DOTTORI, Carlo de'
Nacque a Padova, secondogenito di cinque fratelli, il 9 ott. 1618 da Antonio Maria, di antica e nobile famiglia, e da Nicolosa Mussato, in contrada S. Bartolomeo, come risulta dall'atto di nascita conservato all'Archivio vescovile della città. Si presume che abbia compiuto i primi studi sotto la guida di G. Rossi di Ravenna (giusta un'ipotesi del Busetto, il più accurato biografo del D.), autore tra l'altro di un poemetto, la Gamociade, contro un tale Gamocio, maestro di scuola operante in Padova. Compì studi non regolari e non conseguì alcuna laurea, anche se probabilmente partecipò alla vita culturale dell'università patavina (centro importante di studi, anche se in parte scaduto), dove diffondeva idee copernicane e galileiane Claude Beauregard e teneva la cattedra di retorica e grammafica Ottavio Ferrari.
La sua prima prova letteraria è l'Alfenore, romanzo composto intorno ai vent'anni (come egli stesso riferisce nella nota "A chi legge") e rimasto allo stato di manoscritto, noto solo alla cerchia degli amici, fino alla pubblicazione avvenuta in Padova nel 1644. presso il Frambotto.
Si tratta di un prodotto ancora acerbo, anche se non spregevole, soprattutto in ragione di una prosa elaborata, sulla scia della narrativa barocca imperante (Giovan Francesco Loredano, Ferrante Pallavicino, ecc.). Una esile trama tiene insieme storie disparate e di una cronologia incerta, in cui si mescolano elementi classici e cavallereschi, pagani e cristiani.
Il poemetto La prigione, scritto nel 1643 e rimasto inedito fino ai nostri giorni (è stato pubblicato nel 1961, per opera di C. L. Golino), si riferisce con più marcato autobiografismo a una vicenda personale giudiziaria che portò il D. in carcere a Venezia, tra il marzo e il luglio del 1641, incriminato - forse ingiustamente, e poi prosciolto insieme con gli amici Alessandro Zacco e Ciro Anselmi - di essere autore di un libello diffamatorio contro talune personalità della vita cittadina comparso a Padova nella sala della Ragione.
L'operetta è in ottave, secondo lo stile dei poemi eroicomici, e mescola elementi di autobiografismo vivace e realistico con inserzioni novelfistiche di sapore boccaccesco. Ma il modello più immediato sta nel capitolo ternario del Marino il Camerone, scritto in circostanze analoghe e riecheggiato dal D. con riprese tematiche talora puntuali. L'opera manca di un disegno unitario, anche per ammissione autocritica del poeta, secondo il quale La prigione, stando alla dedica "Agli amici", "non è poema, non è racconto istorico, non è favola, è un capriccio uscito di suo cervello senza un travaglio al mondo, e senza doglie di parto".
La prima pubblicazione in assoluto del D. riguarda un volumetto di Poesie liriche (apparse nel 1643, sempre per Frambotto), nelle quali egli rende doveroso ossequio alla maniera di F. Testi, evocato nell'introduzione, e si cimenta nell'imitazione dei lirici greci (specie Pindaro) e latini, con particolare inclinazione per Orazio e gli elegiaci Tibullo e Properzio. Quattro anni più tardi, nel 1647, per il Crivellari di Padova il D. darà una edizione più elaborata e al tempo stesso accresciuta delle sue poesie stampate sotto il titolo di Le ode, delle quali si conserva un prezioso documento nella Biblioteca universitaria di Padova, il ms. 79.
Questo codice rappresenta una redazione, con annotazioni e correzioni sicuramente autografe, del libro in via di preparazione per la stampa, corredato oltre che dei rimandi ai luoghi classici imitati, anche di graziosi disegnetti a penna, figurette mitologiche e allegoriche di mano, è probabile, dello stesso D. (di questa sua inclinazione al disegno ci restano varie testimonianze e in particolare una lettera di Francesco Redi, suo abituale corrispondente e suo informatore scientifico, di alcuni anni più tardi - 13 sett. 1657 - che ringrazia il D. per avergli inviato due " paesetti " "bizzarri e trattati con una disinvoltura da gran maestro"). Le ode furono dedicate al principe Leopoldo de' Medici, che rispose all'attenzione del D. con una lettera "secca e ristretta", provocando il risentimento dell'autore (come testimonia una satira ad Alberto Marcucci - contenuta, tra gli altri, anche nel cod. 616 della Biblioteca del Seminario di Padova - piena di lamentele e di invettive: "... io la pensai pur male 1 a dedicar mai versi a un Fiorentino").
