DE CRISTOFORIS, Carlo
Nacque a Milano il 20 ott. 1824, primogenito di nove figli, da Giovan Battista e da Giovanna Adelaide Rota.
Il padre, figura di spicco nell'ambiente culturale milanese, amico del Manzoni e uno degli istitutori del Cattaneo, in epoca napoleonica era stato viceprefetto a Salò e alla caduta dell'Impero si era ritirato a vita privata, dedicandosi a studi di pedagogia e alla letteratura per l'infanzia; e nel figlio, che inizialmente era stato affidato alle cure di M. Macchi, ebbe perciò il primo banco di prova delle sue idee educative che miravano ad uno sviluppo armonioso della personalità sulla base di una salda e sincera accettazione della fede e della morale cristiane.
La precettistica paterna, con i suoi contenuti evangelici e i suoi richiami al senso del dovere, si impresse profondamente nell'animo dei D. producendovi, a contatto con un carattere naturalmente esuberante, conflitti interiori di non facile superamento; tanto che nel 1838, sconvolto per la scomparsa del padre e credendo di avvertire in sé il nascere di una vocazione, il D. s'infervorò nello studio della religione con l'intenzione di avviarsi al sacerdozio. Da tale proposito scarsamente meditato lo distolse la madre che lo convinse invece a sostenere l'esame per un posto gratuito di convittore nel collegio Ghislieri di Pavia per frequentare nella locale università i corsi di giurisprudenza.
Il D. entrò nel Ghislieri il 3 nov. 1842. Il collegio aveva una tradizione in fatto di serietà degli studi e di libertà della ricerca, e richiedeva ai suoi ospiti un impegno costante e profondo nello stesso momento in cui ne favoriva una preparazione di tipo non dogmatico. In questa atmosfera, che proprio in quegli anni subiva l'azione innovatrice di una generazione ansiosa di cambiare e portata a guardare con spirito concretamente riformatore ai problemi della Lombardia, si compì lo sviluppo dei D. che sull'educazione cristiana dell'adolescenza innestò il bisogno di conoscere scientificamente la realtà, il desiderio vivissimo di porre rimedio ai mali della società e l'impostazione pragmatistica - tipica di certa cultura lombarda - delle soluzioni proposte.
La Milano in cui il D. tornò dopo aver conseguito la laurea in legge (1847) viveva la vigilia dell'insurrezione antiaustriaca: membro autorevole di quella élite del patriottismo che si era formata sui testi mazziniani e ora lavorava a preparare la rivolta armata, il D. fu, coi quattro fratelli minori, tra i primi a salire sulle arricate al seguito di quel L. Manara che, improvvisatosi capo militare, guidò in vari punti della città la lotta alle truppe del gen. Radetzky. Il coraggio e la serenità con cui affrontò i combattimenti e quindi partecipò, sempre col Manara, alla campagna del battaglione dei volontari nell'alta Lombardia non gli fecero tuttavia chiudere gli occhi sui difetti d'una azione militare, quella dei corpi franchi, che si sforzava di colmare col valore dei singoli e l'agilità degli spostamenti le lacune organizzative e la preparazione improvvisata. Perciò, prima ancora che nel settembre del 1848 il battaglione Manara si sciogliesse, il D., evidentemente incredulo sulle possibilità della guerra di popolo propagandata come sola salvezza dai repubblicani, si ritirò in una casa di campagna a Gavirate, donde assistette, con partecipazione umana ma anche con scetticismo, agli eventi del 1849.
