CONTI, Carlo
Nacque ad Arpino (prov. di Frosinone) il 14 ottobre del 1796; i genitori, Luigi e Maria Ruggieri, di buon casato e condizione agiata, avrebbero voluto che il figlio studiasse chimica e medicina e vi si addottorasse ed egli, per compiacenza, iniziò tali studi che ben presto tralasciò per assecondare la sua vocazione musicale. Nel novembre 1812 fu infatti ammesso nel R. Collegio di S. Sebastiano di Napoli (né pare improbabile che il padre lo avesse accontentato per sottrarlo agli obblighi di leva, da cui gli alunni del collegio erano esenti per legge), dove ebbe a maestri G. Furno per i primi rudimenti d'armonia, G. Tritto per il tirocinio del contrappunto (secondo i fondamenti di L. Leo) e successivamente F. Fenaroli sempre per il contrappunto (secondo i dettami di F. Durante). Per un triennio completò, inoltre, gli studi di composizione vocale sotto la guida di N. Zingarelli, al quale restò sempre legato da reverente affetto, e si perfezionò nella strumentazione con I. S. Mayr, durante un soggiorno di questo a Napoli; per consolidare infine la sua formazione di base si dedicò, su consiglio dello Zingarelli, allo studio dei grandi "classici" della musica, da Jommelli, Piccinni e Sacchini a Bach, Haydn e Mozart. Nel biennio 1819-21 il C. esercitò al collegio S. Sebastiano la funzione di "maestrino", avendo come allievi, fra l'altro, F. Florimo (il quale, ne La scuola musicale di Napoli, dedicò al C. un capitolo che resta tuttora la principale fonte di notizie su questo autore) e Bellini - peraltro egli pure discepolo del Furno, dei Tritto e dello Zingarelli - che parve, attorno al 1828-29, diventare suo emulo nell'arengo teatrale. Dapprima il C. si cimentò a comporre sinfonie e pezzi sacri - fin d'allora il suo più congeniale campo d'azione - quali messe, inni e un primo Dixit conorchestra che riscossero molte lodi; ma, com'è ovvio, egli mirò essenzialmente al teatro fornendo la sua prima prova melodrammatica con Le truppe in Franconia, opera semiseria rappresentata con buon esito verso la fine del 1819 al teatrino del collegio S. Sebastiano e già segnata chiaramente da una inconfondibile tinta rossiniana e dai più vistosi stilemi ch'essa comporta, dal "crescendo" al vano e colorito strumentale. Secondo il Florimo (III, p. 154), che fu testimone oculare dell'avvenimento, Rossini stesso assistette all'esordio del C., compiacendosene con l'autore che ne fu spronato a proseguire l'intrapreso cammino dapprima a Napoli, dove al teatro Nuovo furono ben accolte La pace desiderata (opera semiseria, autunno 1820), Il trionfo della giustizia (libretto di G. Ceccherini, inverno 1823) e Misantropia e pentimento (4 febbr. 1823): opera semiseria, quest'ultima, di accurata fattura che fu replicata con grande successo per tutta la stagione teatrale di quell'anno e che consolidò il buon nome del C., oltre a procurargli nuoviingaggi in altri importanti teatri italiani. Meritano di essere ricordate le affermazioni al teatro Valle di Roma, nel carnevale 1827, delle opere semiserie La audacia fortunata (libretto di I. Ferretti), I finti sposi e soprattutto Bartolomeo, della Cavalla ovvero L'innocente in periglio (libretto di I. Ferretti, 10 sett. 1827), che acquistò una notevole popolarità e rimase inrepertorio per parecchi decenni. Fortuna arrise pure all'opera giocosa GliAragonesi in Napoli (libretto di A. L. Tottola), accolta con favore al teatro Nuovo di Napoli (29 dic. 1827) e ripetuta con successo in altri teatri italiani. Una conferma delle capacità melodrammatiche possedute dal C. sarebbe dovuta venire da Alexi (libretto di A. L. Tottola che, secondo il Florimo, III, p. 155, si sarebbe rifatto ad una tragedia del duca di Ventignano), prima opera del C. su soggetto tragico, commissionatagli dall'impresa del teatro S. Carlo di Napoli per celebrare il compleanno di Maria Isabella regina delle Due Sicilie (6 luglio 1828). Tuttavia, come si legge a pagina cinque del libretto (stampato a Napoli nel 1828 e conservato nella biblioteca dei Conservatorio di Bologna: ms. 1267), "la musica doveva essere intieramente scritta dal Sig. Carlo Conti, maestro di cappella napoletano, ma per cagione d'improvvisa malattia non è stato in