Tra il 1643-46 si colloca anche la composizione del poemetto Galatea, agile operetta in cinque canti di argomento eroticomitologico (nota per taluni estratti ottocenteschi e pubblicata integralmente da A. Daniele solo nel 1977), rimasta allo stato di inedito non tanto per incompiutezza artistica, ma piuttosto per licenziosità.
Di impianto mariniano, la Galatea risente di una leggerezza e "facilità ovidiana" - come ebbe a riconoscere l'abate Giuseppe Gennan, primo documentato storico del D. - ed è caratterizzata da briosità narrativa, alla maniera dell'Ariosto più che secentesca. Come nell'Alfenore, sotto i veli dell'Arcadia, compaiono frammenti di autobiografia. Ma sono solo cenni, che non permettono altre ipotesi se non quella di una sfortunata passione giovanile per una donna celata sotto il classico nome di Lilla.
Nel 1644 si sposò con Lodovica Botton, gentildonna padovana, dalla quale ebbe quattro figli, due maschi e due femmine. I due maschi (nonché una figlia) premorirono al padre: Gianfrancesco a ventun anni, nel febbraio 1672; Antonfrancesco, il primogenito, nel 1684. Di queste morti premature abbiamo testimonianza diretta in due lettere di partecipazione al lutto inviate rispettivamente dal D. all'imperatrice Eleonora Gonzaga Nevers (vedova di Ferdinando III) per la morte di Giovanfrancesco e dalla regina Cristina di Svezia al D. (datata 3 giugno 1684) per la scomparsa di Antonfrancesco.
La vena satirica della Prigione si perpetua anche in un poemetto in otto canti, Il Parnaso (rimasto anch'esso sepolto negli archivi ed edito solo nel 1957, sempre per le cure dei Golino), scritto in due riprese con tutta probabilità tra il 1647 - anno in cui nacque il primogenito del D., nominato nel canto V (st. 50) - e il 1648, anche se il terminus ante quem è il 1651, anno in cui morì il cognato, Giacomo Monton, con cui il D. ebbe una lite forse per questioni d'eredità, lite alla quale si fa ampio riferimento nell'opera (ancora canto V).
Il movente della scrittura fu però senza dubbio la celebrazione scherzosa della fraglia dei padrani, associazione a metà di letterati e buontemponi (promossa con tutta probabilita dal D. stesso), che si riuniva a bere in casa di Girolamo Sanguinacci, in un locale detto canovino, in via S. Biagio a Padova. La satira investe elementi prettamente cittadini ed è pregevole proprio in ragione di certo sale e arguzia locale, unitamente a una quantità di aneddoti sui singoli personaggi, quali Alessandro Zacco, Pio Enea degli Obizzi, Sertorio Orsato, Ciro Anselmi, Benedetto Niasi, Alessandro Pizzati: la migliore gioventù patavina, anche se la più irrequieta. Questi padrani, amici del giovane D., sono anche i destinatari di un manipolo di rime burlesche (satire, capitoli e sonetti), trasmessoci dalla solerzia del Gennari e conservate nel cod. 616 del Seminario di Padova, già menzionato.
L'appartenenza alla fraglia non impedì al D. di ricoprire anche cariche importanti nella vita politico-culturale della città, soprattutto all'interno dell'Accademia dei Ricovrati: aggregato nel 1645, ne divenne segretario l'anno dopo e nel 1649 ebbe la carica di principe (che riottenne nel 1670, 1675 e 1677).
