DE CESARE, Carlo
Nacque a Spinazzola (Bari) il 12 nov. 1824 da Raffaele, importante censuario di terre nel Tavoliere, e da Francesca Sangermano. Secondo l'Arrighi, la famiglia vantava tradizioni liberali: nel 1799 alcuni suoi membri sarebbero stati giustiziati nella repressione borbonica e le loro terre confiscate.
Dopo aver frequentato il liceo di Potenza, conseguì la laurea in giurisprudenza a Napoli, vincendo successivamente il concorso per l'alunnato in magistratura. Appena ventenne, si segnalava per la pubblicazione di versi e di un romanzo storico, Il conte di Minervino. Storia del '300 (I-III, Bari 1845). Non sembra partecipasse direttamente ai moti del '48 - come invece ha cercato di accreditare qualche tardo biografo -, pur svolgendo opera pubblicistica, in particolare col saggio: Dell'amministrazione della giustizia nel Regno di Napoli (Napoli 1849). Fu egualmente inquisito nel '49 e, dopo una lunga latitanza, arrestato e processato a Bari, sotto l'accusa di far parte della setta dell'Unità d'Italia; assolto, fu condannato al confino a Spinazzola. Ormai in fama di capo del partito liberale locale, subì ancora arresti e persecuzioni. In quegli anni in realtà, il D. si segnalava per i suoi interessi agronomici, con l'organizzazione di un podere modello sulle proprie terre, e per la crescente passione per l'osservazione e gli studi economici che lo porterà a pubblicare la sua prima importante opera sull'agricoltura pugliese (Intorno alla ricchezza pugliese, Bari 1853).
Dopo il 1856 ottenne di ritornare a Napoli, ove strinse intima amicizia con G. Manna. La permanenza nella capitale gli permise di allargare i propri orizzonti teorici e moltiplicare le possibilità di pubblicazione. Ben presto si impose come uno degli ingegni più brillanti nel grigio panorama degli studi economici meridionali: pur senza attaccare direttamente la politica borbonica, si fece alfiere dei principi del libero scambio, propugnati come strumento di progresso universale.
In due opere teorico-descrittive sull'economia dell'Europa e dei paesi asiatici (Il mondo civile ed industriale nel secolo XIX, Napoli 1857; Della industria asiatica, ibid. 1857) e in un breve trattato sul liberismo (Della protezione e del libero cambio, ibid. 1858), la contrapposizione fra libero scambio e protezione assumeva i contorni di un confronto fra civiltà e decadenza, nel quale il Regno borbonico appariva - pur senza dirsi apertamente dalla parte di quest'ultima, alla pari delle statiche nazioni asiatiche. Le critiche alle storture provocate dai regimi protezionistici si precisavano successivamente in un attento studio sullo stato dell'agricoltura pugliese e sulle cause che ne impedivano un deciso progresso (Delle condizioni economiche e morali delle classi agricole nelle tre provincie di Puglia, Napoli 1859): l'opera - ancor oggi valida per i giudizi e la documentazione che contiene - gli fece vincere un concorso indetto dall'Accademia Pontaniana.
Nel 1860 ritornò alla politica attiva; chiamato dal Manna ad assumere l'incarico di direttore generale delle Finanze nel governo retto dallo Spinelli, si trovo a svolgere funzioni di minis tro dopo la partenza del Manna come ambasciatore a Torino. Nei giorni concitati che seguirono allo sbarco di Garibaldi sul continente, si segnalò per la politica di moderazione: sembra decisivo il suo intervento nello scongiurare la repressione della rivolta di Potenza. Con L. Romano e M. Giacchi accolse alla stazione Garibaldi. Il governo dittatoriale -lo riconfennò nel posto. Nacque in questo periodo la duratura amicizia con A. Scialoja, assieme al quale fu tra gli artefici dell'estensione delle tariffe doganali sarde all'ex Regno; l'amicizia - cementata dalla comune fede liberista e dai pericoli di quelle giornate - influirà non poco sulle future vicende pubbliche del D., legate almeno in parte alle fortune politiche dello Scialoja. Nel giugno 1861, in un'elezione suppletiva, fu eletto deputato dal collegio di Napoli per la VIII legislatura (sarà poi rieletto nella IX dal collegio di Acerenza).