Tra il 1850 e il 1853 partecipò alle attività occulte del milanese Comitato dell'Olona esponendosi di persona in audaci gesti di sfida alla polizia imperiale o in beffe clamorose ai danni della nobiltà austriacante (fu lui a sfregiare il ritratto del conte A. Nava esposto a Brera da F. Hayez). Mentre d'altra parte frequentava le riunioni politico-mondane del salotto della contessa Maffei in cui prendeva gradualmente piede il rifiuto della strategia insurrezionale mazziniana, il D. si immergeva in una analisi attenta della realtà sociale lombarda e, al corrente dei progressi fatti segnare nell'economia politica in Francia dal Proudhon, scorgeva nella soluzione della questione agraria un punto di passaggio obbligato nella strada verso l'indipendenza e l'unità nazionale. Nasceva così il volume Il credito bancario e i contadini (Milano 1851; ripubblicato ivi nel 1871 con il titolo La libertà delle banche e la soluzione del problema sociale).
Partendo dal postulato: "I prodotti si cambiano coi prodotti" (P. 7) e assodato che la vita economica si basa sulla legge della "proporzionalità" (cioè della vendibilità) dei prodotti, il D. affronta il problema della mobilitazione dei capitali con l'obbiettivo di farli giungere a chi li possa utilizzare per incrementare la produzione. La soluzione da lui escogitata è quella di un credito a un tasso di interesse via via più ridotto, ma tuttavia sempre presente, in quanto per il D. - diversamente che per il Proudhon, il quale lo voleva abolito del tutto scopo finale non era soltanto quello della circolazione dei capitali, ma anche il rispetto della legge della proporzionalità, che avrebbe consentito un incremento della produzione vendibile: "nessuno vorrà porsi ad una produzione che crei merci non vendibili, non proporzionate, giacché è dalla vendita che l'intraprenditore spera di ricavare e l'interesse dei capitale ed il profitto proprio" (p. 194). Per ottenere il progressivo abbassamento degli interessi bancari secondo il D. occorreva abolire il regime privilegiato e istituire un sistema bancario assolutamente libero da vincoli statali e governato unicamente dalla legge della concorrenza: in tal modo i capitali sarebbero affluiti in gran quantità sotto forma di depositi attratti dal pagamento dell'interesse bancario (che non esisteva in regime privilegiato), traducendosi in un aumento del credito e di conseguenza in un incremento della produzione, del "prodotto netto della società" (p. 205). Sarebbe stata, infine, la concorrenza a produrre gradatamente una diminuzione indefinita dei tassi di interesse sul credito bancario.
Questo fenomeno avrebbe avuto ripercussioni vantaggiose sia per le classi più povere, in particolare per i contadini - i quali, grazie all'abbondanza di credito a buon mercato, sarebbero stati messi in condizione di divenire piccoli proprietari -, sia per i "capitalisti", i quali avrebbero visto la perdita relativa, causata dall'abbassamento dei tassi di interesse, ampiamente compensata dal maggiore prelievo da un prodotto netto sociale sempre più elevato. Il progetto del D. aveva il suo fine principale nel raggiungimento di una situazione di equilibrio per la collettività, per porla al riparo da ogni turbamento sia di carattere economico (eliminazione delle crisi cicliche) sia di carattere sociale ("la scienza fa sparire ogni sognato antagonismo di classe e ci acquieta dall'avvenire", p. 206).
Il tratto distintivo della concezione del D. è da trovare, quindi, non nella sua derivazione dalla teoria proudhoniana, ma nell'affermazione di un ideale di libertà che, facendo perno su un altro ideale, quello della giustizia, consentisse il dispiegarsi, al di fuori di ogni controllo dello Stato, di tutte le energie dell'uomo; un ideale fatto di ottimismo, ingenuità e fiducia indubbiamente eccessiva nel sistema della libera concorrenza e nelle leggi del mercato, sistema che era già stato criticato negli studi del Sismondi e dell'Owen come suscettibile di portare ineluttabilmente a una concentrazione di capitali nelle mani di pochi.