Alla fine del dicembre 1649 il D. si mise in viaggio, anzì fuggì, all'insaputa della moglie, per Roma, per prendere servizio alla corte dei cardinal Rinaldo d'Este. Di questo soggiorno romano, interrotto dopo appena qualche mese (all'inizio dell'estate era già di ritorno), sia per il cattivo clima della città, che gli procurò la malaria, sia per la vita dissipata che ivi si conduceva, ci resta testimonianza in un capitolo responsivo al cugino Orsato, in cui si esalta, in contrapposizione a Padova, Roma, sicura dall'insidia dei bravi e sgombra dall'ingiustizia. La fine del rapporto di dipendenza con il cardinal Rinaldo non interruppe tuttavia lo stretto legame che si era instaurato tra i due, tanto che il prelato intervenne a favore del D. anche un anno dopo, per liberarlo da un impaccio giudiziario, in cui era caduto per aver fatto da padrino in un duello.
Nonostante le non buone esperienze quale cortigiano e i guai con la giustizia il D. pubblicò nel 1650, per le cure di Andrea Baruzzi, un volume di Canzoni, di stile ancora una volta classico e intriso di mitologia; l'anno successivo (1651) ristampò Le ode, sempre ad istanza del Baruzzi, aumentandone il numero. Nel 1652 Leopoldo de' Medici incaricò il D. di mettere insieme un'antologia di poeti italiani viventi, da dedicare a Cristina di Svezia. Si rafforzò in questo periodo (e proprio in occasione dell'allestimento di questa silloge poetica) l'amicizia del D. con Ciro di Pers, testimoniata da una ricca corrispondenza, in cui il letterato friulano dava consigli eruditi e si manifestava censore attento delle opere del Dottori.
Probabilmente durante la permanenza in casa del cardinal d'Este il D. aveva concepito l'idea di scrivere l'Asino, poema eroicomico in dieci canti, strutturato alla maniera della Secchia rapita del Tassoni, prendendo spunto da un episodio di rivalità tra le città di Padova e Vicenza e intrecciando alle antiche cronache nomi e fatti e costumi dell'epoca sua, non senza arricchire la trama di invenzioni ed episodi del tutto originali. Il poema vide la luce a Padova nel 1652, sotto il nome anagrammatico di Iroldo Crotta, con gli "argomenti" di Alessandro Zacco e le "annotazioni" di Sertorio Orsato (ormai affermatosi quale archeologo), entrambi cugini dell'autore e non disprezzabili poeti in proprio. L'opera fu dedicata a Rinaldo d'Este, che ne aveva seguito le fasi di stesura, in quanto il D. gli inviava i canti mano a mano che li andava componendo (e dei primi due si conserva una redazione autografa, alquanto diversa dalla definitiva, nella Biblioteca Estense di Modena, cod. α. U. 6. 28 = It. 268).
Già dal 1653 (come attesta una lettera del 5 dicembre a Leopoldo de' Medici) il D. andava pensando alla trama di una tragedia e il 16 marzo del 1654 poteva inviare a Ciro di Pers, con lettera accompagnatoria, il manoscritto dell'Aristodemo, "frettoloso e precipitato parto d'una lunga gravidanza". Tra la data di composizione e la data di pubblicazione (1657, presso Matteo Cadorin in Padova) intercorre uno spazio di tempo di almeno tre anni in cui la tragedia su suggerimenti estrinseci di amici e di letterati (Leopoldo de' Medici, Ciro di Pers in prima linea, ma anche il cardinal Bernardino Spada, il dotto di origine siciliana Francesco Grimaldi, ecc.) fu migliorata e portata a maturazione, nonché rappresentata dagli stessi amici del D. in veste di attori.
Della laboriosa gestazione di quest'opera resta un documento prezioso nel cod. 668 della Biblioteca del Seminario di Padova che riporta una stesura anteriore a quella definitiva, abbozzo certo, ma che pure ha una sua vitalità e autonomia. La rarefatta lirica dell'Aristodemo è l'esempio più insigne di lingua tragica barocca in Italia. Rilanciata da Benedetto Croce che nel 1948 ne procurò una edizione moderna, la tragedia del D. si colloca, nonostante l'"impalcatura oratoria" sottesa alla poesia (come giustamente ha notato Franco Croce), quale vertice dell'arte dell'autore a un punto non più raggiunto, nel nostro teatro barocco, di tensione drammatica.