È notevole la foga e la mole pubblicistica con cui il D. si inserì nel dibattito economico-istituzionale dopo l'Unità. Con la lucidità e l'energia dell'uomo che finalmente ha i mezzi per mettere in pratica le proprie idee, perseguì il suo progetto libero-scambista: chiamato - non ancora deputato - a far parte della commissione di cinque membri, incaricata dal Cavour di studiare la revisione delle tariffe doganali, sarà nel 1863 il maggior difensore in Parlamento del trattato cominerciale con la Francia (discorsi del 24 e 25 novembre).
Richiamandosi all'eredità di Cavour 0 il trattato di commercio ... è l'ultimo atto dell'amministrazione del conte di Cavour") e àlle circostanze politiche che lo giustificavano ("volendo infine ... che il Regno italiano per viste di trattati entrasse nella famiglia delle potenze europee"), il D. sviluppava un'aggressiva argomentazione liberista ("Se dunque noi non possiamo far entrare i nostri articoli in Francia col 60, col 70 e con l'80 per 100 di ribasso delle tariffe, facciamo che i prodotti francesi entrino almeno a buon mercato in Italia; perchè il nostro guadagno sarà maggiore di quello della Francia stessa"), con note di accentuato agricolturismo ("Il clima, l'aria, il sole, le campagne d'Italia non credo ci permetteranno mai di diventare eminentemente industriali come gl'inglesi ed i francesi. Contro le leggi di natura si lotta invano") sostanzialmente estranee al pensiero di Cavour (Cafagna), ma che ben esprimevano la preponderanza degli interessi agrari nel seno della nuova classe dirigente. Non a caso questo discorso, brillante ed incisivo, è divenuto una delle prese di posizione liberiste più citate dalla storiografia economica italiana.
Il discorso del 1863 illustra bene lo spirito con cui il D. faceva il suo ingresso sulla scena politica: l'ambizione di rappresentare interessi nazionali, e la scelta coerente della Destra come suo naturale riferimento. Egli infatti, pur conoscendo a fondo la realtà meridionale, non si faceva portatore di progetti alternativi o specificatamente adattati ad essa. Neppure le critiche che precocemente mosse alla "piemontesizzazione" anupinistrativa possono essere sospette di atitonomismo, essendo presentate da un punto di vista nazionale e fortemente unificatore, tanto che, in polemica con l'Azeglio (Lettera al cavalier Massimo D'Azeglio, Napoli 1861), rivendicava lo spirito incondizionatamente - unitario delle province napoletane e riduceva il brigantaggio a mero fenomeno di banditismo sobillato dal Papato. Nel liberismo invece, accompagnato dalla necessaria liberazione della proprietà dagli ultimi vincoli di tipo feudale, poteva prospettarsi la soluzione dei vecchi problemi economici del Meridione. I nuovi sbocchi offerti ai prodotti agricoli avrebbero dovuto sollecitare il ritorno dei proprietari, animati da interessi agronomici, alla terra, in un quadro di rapporti sociali di tipo patriarcale. Il prodotto ideale di queste trasformazioni economiche e sociali era la figura del nuovo italiano, che il D. tratteggiava in un'opera di divulgazione economica (Manuale popolare di economia pubblica ad uso delle scuole del Regno d'Italia, I-II, Torino 1862), nutrita dei miti tipici della Destra e in parte autobiografica. Il nuovo italiano era il possidente colto, che aveva viaggiato all'estero, risiedeva nelle sue proprietà, controllava i fattori, curava le migliorie, promuoveva, in armonia coi clero locale, l'incivilimento dei contadini e, nel paese, riuniva le forze borghesi per creare la Cassa di risparmio, la Banca commerciale; a coronamento della sua opera era l'elezione a sindaco e, infine, a deputato al Parlamento.
Il continuo riferirsi del D. ad un punto di vista nazionale, rifiutando in Parlamento l'interferenza degli interessi regionalistici, il suo deciso schierarsi a Destra lo isolarono nei confronti di gran' parte della deputazione meridionale, né egli sembrò stringere forti legami con gli esponenti del moderatismo settentrionale, mancandogli forse, al contrario dei meridionali in esilio, l'esperienza unificante del decennio cavouriano. Da qui forse - nelle sue opere - un certo tono moralistico, al di sopra delle parti, che si accentuerà con gli anni; gli interventi poco frequenti, ma molto incisivi ed efficaci, in Parlamento, su quei temi che giudicava di interesse vitale.