Questa proposta doveva costituire anche l'ossatura della Memoria sulle condizioni dei contadini in Lombardia, in relazione ai contratti rurali ed alle istituzioni di credito agrario presentata dal D. in quello stesso 1851 al concorso bandito dalla Società d'incoraggiamento di scienze, lettere ed arti di Milano, poi vinto da S. Jacini che era con lui il solo candidato al premio: il testo della Memoria è andato perduto, ma il sunto che ne fu dato dal Campolieti insieme con i frammenti successivi pet un mai compiuto studio sul credito agrario provano come per il D. la ricerca d'un rinnovamento politico non potesse andar disgiunta da una vasta opera di riforma sociale; ma ciò, lungi dal divenire in lui motivo agitatorio e spinta alla propaganda delle proprie idee, continuava a restare oggetto di riflessione scientifica, nella persuasione che "la rivoluzione italiana doveva venire dall'alto, dagli intelligenti" (Campolieti, p. 445). Anche nell'attività politica vera e propria il repubblicanesimo del D., che nella Milano postquarantottesca aveva curato particolarmente il raccordo dell'elemento settario borghese con quello popolare, subiva una parabola in cui il primo tratto era costituito da un atteggiamento di sempre più marcata sfiducia verso le insurrezioni armate: l'organizzazione del moto del 6 febbraio 1853 lo vide perciò sulle stesse posizioni di quelle "marsine" a cui il Mazzini avrebbe poi addebitato la defezione e il fallimento. Tuttavia, proprio perché a conoscenza della preparazione del moto e per essere poi sceso in strada rischiando l'arresto, il D. fu costretto a restare nascosto fino a quando il 24 febbraio non riuscì a lasciare Milano e a rifugiarsi nel Canton Ticino.
La condanna, comminata da un tribunale austriaco il 21 luglio 1854, a 12 anni di arresto in fortezza e alla perdita della nobiltà che era stata riconosciuta alla famiglia con diploma imperiale nel 1793 e confermata nel 1816, raggiunse il D. a Parigi dove, nella vicinanza con esuli come D. Manin e G. Sirtori, si sarebbe definito, dopo una breve infatuazione per il murattismo, il suo accostamento ai gruppi unitari filosabaudi. All'intemo della revisione da lui iniziata dopo il '48 occupava un posto di preminenza la considerazione della scarsa esperienza militare delle forze rivoluzionarie italiane: per cercare un rimedio su questo terreno anche sotto il profilo personale il D., visto naufragare un progetto di colonizzazione in Perù, frequentò per un anno (1854) i corsi della Scuola imperiale d'applicazione di Stato Maggiore in Parigi. Col titolo conseguito tentò invano di farsi arruolare nell'esercito francese impegnato in Crimea: ottenne solo, grazie ai buoni uffici di J. Hudson, ministro inglese in Piemonte, di essere assegnato col grado di tenente ad una legione anglo-italiana che a Malta, ove era stata dislocata, trascorse quasi tutto il 1856 nella vana attesa d'un impiego bellico.
Finita la guerra di Crimea, il D. riprese a viaggiare, visitando l'Inghilterra. il Belgio, di nuovo la Francia e facendo spesso tappa a Torino: carattere irrequieto, tormentato dal pensiero di non aver ancora trovato una sua collocazione e riluttante all'idea di rimpatriare fruendo dell'amnistia concessa dall'Austria all'inizio del 1857 (diceva che "non già l'imperatore aveva a perdonare a lui, ma bensì molto lui all'imperatore": Guttièrez, p. 207)., il D. si applicò allora agli studi di meccanica e cullò per qualche tempo il sogno. di trasferirsi in Etiopia per collaborare all'opera di civilizzazione intrapresa dal negus Teodoro II. Sul finire del '57 tornò in Inghilterra dove riuscì ad ottenere un insegnamento di tecnica delle fortificazioni prima come supplente nel collegio militare di Sunbury, quindi aprendo e dirigendo a Londra una scuola per ufficiali (luglio 1858).