Il 1657 fu un anno triste nella vita del D., funestato dall'improvvisa morte (per causa di parto) della moglie. Lo sconforto del poeta ci è tramandato da due lettere, una all'amico Antonio da Rio ("nessuno riempie quella gran desolazione ch'è rimasta nel mio cuore dopo che ne fu svelto un affetto radicato col proprio, e col vigore di dodeci anni") e una a G. B. Marcheselli ("Ho perduto la moglie sul fior degli anni e delle speranze, e non so come parlarvi di conforto"), entrambe pubblicate nelle Lettere famigliari, scritte a imitazione di Plinio e di Simmaco (nell'edizione padovana, divisa in due sezioni, stampata nel 1658 dal tipografo G. B. Pasquati). Il Busetto afferma che una centuria di tali lettere fu pubblicata già nel 1652, ma questa circostanza è smentita da nostri ulteriori accertamenti bibliografici.
La cerchia degli estimatori del D. si andava intanto allargando fino ad annoverare anche il duca di Mantova Carlo II e sua sorella Eleonora, sposa dal 1651 dell'imperatore Ferdinando III. A Eleonora il D. legò le sue fortune di cortigiano, offrendole nel 1659 (per Matteo Cadorin) e nel 1664 (per Frambotto) le nuove ristampe delle sue Ode e onorando nel 1660, con un'orazione funebre, la morte della madre di lei, la duchessa Maria. Iniziava così un affettuoso commercio epistolare che avrà come esito nel maggioluglio del 1662 un viaggio del D. alla corte di Vienna, con il proposito di accompagnarvi il secondogenito Gianfrancesco (che doveva restarvi in qualità di paggio) ma con l'ambizioso intento di ottenere un riconoscimento cesareo, dopo il titolo comitale estensibile agli eredi, conferitogli quello stesso anno dal duca di Mantova per intercessione della stessa Eleonora. La permanenza a Vienna fu breve e forse non del tutto gradita (in ragione del clima e, forse, di certe sue aspettative andate deluse). Il rapporto con la corte asburgica restò tuttavia improntato a grande stima e cordialità. Al ritorno dall'Austria il D. compose il dramma musicale Ippolita, opera scritta su commissione per il compleanno dell'imperatore Leopoldo I, mecenate erudito e protettore delle scienze e delle arti. Alle relazioni con Vienna è legata anche l'amicizia con l'abate Domenico Federici. Del Federici il D. tradusse in latino l'opera La verità vendicata dai sofismi di Francia (1667)., scritta per confutare le pretensioni di Luigi XIV sui Paesi Bassi alla morte di Filippo IV di Spagna (1665). Ma il resoconto più interessante di questo rapporto ci viene da cinquantatré lettere del D. al Federici (conservate nella Biblioteca Federiciana di Fano) rese note solo da qualche anno (1971) dal Cerboni Baiardi: una corrispondenza abbastanza singolare che ricopre un arco esteso di tempo (dal 1665 al 1675) e che rivela taluni miti e allettamenti del D. nei confronti della vita cortigiana, senza, tuttavia, la tara di tanta epistolografia barocca puramente erudita o bassamente servile nei confronti del potere.
Il tono di queste lettere si caratterizza da un lato per un encomio non gretto, anche se certamente interessato, nei confronti della corte, dall'altro per una colloquiale discorsività (o "cicaleccio", per usare un'espressione autocritica), appena venata da punte di civile risentimento negli accenni alla condizione umiliante dell'Italia, ai barbari che "credono che l'inclita nostra nazione abbia perduto, con l'imperio, i semi d'una vera virtù" (lett. del 1° ott. 1666), o da impennate di stizza per la scarsa sollecitudine del Federici nel rispondergli e per gli impacci burocratici di fronte alle richieste insistenti del D.: "E che credevano questi signori ministri, ch'io volessi altro che essere dichiarato servidore cesareo? Hanno tanta gelosia che s'accrescano i servidori a Cesare?" (lett. del 12 giugno 1666). Il risultato di tali querele fu l'assegnazione di una pensione annua, a quanto sembra non sempre puntualmente corrisposta da Leopoldo I e tuttavia generosamente elargita dalla privata borsa di Eleonora.
