirò un primo importante provvedimento di sapore anticuriale: l'abolizione della sottomissione del clero regolare napoletano ai generali esteri; provvedimento sospeso poi in seguito alle rimostranze del papa. Frattanto iniziava il più serio tentativo di revisione del concordato con la Chiesa, stipulato nel 170 da Carlo di Borbone. All'interno dei Consiglio di Stato incaricato della questione, il D. assunse la posizione più intransigente. Nel novembre 1786 propose infatti di sospendere le trattative, con la motivazione che qualsiasi concordato avrebbe fatto il gioco di Roma, permettendo che la Chiesa continuasse ad usurpare le prerogative statali. Egli "nella separazione netta degli interessi fra la Chiesa e lo Stato, voleva fondati i rapporti tra l'una e l'altra potestà, senza necessità d'intese e di concordati" (Panareo). Per queste posizioni e per la conseguente avversione dell'inviato papale a Napoli, il D. fu messo da parte nel prosieguo delle trattative.
Frattanto scoppiava il cosiddetto caso Maddaloni: una controversia con la Curia romana su quale dovesse essere il tribunale d'appello per un processo di annullamento di matrimonio, già deliberato in prima istanza dalla curia arcivescovile di Napoli. Il D., nella duplice veste di ministro degli Affari ecclesiastici e di Grazia e Giustizia, propendeva, come altri uomini politici napoletani, per un tribunale napoletano e quindi laico, designato dalla Real Camera di S. Chiara e composto dal cappellano maggiore, da due giudici laici e da due ecclesiastici. Roma invece faceva pressioni perché della cosa si occupasse il massimo tribunale della S. Sede. Dopo quattro anni di diatribe, l'appello fu effettuato presso il tribunale napoletano.
Nel 1788 ormai appariva netta la rottura tra il papa ed il Regno meridionale. Infatti, oltre alla conclusione non gradita della questione Maddaloni, per cui il papa si rifiutava di ratificare la sentenza d'appello, sebbene confermasse quella pronunciata dal tribunale ecclesiastico di prima istanza, si registravano altri importanti provvedimenti anticuriali o altre prese di posizione contro la Chiesa cattolica: le trattative per la revisione del concordato si chiudevano con un nulla di fatto; veniva approvato il provvedimento contro i generali esteri proposto due anni prima dal D.; Gennaro Cestari pubblicava l'opera Lospirito della giurisprudenza ecclesiastica sull'ordinamento dei vescovi (Napoli 1788), osteggiata dalla Curia romana e caldamente difesa dal D.; infine e soprattutto, non veniva effettuato il tradizionale omaggio della chinea al papa, antichissimo segno di vassallaggio del Regno di Napoli verso il pontefice.
Anche in quest'ultima circostanza il D. tenne una posizione assolutamente autonoma rispetto a quella dei suoi colleghi, in quanto non si mostrò favorevole al rifiuto dell'offerta della chinea, che invece l'Acton, solitamente più moderato, caldeggiava per rappresaglia contro la mancáta nomina dei vescovi del Regno nelle sedi vacanti da molti anni. Quando però il papa, in una protesta per il mancato omaggio, attaccò apertamente il potere reale, il D. tornò su posizioni estremamente ferme e si batté - invano - a favore di una risposta ben più dura di quella preparata dal Caracciolo. L'anno successivo si oppose - sempre invano - al versamento della sola rendita in denaro che veniva offerta abitualmente assieme alla chinea: il pontefice aveva diritto, a suo avviso, solo ad un atto di devozione formale, in qualità di capo del Cattolicesimo, e non a ben più sostanziali prestazioni legate ad un suo preteso dominio sul Regno di Napoli.
Morto improvvisamente il Caracciolo, nel luglio 1789, il re decise di separare le due principali segreterie assegnate dal tempo di Carlo di Borbone al primo ministro, gli Affari esteri e la Casa Reale, e affidò quest'ultima al D., che per oltre due anni cumulò tre dicasteri. Intanto la politica ecclesiastica del Regno si faceva più moderata, pur rimanendo condivisa e talora ispirata da lui. L'omaggio della chinea non fu ripreso, mentre venivano avviati nuovi tentativi per un concordato, presto falliti. Sul finire del 1791, però, la politica napoletana mutava rotta e, nell'ambito di un certo ravvicinamento a Roma, reso necessario dall'incalzare del pericolo rivoluzionario, nel settembre furono tolte al D. le due vecchie segreterie, affidate ad uomini - come F. Simonetti e F. Corradini - più malleabili alla volontà predominante dell'Acton. Il D. mantenne tuttavia la carica di segretario di Stato per Casa Reale e continuò a far parte del Consiglio di Stato.
Tra il 1794 ed il 1798 egli riuscì a non farsi coinvolgere nelle trame cospirative e rivoluzionare a cui avevano partecipato due suoi nipoti (1794), il suo amico Luigi de' Medici (1795), alcuni altri suoi amici giansenisti e regalisti (1798). Nel gennaio 1798 gli fu tolta l'ultima segreteria rimastagli, ma egli continuò a partecipare al Consiglio di Stato e nell'ottobre si pronunciò invano contro la dichiarazione di guerra alla Francia.