tempo d'ultimarla, per cui ad istanza dell'impresa il sig. maestro N. Vaccaj si è compiaciuto portarla al suo termine, ed incomincia il suo lavoro nel secondo atto della scena terza fino alla fine del dramma". L'insuccesso che ne conseguì fu clamoroso e certamente il più grave in tutta la carriera del C., tanto che Alexi futolta dal cartellone dopo le prime quattro recite d'obbligo. Si considerino le reazioni ché il caso, singolare ma non insolito nel costume dell'epoca, suscitò in Bellini, che da Milano scrisse diverse lettere in proposito al Florimo in Napoli: "...frattanto mandami la Traggedia, che Tottola sta trasportando per Conti" (12 maggio 1828: cfr. Epistolario, p. 94); "Egli [il C.] va coll'opera ai 6 luglio, e se la Regina non lo proteggerà, chi sa come se la passerà dopo il Pirata..." (16 giugno 1828: ibid., p. 116); "Aspetto la nuova dell'esito dell'opera..., che credo dovrà andar bene per la protezione della Regina..." (21 giugno 1828: ibid., p. 118); "Sento l'affare di Conti, e veramente è serio, e mi meraviglio di Vaccaj, che ha accettato tale incarico che gli fà poco onore" (7 luglio 1828: ibid., p. 135); "Ho letto un articolo del Giornale di Napoli su il Pirata, ove dice che da alcuni si vuole che l'esecuzione è quella che fà così piacere la composizione... ma io voglio... domandare a questi perché l'Alexi di Conti con gli stessi esecutori non piacque, sino a far venire il sonno?" (2 ag. 1828: ibid., p. 140).
Nello stesso teatro S. Carlo il C. parve prendersi la rivincita con il dramma serio L'Olimpia (libretto di A. L. Tottola, 29 ott. 1829) nel quale tutti - e per primo il Florimo, che pur accenna ad una esecuzione avvenuta precedentemente, il 28 ott. 1826 (IV, p. 290) - concordano nell'additare la sua opera migliore per certa spontanea felicità inventiva, maestria nel contrappunto, efficace orchestrazione. La scrittura da parte di D. Barbaia, allora impresario sia dei teatri milanesi sia di quelli napoletani, valse al C. l'entratura al teatro alla Scala che suscitò, immediatamente - un'eco puntuale nel vigile Bellini che così scrisse in lettere inviate al Fiorimo da Milano sempre nel 1828: "Barbaja mi ha detto che pure nel Carnevale verrà Conti a scrivere un'opera seria, e sarà dopo di me [cioè dopo La Straniera]" (16 giugno: cfr. Epistolario, p. 116); "... e spero che colla sua [del C.] venuta in questa città non mi abbia d'apportare dei dispiaceri, sebbene io l'eviterò sempre sempre" (23 giugno: ibid., p. 120). Eco e conunenti che apparentemente contrastano con la fin affettuosa devozione che - secondo il Florimo - Bellini avrebbe nutrito per il C., presentandolo a tutti, in Milano, come "il caro maestro mio"; a sua volta il C. reputava il geniale collega "incapace pur di solo concepire la bassa invidia". Del resto tanto legati furono i due artisti che, alla morte del C., su IlTrovatore di Milano (9 luglio 1868) si lesse che a lui era da attribuire la stretta finale del primo atto de Ilpirata:attribuzione smentita ben presto (il 7 ag. 1868) dal Florimo, che con argomenti probanti in una lettera al redattore del giornale (cfr. Petino, p. 318) ristabilì la verità (Florimo, III, p. 170).
Per l'esordio milanese del C. fu scelto, a librettista, proprio F. Romani e, a soggetto dell'ispirato libretto, il cupo dramma in tre atti Giovanna Shore, appartenente al genere dell'"opera inglese" allora in voga, caro al Romani e illustrato genialmente da Rossini e Mayr prima, poi da Donizetti. L'opera ebbe però vita breve e travagliata. Malgrado i meriti dei cantanti (H. Lalande-Méric e G. B. Rubini) e il buon esito dei primi due atti, cadde il 31 ott. 1829 a causa della "situazione assolutamente sbagliata" (Florimo, III, p. 15 5) per cui, alla fine del terzo atto, l'eroina moriva di stenti, in aperta sfida al logoro abuso del lieto fine. Gli autori vollero ovviare alla "troppo spaventosa atrocità del soggetto" con una seconda versione - anche niusicalmente riformata - del terzo atto, ove Giovanna "ristorata e perdonata... risorge ai conjugali affetti ed alla pace di una tranquilla esistenza": versione, tuttavia, che sortì un puro successo di stima (7 nov. 1829) e che non riapparve mai più né a Milano né altrove.