Sotto lo pseudonimo di Eleuterio Dularete il D. diede alle stampe nel 1671 (editore ancora una volta il Frambotto) un dramma tragico, e a sfondo storico regionale, in prosa, Bianca de' Rossi, opera rappresentata in precedenza in casa del capitano di Padova Girolamo Gradenigo e successivamente vietata per intromissione del vescovo G. Barbarigo.
Ad argomento classico (Tacito, Annales, XII, 51) si ispira invece il dramma in prosa a lieto epilogo Zenobia di Radamisto, non facilmente databile e apparso postumo, appena pochi mesi dopo la morte dell'autore, nel 1686 (Venezia, Francesco Valvasense). A un interessante esperimento teatrale, anche se non del tutto risolto dal punto di vista poetico, in cui si abbandona il principio dell'unità di luogo.
Il Busetto (1902) suppone che l'opera fosse già compiuta prima dell'Aristodemo, per motivi interni di insufficienza artistica e per un accenno alla recita di una tragicommedia presente nelle Lett. fam. del 1658 (II, 99). Si tratta, probabilmente, di una tarda rielaborazione prosastica della Zenobia di Radamisto in versi, libretto d'opera ritrovato solo di recente, scritto dal D. per il teatro di corte di Vienna (e in parte anche musicato da A. Bertali).
La morte del secondogenito (1672) lasciò una traccia pesante nello spirito del D. che cantò questa sua sventura nella bella ode l'Ambizione punita, esprimente il dolore paterno e insieme un cauto ripensamento sugli allettamenti cortigiani. Del resto il D. continuò a cantare i fasti e i lutti della corte imperiale, come ad es. nel 1676 la morte di Claudia Felicita, seconda moglie dell'imperatore, con un'epigrafe latina, e la nascita dell'arciduca Giuseppe (17 apr. 1678) mediante un'orazione e un panegirico (Iosephi Austriaci genethliacon), apparsi in quell'occasione nel volume allestito dagli Accademici Ricovrati (Frambotto, 1678). Su istanza di Eleonora scrisse anche un oratorio per musica, il David pentito, compiuto forse prima del 1678 (per stare a una sommaria allusione contenuta in una lettera dell'imperatrice del 3 aprile di quell'anno), ma pubblicato dopo la sua morte.
Degli ultimi anni del D. è una riflessione sulla propria vita che si concretizzò in una sorta di autobiografia, le Confessioni (sul modello agostiniano), intrise di sapori e umori barocchi, e non prive di una patina di sincera resipiscenza al ricordo delle intemperanze giovanili. Queste memorie furono stese non molto posteriormente al 1676, anno della morte della nuora Margherita Borromeo di cui si parla con accenti di commossa partecipazione. Furono pubblicate postume nel 1696, ancora una volta sotto lo pseudonimo di Eleuterio Dularete. L'importanza delle Confessioni sta in una capacità autorappresentativa (e interessanti sono le pagine che rievocano la corrotta vita cittadina dell'epoca della sua gioventù, le notazioni intorno al suo proprio carattere, le allusioni, talora precise, talora sfumate, intorno alle sue vicende private).
A Federico Meninni, autore dei Discorsi sulla canzone (1677) in cui si esprimeva un giudizio non troppo lusinghiero sulla lirica dottoriana, il D. rispose con una accorata autodifesa, conservata autografa nella Biblioteca del Seminario di Padova (cod. 602), in cui si proclama la libertà del suo genio artistico "nernicissimo di trovarsi fra le angustie di molti superstiziosi precetti o notati o inventati da grammatici e critici".