Dalla tradizione napoletana e dagli studi giuridici venne al D. un profondo interesse per i temi del dibattito istituzionale, intimamente legati alle questioni economiche, che attenuavano gli accenti talora astratti del suo liberismo. In un paese segnato da una profonda arretratezza umana e produttiva, il liberismo era insufficiente a garantire, da solo, la crescita .economica, ma era lo Stato a dover intervenire per eccitare le forze della nazione e coordinarle "per una scala d'infinite gradazioni ad un fine comune" (Della protezione ..., cit., p. 89). Infatti, parallelamente alla battaglia liberista, il D. insisteva, con scritti e discorsi, sulla necessità di una riforma del credito, con l'introduzione di forme di credito agrario e fondiario (Del credito fondiario in Italia, in Rivista contemporanea, XXXV [1863], pp. 167-87; Il credito agrario, ibid., XXXVI [1864], pp. 5-18) e la fondazione di una banca unica di emissione, propugnata dal Manna. Analogamente si batteva per la liberazione della proprietà fondiaria dai vincoli che ne impedivano il pieno possesso e la totale disponibilità, come nel caso dei canoni enfiteutici del Tavoliere, di cui chiedeva l'affrancamento obbligatorio (La legge dell'affrancamento del Tavoliere di Puglia e gl'interessi economici delle provincie meridionali del Regno d'Italia, ibid., XXXV [1863], pp. 3-42).
Nella sua opera più fortunata, Ilpassato, il presente e l'avvenire della pubblica amministrazione nel Regno d'Italia (Firenze 1865), il D. fu tra i primi uomini politici a gettare un grido di allarme sulle condizioni del nuovo Stato: caos e sprechi amministrativi, bilanci ai limiti della bancarotta, divisione delle parti politiche sui rimedi da adottare rischiavano di fermare la rinascita del paese e pervertirne lo spirito. Il D. coglieva l'occasione del trasferimento della capitale per proporre una riforma generale dell'ordinamento amministrativo del Regno, che risolvesse il problema dei bilancio e -snellisse l'azione dei governi.
Il suo "sistema" prevedeva una riorganizzazione e distribuzione di competenze fra i ministeri - con un particolare rafforzamento del ministero di Agricoltura, Industria e Commercio - ed una semplificazione dell'apparato burocratico periferico, a cui avrebbe dovuto corrispondere un potenziamento degli organi amministrativì locali, unito - come contrappeso - ad un maggior potere di tutela dei prefetti. Seguivano misure finanziarie, come la riforma del sistema tributario, la fondazione della banca unica di emissione, la riduzione delle spese militari e di rappresentanza.
La crisi italiana non si risolveva però, secondo il D., con la riforma delle sole strutture amministrative ai fini del pareggio, se prima non venivano smorzate le passioni politiche, che impedivano di governare, cioè amministrare, secondo linee razionali e coerenti. Ma a questo punto il D. non poteva fare altro che invocare la saggezza di un paese che non si facesse turbare dai demagoghi dei partiti estremi e si affidasse alla autorità di governanti "coraggiosi, fermi, non vaghi di effimera popolarità" (p. 240), all'attività di cinquantanove prefetti illuminati e alla competenza di una burocrazia efficente e fortemente motivata. Erano posizioni in cui si possono cogliere molti aspetti del cosiddetto giacobinismo della Destra - leggi chiare ed unificanti, esaltazione dell'esecutivo, azione di stimolo dello Stato nei confronti della società civile - legati a vagheggiamenti autoritari di sapore cesaristico.
Con la costituzione del secondo governo La Marmora, all'inizio del 1866, il D. tornò alla ribalta della scena politica: fu chiamato a far parte della Commissione dei quindici - sorta sull'onda delle discussioni sollevate dal piano finanziario Scialoja e incaricata di studiare i progetti per le economie e le riforme - e fu relatore per la parte riguardante l'amministrazione. Nelle sue conclusioni la commissione fece propri i concetti di snellimento e semplificazione degli organi amministrativi e di governo propugnati dal D., ma questi progetti restarono lettera morta, schiacciati fra le ristrettezze del momento e le contrastanti pressioni dei gruppi regionali.
Nel settembre di quell'anno lasciava il seggio al Parlamento, chiamato dallo Scialoja a dirigere l'appena costituito organo ispettivo delle società commerciali, presso il ministero delle Finanze, fornendo così esempio di quell'osmosi fra Parlamento e amministrazione, da lui auspicata come massima di buon governo. A novembre tale organismo veniva, trasferito al ministero di Agricoltura; l'anno successivo il D. veniva nominato segretario generale del ministero, cumulando la carica col precedente incarico.