Il D. aveva intrapreso la riflessione sul problema militare e sul ruolo dell'esercito come strumento indispensabile per la conquista dell'indipendenza (in ciò risiedeva anche una delle cause del suo avvicinamento al Piemonte) subito dopo gli insuccessi del '48. Ne era derivato un saggio che, arricchito dalle esperienze di studio e insegnamento in Francia ed in Inghilterra, avrebbe visto la luce come opera postuma col titolo Che cosa sia la guerra (Milano 1860). In questo testo, giudicato da taluni come "la più importante opera apparsa in Italia sulla guerra nel secolo scorso" (Rochat, p. 391), da altri inserito impropriamente nel filone proudhoniano, il D., partendo dalla analisi delle guerre rivoluzionarie di fine '700 e soprattutto sulla base della sterminata casistica delle campagne napoleoniche, enunciava quello che per lui era il "principio sommo" dell'arte militare: la massa come fattore decisivo della vittoria (ossia della disarticolazione, più che della distruzione fisica, dell'esercito nemico). Sviluppando questo assunto con procedimento simile a quello adottato per l'opera sul Credito ma senza la stessa capacità di persuasione, il D. subordinava il raggiungimento dell'obiettivo primario alla creazione di un esercito di caserma a lunga ferma (sul modello, ha osservato il Pieri, non tanto delle armate napolconiche quanto di quelle di Federico II di Prussia), compatto, ordinato, guidato da ufficiali.di carriera e tenuto insieme da una disciplina ferrea e da un senso rigoroso della gerarchia. La struttura da lui ideata era così caratterizzata sottoilprofilo professionale da escludere esplicitamente ogni ricorso a quella guerra per bande tanto cara ai democratici. E in questo quadro alcuni fugaci richiami al solidarismo proudhoniano e, soprattutto, qualche concessione al messianismo della giovinezza non erano tali da intaccare una concezione che faceva dell'esercito una istituzione molto selezionata ed informata ad un forte spirito di casta.
Allo scoppio della guerra del 1859, che aveva atteso con ansia febbrile, il D. rientrò in Italia. A Torino chiese inutilmente di essere arruolato nell'esercito regio: il suo passato di mazziniano lo rendeva probabilmente sospetto non solo all'ufficialità piemontese ma allo stesso Garibaldì, che lo accolse tra le sue file senza però affidargli quei compiti di ufficiale di Stato Maggiore cui egli si sentiva in grado di aspirare. Capitano comandante della 3ª compagnia del 2° reggimento dei Cacciatori delle Alpi, l'8 maggio il D. sostenne il primo scontro con le avanguardie austriache; il 20 maggio, varcato il Ticino, fu lasciato a presidiare Sesto Calende dal Garibaldi che intanto entrava in Varese: attaccato ancora, il 25 maggio il D. si ricongiunse al Garibaldi che il 27 maggio, a San Fermo, lo lanciò all'attacco d'una postazione nemica. Il D. fu tra i primi a cadere, secondo alcuni tradito da un eccesso di foga che gli fece dimenticare ogni cautela, secondo altri incolpevolmente portato ad anticipare l'assalto dal fuoco prematuro d'una squadra operante nei pressi: colpito al ventre, spirò poco dopo tra le braccia del fratello Malachia, ufficiale medico dei Cacciatori delle Alpi destinato a diventare celebre ginecologo e capo della massoneria indipendente.
Fra le sue opere, Il credito bancario è stato recentemente ristampato (Milano 1981) con introduzioni di M. Talamona ed E. Di Nolfò; il Che cosa sia la guerra ha avuto altre quattro edizioni (Milano 1868; Modena 1894; Roma 1925; ibid. 1938, a cura di R. Morretta).