La vecchiaia del D. trascorse tra gli studi e gli acciacchi di una malattia di cui v'è un cenno anche nelle Confessioni: "Pativa il corpo, languiva l'animo infetto da una lunga esalazione di vapori maligni, che facevano tremare il cuore e lancinavano il capo con acerbe e successive punture". Le ultime prove artistiche si inquadrano in un tirocinio di dotta ma modesta letteratura: del 1680 è una corrispondenza in latino con il cugino Luigi Camposampiero (sette lettere e relative risposte); del 1681 una satira, La pirucha, dedicata a Marsilio Papafava contro il nuovo costume importato dalla Francia; di qualche anno anteriore è invece lo scritto polemico Nonii Argentarii Noctua ad Marsilium Papafavam (Padova, Bibl. civica, ms. B. p. 168), redatto contro la prolusione di Ottavio Ferrari, Minervae Clypeus, che esalta la cultura accademica padovana e denigra la città in se stessa.
Il D. morì il 23 luglio 1686 a Padova. L'Accademia dei Ricovrati gli rese solenni onoranze funebri nella chiesa degli Eremitani e l'orazione, recitata da Firmano Pochini, fu poi premessa all'edizione complessiva delle Opere dello scrittore allestita in due volumi frambottiani nel 1695.
Opere: Per una descrizione dettagliata delle opere a stampa e manoscritte del D. è ancora utilissima l'appendice bibliografica offerta dalla monografia di N. Busetto, C. de' D. letterato padovano del secolo XVII, Città di Castello 1902 (da integrare con le notizie bibliografiche presenti in A. Daniele, C. de' D. Lingua, cultura e aneddoti, Padova 1986, e M. Magliani, Le opere a stampa di C. de'D., Padova 1987). Qui si danno le informazioni più essenziali (con qualche rettifica) e i necessari aggiornamenti.
Dell'Alfenore esistono due edizioni del 1644: la prima, padovana per Frambotto, la seconda, veneziana per Matteo Leni e Giovanni Vecellio (sfuggita al Busetto). Più densa la serie delle edizioni (tutte padovane) delle liriche. Nel 1643 uscirono le Poesie liriche (Frambotto); seguono Le ode nel 1647 (Crivellari); nel 1650 le Canzoni (Pasquati); nel 1651 ancora Le ode, accresciute (nella stampa camerale, ad istanza del Baruzzi); nel 1659 le Ode sacre e morali (Cadorin). La quarta edizione delle Ode, del 1664, propone una ripartizione in odi "eroiche, fune- esse vengono ribri, amorose, morali e sacre" stampate (unite ai Sonetti) sempre dal Frambotto nel 1680 e nel 1695 (nelle Opere postume, I, pp. 1-803; II, pp. 1-58, dedicate dall'editore all'imperatore Leopoldo I).
La prima edizione dell'Asino è: L'Asino, "poema eroicomico d'Iroldo Crotta. Con gli argomenti del signor Alessandro Zacco e le annotazioni del Signor Sertorio Orsato", Padova 1652 (ad istanza del Baruzzi, presso i Combi). Un'altra edizione fu apprestata in Venezia lo stesso anno (per Matteo Leni). Importante è l'edizione Brandolese del 1796, stampata a Padova con una Memoria dell'ab. G. Gennari; meno quella Vendramini-Mosca, Vicenza 1796. L'opera fu riedita a Milano nel 1833 per Nicolò Bettoni, nel vol. XIX della Biblioteca enciclopedica italiana, pp. 510-578, quindi a Venezia nel 1843 in volumetto singolo e nel 1844 nel vol: VII del Parnaso italiano, con altri poemi eroicomici, e nel 1919 a Lanciano a cura di A. Toaf. Ora il poema si legge nell'edizione critica a cura di A. Daniele, Bari 1987 (Scrittori d'Italia Laterza). L'Aristodemo ebbe varie edizioni mentre l'autore era ancora in vita: la prima per i tipi di Matteo Cadorin, Padova 1657; poi altre ristampe, tutte del Frambotto (1668, 1670, 1680, stando alle indicazioni del Gennari). L'opera apparve anche postuma nel vol. II delle Opere. Inserita da S. Maffei nel Teatro italiano ossia Scelta di tragedie per uso della scena, III, Verona 1725 (Vallarsi), l'Aristodemo è stato riproposto da B. Croce, Firenze 1948, e indi ripreso nel Teatro italiano del Seicento, a cura di L. Fassò, Milano-Napoli 1956, nel Teatro tragico italiano, a cura di F. Doglio, Parma 1960, nella Tragedia classica dalle origini al Maffei, a cura di G. Gasparini, Torino 1963, nella Poesia del Seicento, a cura di C. Muscetta e P. P. Ferrante, Torino 1964 e nel Teatro tragico italiano dal barocco al romanticismo, a cura di M. Puppo, Torino 1964.