Si rivelerà amministratore attivo, ma probabilmente scomodo: nelle sue relazioni al ministro (L'amministrazione dell'Agricoltura dell'industria e del commercio durante l'anno 1867, Firenze 1867, e L'amministrazione ... 1868, ibid. 1868) si parla di una laboriosa opera di riorganizzazione interna e di una puntigliosa e polemica difesa delle prerogative dei ministero di Agricoltura; promuoverà anche una statistica agraria attraverso l'opera dei Comizi. Ma è nell'incarico di censore centrale dell'organo ispettivo delle società anonime che il D. si trovò ad applicare quelle direttive di intervento statale nell'econornia di cui era stato appassionato sostenitore. I documenti dell'Archivio del ministero testimoniano dell'azione volta ad imporre i principî della democrazia societaria e ad uniformare alle disposizioni del nuovo codice di commercio le antiche società commerciali e quelle in formazione. Con pari energia, ed entrando in conflitto con non pochi interessi privati, si accinse al compito di frenare le prime ventate speculative di un capitalismo finanziario ancora gracile ma, in quanto legato spesso ad interessi stranieri ed inserito in un quadro normativo ancora inadeguato, egualmente audace e privo di scrupoli. Come scriveva il D. nella relazione del 1867 (Il sindacato governativo, le società commerciah e gli istituti di credito nel Regno d'Italia, I-II, Firenze 1867-69), "ilgoverno ... è potenza che impedisce il male: cognizione che indirizza le forze sociali ad utile scopo: Principio d'ordine che armonizza l'individuale col generale, il privato col pubblico interesse" (I., p. 34). Lo zelo dei D. nell'applicare questa massima provocherà non pochi fastidi: una delle prerogative del sindacato, che egli faceva puntualmente rispettare, era la facoltà di fare intervenire commissari governativi alle assemblee societarie. L'organo ispettivo poi si attirava le critiche per le lungaggini burocratiche che inevitabilmente avevano luogo quando si trattava li approvare statuti o atti costitutivi di società.
Con la caduta, nel maggio del 1869, dell'ultimo governo Menabrea, di cui era stato caldo sostenitore, l'organo ispettivo fu abolito, e il D. nel 1870 fu nominato consigliere alla Corte dei conti. Dopo l'abbandono della vita parlamentare, la sua produzione pubblicistica, non più legata ad ambizioni di intervento immediato nell'opera legislativa, assunse un carattere di riflessione teorica. Nel suo libro più originale, La politica, l'economia, e la morale dei moderni italiani: studi, (Firenze 1869), il tema ricorrente del conflitto tra "politica" e "amministrazione" trovava la più compiuta sistemazione, elevandosi da polemica moralistica a filo conduttore di un'analisi dello Stato e della società.
Il prevalere della politica, che impregnava del suo costume tutta la vita pubblica, produceva una tale crisi di autorità, di capacità decisionale, un tale pervertimento della "morale", da mettere in dubbio la legittimazione stessa dell'ordinamento liberale. Se l'origine immediata delle troppo accese passioni politiche era da attribuire alla degenerazione in conflitti personalistici dell'antica lotta tra i due partiti unitari, la vera causa dell'instabilità - avvertiva per la prima volta il D. - consisteva nella ristrettezza estrema della base sociale su cui si reggevano gli ordinamenti liberali. La grande possidenza se ne stava in disparte, la borghesia era poca e divisa all'interno, in parte dedita agli ozi: non esisteva un "popolo", come in Francia, disposto ad alleanze bonapartistiche, o un'aristocrazia terriera come in Inghilterra,. che potessero sostenere il regime costituzionale. La salvezza sarebbe stata ancora una volta l'azione di un governo energico e deciso, sorretta da un apparato burocratico - sempre più vicino al modello prussiano - concepito come strumento efficente e preciso, di esecuzione e base di sostegno alle istituzioni e al governo stesso. Alla morale della politica andava contrapposta la dignità dei lavoro - in particolare quello dei campi - che rende "civili" e attaccati alle istituzioni i contadini ed i piccoli proprietari, e distoglie i borghesi dall'ozio.
L'ammirazione del D. per la Germania si fece più esplicita dopo il 1870, nell'esaltazione della triade "studio, lavoro, risparmio", ma rimase commista ad un più generale senso di sgomento per i rivolgimenti europei innescati dalla guerra franco-prussiana, che avevano rotto un equilibrio, avvertiva il D., difficilmente ricreabile (La Germania moderna, Roma s.d.). Nuovi fenomeni economici sconvolgevano le vecchie teorie, come l'allargamento della circolazione fiduciaria al di là della sua copertura metallica. Di fronte al sorgere di una nuova guida decisa, come il Bismarck, stava il rimpianto per la caduta di Napoleone III. Sembra che il D. percepisse il chiudersi di un'epoca a cui si sentiva indissolubilmente legato; non a caso l'analisi dei fenomeni nuovi risulta inefficace e poco profonda, né riesce ad andare più in là di un avvertito senso di malessere.