Fonti e Bibl.: Le carte lasciate dal D., dopo essere state utilizzate da G. Guttièrez, Il capitano D., Milano 1860, (questo lavoro fu recensito sul Politecnico, s. 2, VIII [1860], 47, pp. 519-527), e da N. M. Campolieti, La mente e l'anima d'un eroe, Milano 1907, sono andate disperse. Oltre a quelle utilizzate dal Guttièrez e dal Campolieti, cui hanno attinto tutti i biografi successivi, altre fonti coeve sul D. sono: Ediz. naz. degli scritti di G. Mazzini, XLIX, e Appendice, IV, ad Indices; B. L. Guastalla, Carte di Enrico Guastalla, Roma-Milano 1921, p. XV; Lettere di L. Manara a F. Bonacina Spini…, a cura di F. Ercole, Roma 1939, ad Indicem; C. Cattaneo, Epistolario, a cura di R. Caddeo, II, Firenze 1952, ad Indicem; G. Visconti Venosta, Ricordi di gioventù, Milano 1959, pp. 59, 139, 150, 158 ss., 166, 173, 176 s., 315 s., 321, 323. Indicazioni bibl. sul D. sono fornite da A. P. Campanella, G. Garibaldi e la tradiz. garibaldina. Una bibliografia dal 1807 al 1970, II, Ginevra 1971, ad Indicem, e da F. Della Peruta, I democratici dalla Restauraz. all'Unità, in Bibliografia dell'età del Ris. in onore di A. M. Ghisalberti, I, Firenze 1971, p. 174. Ulteriori dettagli sulla vita del D. si ricavano da repertori e studi a carattere generale: così per notizie sulla famiglia si rinvia a V. Spreti, Enc. stor-nobiliare it., II, Milano 1929, p. 577; V. Piceni, Centenaria signora gallaratese ed una pagina del Ris. nazionale. C. D. e la sua famiglia, in Rassegna gallaratese di storia e d'arte, XV (1956), pp. 204-234; D. Muoni, Storia e geneal. della famiglia De Cristoforis, in F. Calvi, Famiglie notabili milanesi, Bologna 1969, II, ad nomen; Libro della nobiltà lombarda, II, Milano 1978, pp. 422 s. Sugli anni del Ghislieri si veda E. Sanesi, I Ghisleriani del "Crepuscolo", in Ilcollegio Ghislieri 1567-1966, Milano 1967, pp. 364, 371, 374 s., 377. Sulla parte avuta nel '48 milanese: G. Capasso, Dandolo, Morosini, Manara e il I battaglione dei bersaglieri lombardi 1848-49, Milano 1914, pp. 34, 37, 50, 123, 148, 250 ss., 274, 280. Sugli anni 1849-53 e sul suo ruolo nel moto del 6 febbraio: T. Massarani, C. Tenca e il pensiero civile del suo tempo, Milano 1886, p. 245; R. Barbiera, Il salotto della contessa Maffei, Sesto San Giovanni 1914, pp. 117, 122, 127, 142, 192 s.; L. Pollini, Mazzini e la rivolta milanese del 6 febbr. 1853, Milano 1930, pp. 32, 35 s., 51, 61, 72, 81 s., 91 s., 115, 223 s., 309 s., 332, 345, 356, 378; Storia di Milano, XV, Milano 1962, ad Indicem. Sul murattismo dei D. un cenno in C. Agrati, G. Sirtori "il primo dei Mille", Bari 1940, p. 151. Sulla morte e sulla polemica derivatane si vedano: G. Guerzoni, Garibaldi, Firenze 1882, ad Indicem; J. W. Mario, A. Bertani e i suoi tempi, Firenze 1888, I, pp. 340, 362 s., 369, 372 ss.; C. Pagani. Milano e la Lombardia nel 1859, Milano 1909, pp. 242-246, 251-278. Discutibile l'interpretazione che dei pensiero dei D. dà F. Della Peruta, I democratici e la rivol. italiana..., Milano 1958, ad Indicem; limitatamente alle teorie militari si v. C. Argan, Il pensiero di C. D. e la guerra mod., in Riv. milit. italiana, VI (1932), pp. 501-24; P. Pieri, Guerra e politica negli scrittori italiani, Milano-Napoli 1955, ad Indicem; Id., Le forze armate nell'età della Destra, Milano 1962, ad Indicem; G. Rochat., C. D., in Il collegio Ghislieri, cit., pp. 391-393. Vedi ora: G. Monsagrati, Per una rilettura degli scritti di C. D., in Clio, XIX (1983), pp. 225-248.