Altre opere drammatiche ebbero minore fortuna editoriale: Bianca, dramma tragico di Eleuterio Dularete, Padova 1671 (Frambotto); Zenobia di Radamisto, Venezia 1686 (Valvasense); Ippolita (dramma per musica) e David pentito (oratorio per musica) nel vol. II delle Opere. A parte va considerato il libretto d'opera Zenobia di Radamisto (Vienna, Cosmerovio 1662), a noi noto solo per una copia della stampa, con incisioni di L. O. Burnacini, conservata alla Nationalbibliothek di Vienna.
Delle Lettere famigliari la prima edizione pervenutaci è del 1658 (Padova, ad istanza di Andrea Baruzzi). Furono ripubblicate a Venezia da Alessandro Zatta, nel 1664, con l'aggiunta del Panegirico alla serenissima duchessa di Mantova e riprese nel vol. II delle Opere.
Le Confessioni di Eleuterio Dularete ci sono note per una stampa padovana di Sebastiano Spera in Dio del 1696 e per una seconda impressione veneziana dello stesso anno, dovuta all'Albrizzi. Si trovano unite, in alcuni esemplari, al vol. II delle Opere. Della prima edizione delle Confessioni è ora accessibile una ristampa anastatica, preceduta da una breve introduzione di A. Daniele (Padova 1987).
Di alcune satire e capitoli satirici del D. esistono alcuni opuscoli ottocenteschi non integrali: La parrucca. Per nozze Fabris-Monferà, Padova 1826; Due capitoli del conte Sertorio Orsato e del conte C. D., Padova 1847; Il basto. Per nozze Pizzati-Perazzolo, Padova 1849.
La Galatea è stata pubblicata frammentariamente nel secolo scorso, in opuscoli d'occasione: Galatea, poema inedito di C. D., C. I, per nozze Fioravanti Onesti-Piazzoni, Padova 1850; Galatea, C. IV, per nozze Stefanon- Vaona, Alba 1894; Galatea, C. V, per nozze Prina-Porto, Padova 1861. Una edizione critica integrale è stata pubblicata a cura di A. Daniele, Bologna 1977.
C. L. Golino ha curato IlParnaso, Berkeley-Los Angeles 1957 (cfr. le recensioni di G. Bàrberi Squarotti, in Giorn. st. d. letter, ital., CXXXIV [1957], pp. 410 s., e di F. Croce, in Rass. d. lett. it., LXI [1957], pp. 75-85), e La prigione, in Studi secenteschi, II (1961), pp. 147-253.
A G. Cerboni Baiardi si deve invece la cura delle Lettere a Domenico Federici, Urbino 1971 (cfr. recens. di F. Croce, in Rass. d. lett. it., LXXV [1971], pp. 546-53).