Con gli anni Settanta si può considerare conclusa la sua parabola pubblica; non intervenne quasi più nel dibattito politico, anche quando si dibatteva di riforme e di economia, quasi a non voler aumentare con la sua voce il disordine ed il gioco delle parti. Nel 1875fu membro di nomina governativa nella commissione d'inchiesta sulle condizioni della Sicilia. All'interno della commissione, in cui svolse funzioni di segretario, fu uno dei più tenaci difensori dell'azione svolta dai governi unitari nei confronti dell'isola. Nel 1876 venne nominato senatore, ed in quella veste si batté ancora, nel 1878, contro la ratifica delle nuove tariffe doganali. L'anno successivo dette alle stampe la biografia dell'amico Scialoja (La vita, i tempi e le opere di A. Scialoja, Roma 1879), quasi un epitaffio per il periodo felice della Destra storica, nostalgica rievocazione di quella consorteria che "aveva in animo di rigenerare e pacificare il paese, e possedeva le qualità per farlo; ma [che] aveva bisogno di avere con sè il paese, e non l'ebbe" (p. 172).
Il D. morì a Roma, dopo una lunga malattia, il 22 ott. 1882.
Aveva sposato nel 1863 Sofia Capecchi, figlia di un professore di medicina dell'università di Siena. Dal loro matrimonio non nacquero figli. Nel 1886 Sofia Capecchi sposò, in seconde nozze, S. Spaventa.
Altri scritti: Studi sugli storici romani, Napoli 1852; Della vita e delle opere di P. Ulloa, Bari 1852; Dell'enfiteusi, Napoli 1854; Delle pruove in materia civile, ibid. 1857; Statistica del comune di Spinazzola, ibid. 1857; Della scienza statistica e del modo come ordinare le statistiche, ibid. 1857; Dell'educazione alle arti ed a' mestieri, Palermo 1858; Sul progressivo svolgimento degli studi storici nel Regno di Napoli..., in Archivio storico ital., n. s., t. IX (1859), 1ª pt., pp. 57-70; 2ª pt., pp. 92-108; t. X (1859), 1ª pt., pp. 117-34; 2ª pt., pp. 118-41; t. XI (1860), 1ª pt., pp. 53-72; t. XII (1860), 1ª pt., pp. 46-104; Il Primo unitario italiano, Napoli 1861; Del potere temporale del papa, ibid. 1861; L'alleanza franco-italiana e la politica di Napoleone III, ibid. 1862; Disarmonie economiche, Firenze 1865; Sullo stato dei materiale e sull'amministrazione della R. Marina. Seconda relazione, ibid. 1867; Le banche di emissione, Roma 1874. Le nuove società di economia politica in Italia, ibid. 1874; Della utilità ed opportunità di nuove storie. Studio, Firenze 1875; G. Manna, in L. Carpi, Il Risorg., II,Milano 1886, pp. 150-86.