Durante la Repubblica, pur essendo rimasto a Napoli, il D. si tenne estraneo alla vita politica. Il governo provvisorio gli riconobbe una pensione per i suoi passati meriti. Con la Restaurazione non ebbe molte noie. Si fece in qualche occasione il suo nome per pretesi legami con i giacobini, ma non fu incriminato, forse anche perché ormai novantenne. Nel 1802 Ferdinando IV gli riconobbe una buona pensione.
Morì in campagna, vicino a Napoli, l'8 marzo 1804.
Fonti e Bibl.: Manca un'accurata biografia del De Marco. L'unico necrologio Delle lodi del march. C. D. Orazione di G. Castadi commessario di polizia, Napoli 1807, di tono celebrativo, contiene ben pochi dati biografici. Alcuni cenni e testimonianze sono negli scritti di D. Forges Davanzati, G. A. Serrao vescovo di Potenza e la lotta dello Stato contro la Chiesa di Napoli nella seconda metà del Settecento, Bari 1937 (prima ediz. in francese del 1806), pp. 97 ss. e G. M. Galanti, Mem. stor. del mio tempo, Napoli 1970, pp. 145 ss. Una biografia molto sommaria e piena di vistosi errori nella periodizzazione delle cariche ricoperte è riportata da P. Camassa, Brindisini illustri, Brindisi 1919, pp. 52 ss. Sul preteso giansenismo del D., i suoi rapporti con i principali esponenti di tale movimento e sulla sua azione anticurialista: G. Cigno, G. A. Serrao e il giansenismo nell'Italia meridionale. Sec. XVIII, Palermo-Lovanio 1938, adIndicem;L. Marini, Giannone e il giannonismo aNapoli nel Settecento, Bari 1950, ad Indicem;R. De Maio, Dal Sinodo del 1726 alla prima restaur. borbonica del 1799, III, in Storia di Napoli, VII, Napoli 1972, pp. 874 s.; D. Ambrasi, Riformatorie ribelli a Napoli nella seconda metà del Settecento. Ricerche sul giansenismo napoletano, Napoli 1979, ad Indicem;E. Chiosi, Andrea Serrao. Apologia ecrisi del regalismo nel Settecento napoletano, Napoli 1981, ad Indicem. Sull'attività del D. come ministro degli Affari ecclesiastici, si veda soprattutto: A. Panareo, Il ministro C. D. e la politica ecclesiastica napoletana dal 1760 al 1798, in Studi salentini, I (1956), pp. 66-135;ed anche: I. Rinieri, Della rovina di una monarchia. Relaz. stor. tra Pio VIe la corte di Napoli negli anni 1776-1799, secondodocumenti inediti dell'Archivio Vaticano, Torino 1901 ad Indicem;B. Peluso, Documenti diplom. ined. intorno alle relazioni fra la Sede Apostolica edil Regno di Napoli del 1734 al 1818, IV, Napoli 1917, ad Indicem;A. Simioni, Le origini del Risorg. politico dell'Italia meridionale, Messina-Roma 1925, I, pp. 162, 182, 405; II, pp. 237, 317; G. M. Monti, Due grandi riformatori del Settecento: A. Genovese e G. M. Galanti, Firenze 1926, ad Indicem;R. P. Onnis, Bernardo Tanucci nel moto anticurialista del Settecento, in Nuova Rivista storica, X (1926), 4-5, pp. 328-65; L'aboliz. della Compagnia di Gesù nel Regno di Napoli, in Rass. stor. delRisorg. ital., XV (1928), 4, pp. 759-822, ora rist. in P. Onnis Rosa, Filippo Buonarroti e altri studi, Roma 1971, ad Indicem;M. Schipa, Nel Regno diFerdinando IV di Borbone, Firenze 1938, ad Indicem;E. Viviani Della Robbia, B. Tanucci ed il suopiù importante carteggio, I, Firenze 1942, ad Indicem;A Lucarelli, La Puglia nel Risorgimento, I, Bari 1931e II, ibid. 1934, ad Indicem;R. Mincuzzi, Bernardo Tanucci ministro di Ferdinando diBorbone. 1759-1776, Bari 1967, ad Indicem;F. Renda, B. Tanucci e i beni dei gesuiti, Catania 1970, ad Indicem;F. Venturi, Settecento riformatore, II, La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti. 1758-1774, Torino 1976, ad Indicem. Utili indicazioni sulle cariche ricoperte, precisamente datate, sono in P. Colletta, Storia del Reame diNapoli, a cura di N. Cortese, I, Napoli 1969, adIndicem e in C. Salvati, L'azienda e le altre segreterie di Stato durante il primo periodo borbonico (1734-1806), Roma 1962, passim. Interessanti testimonianze contemp. sono nelle lettere del Tanucci: Lettere ined. di Bernardo Tanucci a Ferdinando Galiani (1763-65 e 1767-69), I-II, Bari 1914, ad Indicem;R. Mincuzzi, Lettere di Bernardo Tanucci a Carlo III di Borbone, Roma 1969, adIndicem.