Bibl.: G. Gennari, Memoria intorno la vita e le opere del conte C. D. [premessa alla quarta ediz. dell'Asino], Padova 1796; G. Vedova, Biografia degli scrittori padovani, Padova 1832, I, pp. 358-367; L. De Carlo, Notizie e studi sopra C. de' D. e le sue opere, Padova 1896; A. Moschetti, Un episodio biografico di C. D., in Boll. del Museo civico di Padova, I (1898), pp. 81-84, 92-96, 102 ss.; N. Busetto, Alcune satire inedite. Loro relazione con la storia della vita padovana nel secolo XVII, in Ateneo veneto, XXIV (1901), 1, pp. 220-239, 398-404; 2, pp. 60-81, 161-227; Id., C. de' D. letterato padovano del secolo XVII, cit. (la biografia critica più sicura e tuttora indispensabile, fornita di una ricca messe di inediti, soprattutto lettere), con le recensioni di E. Bertana, in Rassegna bibl. della lett. ital., XI [1903], pp. 78-85, e di A. Belloni, in Giorn. st. d. lett. ital., XLI [1903], pp. 445 s.; V. Osimo, Un letterato padovano del Seicento. C. D., in Studi e profili, Milano-Palermo-Napoli 1905, pp. 35-51; B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari 1929, pp. 348-59, 381-85; F. Puma, C. de' D., Messina 1950; F. Croce, C. de'D., Firenze 1957 (studio critico complessivo sull'opera dottoriana, e cfr. anche la rec. di N. Busetto. in Lettere italiane, X [1958], pp. 536-39); M. L. Doglio, C. de' D., in Diz. critico della letter. ital., Torino 1973, II, pp. 21-25 [1986], II, pp. 180-1831; M. Turchi, Opere di G. Chiabrera e lirici non marinisti del Seicento, Torino 1973, pp. 823-35; G. Ronconi, Le ragioni dei principi e "l'onorata ambizione" del poeta. Domenico Federici corrispondente di Ciro di Pers e di C.D., in Atti e memorie dell'Accademia Patavina di scienze, lettere ed arti, XCIV (1981-1982), classe di sc. mor., lett. ed arti, pp. 65-81, 207-221; Id., Classicismo e inquietudine barocca in un grande scrittore padovano: C. de' D., in Padova e il suo territorio, n. 4, nov.-dic. 1986, pp. 12-17; M. Magliani, Ritratto di C. de' D., ibid., pp. 12-15; L'Aristodemo è l'opera più studiata del D.; sull'argomento si vedano: B. Zumbini, Sulla poesia di V. Monti, Firenze, 1886, pp. 47-69; A. Zardo, Aristodemo, in Nuova Antologia, 1° giugno 1892, pp. 422-43; F. Beneducci, Aristodemo, in Scampoli critici, Oneglia 1899, pp. 65-96; V. Trombatore, La concezione tragica dell'Aristodemo di C. de' D., Palermo 1903; B. Croce, Introd. all'ed. cit. dell'Aristodemo (poi in Letture di poeti, Bari 1950); G. I. Lopriore, Saggio sull'Aristodemo di C. de'D., Pisa 1950; G. Di Pino, In margine all'Aristodemo, in Linguaggio della tragedia affleriana, Firenze 1952, pp. 105-09; F. Croce, L'Aristodemo del D. e il barocco, in La critica stilistica e il barocco letterario, Firenze 1958, pp. 177-99; G. Getto, L'Aristodemo capolavoro del barocco, in Nuova Antologia, aprile 1959, pp. 455-72 (con la recensione di F. Croce, in Rass. d. lett. ital., s. 7, LXIII [1959], pp. 336-39), poi in Barocco in prosa e in poesia, Milano 1969, pp. 261-86: di questo volume del Getto si consideri anche il saggio Esperienze poetiche della civiltà venez. nell'età barocca, pp. 287-318; C. L. Golino, De' D. and the Italian baroque, in Italica, XXXIX (1962), I, pp. 31-43; W. Drost, C. de' D. Tragoedie Aristodemo (1647) in ihren Beziehungen zur Antike und zur französischen Klassik in Romanische Forschungen, LXXVI (1964), pp. 353-93; M. Ariani, Note sullo stile tragico dell'Aristodemo di C. D., in Studi secenteschi, XIII (1972), pp. 163-179; A. Marin, Sul testo dell'Aristodemo di C. D., in Annali della Facoltà di lettere e filosofia di Padova, II (1977), pp. 187-232; C. Bella, "Le dieu caché": L'Aristodemo di C. de' D., in Paragone. Letteratura, CCCXL (1978), pp. 23-53; P. Tuscano, Stilemi dellavalliani e di C. de' D. nei "Canti" del Leopardi, in Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, Atti del IV Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 13-16 sett. 1976), Firenze 1978, pp. 823-838; M. Cottino Jones, Il dramma di un personaggio: Aristodemo, in Canadian Journal of Italian studies, V (1981), 1-2, pp. 1-8; L. Sanguineti White, Aristodemo, tragedia della libertà, in Studi secenteschi, XXIX (1988), pp. 95-121.