Fonti e Bibl.: Per l'attività parlamentare. si vedano gli Atti della Camera e del Senato, ad annos; per l'opera dei D. censore centrale per gli anni 1867-69, i fascicoli del fondo Divisione Credito e Previdenza versato dal ministero di Agricoltura. Industria e Commercio all'Arch. centrale dello Stato, riguardanti atti delle società anonime soggetti a sanzione regia. Tre lettere del D. sono state pubbi. da E. Pedio, in La rivoluzione di Potenza in una lettera inedita di C. D., in Arch. stor. per la Calabria e la Lucania, IV (1934), pp. 247-52; due lettere al Ricasoli sono pubbl. in Lettere e documenti del barone B. Ricasoli, a cura di M. Tabarrini-A. Gotti, VII, Firenze 1892, p. 355; X, ibid. 1895, p. 101; alle biografie immediatamente postunitarie di A. Calani, in Il Parlamento del Regno d'Italia, Milano s.d., II, pp. 436-39, a di C. Arrighi, in I quattrocentocinquanta, V, Milano 1865, p. 319, si aggiungano le necrologie di G. Petroni, Comm. di C. D. letta all'Accadomia Pontaniana, Napoli 1883, e di G. Racioppi, C. D. (Necrologia), in Archivio stor. ital., s. 4, t. XI (1883), pp. 251-63. Episodi della vita, per il periodo preunitario, e della sua azione come direttore delle finanze nel governo napoletano, sono contenuti nel libro dei nipote R. De Cesare, La fine di un Regno, con prefaz. di R. Moscati, Roma 1975, I-II, ad Ind. (s. v. Cesare, Carlo de). Non aggiunge informazioni e contiene inesattezze T. Sarti, Il Parlamento subalpino e nazionale, Roma 1896, pp. 355 s. Alle precedenti opere si rifanno le brevi biografie di C. Villani, Scrittori ed artisti Pugliesi, Trani 1904, pp. 239 s., D. Giusto, Diz. bio-bibl. d. scrittori Pugliesi (dalla Rivoluzione francese alla Rivoluzione fascista), Bari s.d., p. 53, ed il più ampio ed equilibrato lavoro di F. Cavallo Zurlo, Un economista Pugliese, C. D., in Japigia, V (1934), pp. 117-26. Sul ruolo dei D. nello scongiurare la repressione della rivolta di Potenza v. E. Pedio, cit.; piatta ed acritica elencazione di fatti ed opere in G. Carano Donvito, Economisti di Puglia, Firenze 1956, pp. 370-81, e puramente informativo della posizione del D. sul problema dell'affrancamento del Tavoliere e R. Colapietra, La grande polemica ottocentesca intorno al Tavoliere di Puglia, in Rass. di pol. e storia, VII (1961), 75, pp. 21-32. Maggior fortuna ha avuto il D. nella più recente letteratura sulle vicende dell'economia e del dibattito istituzionale postunitario, ma si è trattato per lo più di un uso come fonte, come in A. Caracciolo, L'inchiesta agraria Jacini, Torino 1958, p. 42; Id., Stato e società civile. Problemi dell'unificaz. italiana, Torino 1968, pp. 51, 117; A. Berselli, La Destra storica dopo l'Unità, Bologna 1965, II, pp. 5 ss.; A. Capone, L'opposiz. meridionale nell'età della Destra, Roma 1970, pp. 60 s., 207; G. Luzzato, L'economia ital. dal 1861 al 1894, Torino 1974, p. 38; P. Calandra, Storia d. amministraz. pubblica in Italia, Bologna 1978, p. 70. Per le vicende dell'economia meridionale in periodo preunitario hanno fatto largo uso delle opere del D.: R. Villari, Problemi dell'econ. napol. alla vigilia dell'unificazione, con una scelta di testi, Napoli 1959, ad Ind.; J. Davis, Società e imprenditori nel Regno borbonico 1815-1860, Bari 1979, ad Ind. Altre volte discorsi, in partic. quello del 1863 sul trattato di commercio, sono serviti da citazione emblematica come, ultimi in ordine di tempo, in V. Castronovo, La storia economica, in Storia d'Italia, IV, 1, Torino 1975, p. 72, e R. Romeo, L'Italia unita e la prima guerra mondiale, Bari 1978, p. 88. Unici autori ad aver approfondito il pensiero economico del D. rimangono L. Cafagna, Industrialismo e politica econ. dopo l'Unità d'Italia..., in Annali d. Istituto G. Feltrinelli, V (1962), pp. 174 ss. che bene articola i presupposti teorici liberistici, e G. Are, Il problema dello sviluppo industr. nell'età della Destra, Pisa 1965, pp. 101 s. e ad Indicem. Sull'organo ispettivo delle società anonime e l'opera del D. cfr. G. Belli-A. Scialoia, Alle origini delle istituzioni capitalistiche in Italia: il sindacato governativo sulle società commerciali e gli istituti di credito (1866-1869), in Riv. trimestrale di diritto pubblico, 1972, n. 3, pp. 1514-31. Sul D. e l'ambiente filosofico napoletano qualche cenno in G. Oldrini, La cultura filosofica napol. d. Ottocento, Bari 1973, pp. 332 S. Un giudizio complessivo sul D. come esponente di interessi agrari e uomo politico, nel quadro del problema della rappresentanza ed integrazione politica delle classi borghesi meridionali nel nuovo Stato unitario, imposta E. Corvaglia, Mezzogiorno e Stato unitario, C. D., in Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Bari, XVIII (1975), pp. 283-334. Notizie su Sofia Capecchi, moglie del D., in E. Croce, S. Spaventa, Milano 1968, pp. 218, 287 S.