Quanto ai giudizi, se, fra l'altro, Il Giornale del Regno delle Due Sicilie (12 dic. 1829, numero 286) ne scrisse in termini forse non imparzialmente positivi, l'Aligemeine musikalische Zeitung (3 febbr. 1830) rilevò esplicita il fiasco del 1° e 3° atto; il 2° salvato dai cantanti, aggiungendo che la nuova opera era in generale monotona, con le sue cabalette; i recitativi obbligati erano accompagnati per lo più con meri accordi dell'orchestra. Si lodò il canto e l'"armonia pura" del maestro. Se la sua opera aveva punti belli, essi contrastavano con la restante vacuità, e si era tentati di ritenerli proprietà altrui. Nell'ottobre 1829, invece di Rossini, che aveva declinato l'invito per motivi di salute, il C. musicò un componimento di A. Maffei per l'inaugurazione di un busto a V. Monti al teatro dei Filodrammatici di Milano: la cantata, auspice l'esecuzione di G. Pasta, acquisì popolarità.
Ma la carriera dell'operista - cui il Florimo attribuisce pure la farsa I Metastasiani, di cui s'ignorano dati e data di rappresentazione (restano solo una scena ed aria con coro nella Biblioteca del Conservatorio S. Pietro a Maiella di Napoli) e l'opera Sansone, eseguita al S. Carlo e citata dal Florimo in base a una lettera autografa del C. - era conclusa. Fra l'altro il C. rifiutò sensatamente l'invito del Romani (lettera da Milano, 24 maggio 1830) a musicare un suo libretto (da concordare) per la Scala nella successiva stagione di carnevale.
Pare poi che alle sue opere non arridesse più il pristino favore: così, L'innocente in Periglio non ebbe fortuna al teatro della Canobbiana di Milano (1831) e Gli Aragonesi in Napoli, con nuovi pezzi di G. Panizza e P. A. Coppola, cadde alla Scala (1838: Allgemeine mus. Zeitung, rispett. 9 marzo 1831 e 21 marzo 1838). Si comprende, allora, l'amara, autocritica confessione del C. airamico Santini, che la riporta nella sua Memoria del m° C. C.: "Io mi credeva un granché, in quell'anno di speranze e di vita [1827, L'innocente in periglio]. Scrissi di poi altre cose, ma ci vuol altro per essere un genio; io cessai di scrivere, non mi lasciando vincere alle più vantaggiose istigazioni" (cfr. A. Petino, p. 313). Per di più il vecchio padre, sempre poco propenso all'attività teatrale del C., lo richiamò ad Arpino perché s'occupasse del patrimonio familiare (1831). Seguirono le nozze con Luisa Villa (11 febbr. 1832), la nascita di tre figli (Luigi, Nicola e Filomena) e la prematura morte della giovane moglie (1837), che quasi gli sconvolse la mente e inferse il colpo di grazia alle estreme velleità dell'operista, benché Zingarelli, Florimo e altri lo ragguagliassero puntualinente sulle novità musicali, esortandolo quindi a non recedere.
Gradualmente, con l'intrapresa stesura di un metodo di contrappunto ("che introdusse ed adottò poi nel collegio quando vi divenne maestro...": Florimo, III, p. 157), maturò in C. la più congeniale vocazione alla didattica. Un avvio fu la nomina a socio ordinario dell'Accademia di belle arti di Napoli, sezione filarmonica (16 apr. 1840, in sostituzione dello Zingarelli morto nel 1837); finché, con l'avvento di S. Mercadante a direttore del collegio S. Sebastiano, la morte di F. Ruggi (1845) e le dimissioni di Donizetti dalla cattedra di contrappunto e composizione, Mercadante scelse il C. e non altri a titolare della cattedra e il re lo nominò con decreto del 20 febbr. 1846. S'attuò così l'auspicio dello Zingarelli, che già aveva intuito nel C. la tempra del docente, fedele alle tradizioni napoletane e dotato di chiarezza, di comunicativa e umanità: con lui la scuola riacquistò "il suo primo lustro" (Florimo, III, p. 402), annoverando allievi quali F. Marchetti, il prediletto P. Serrao, M. Ruta, G. Braga, E. Gammieri ed E. Viceconte.
Nel 1847 il C. si risposò con Clotilde Sangermano, dalla quale ebbe un ultimo figlio (Achille). Nel 1848, in occasione della concessione della costituzione da parte di Ferdinando II, il C. assunse l'impegno di comporre l'inno-cantata borbonico Il 29gennaio (su testo di L. Tarantini), che venne eseguito con successo appunto il 29 gennaio al S. Carlo e di cui soprattutto colpì gli astanti, per la sciolta brillantezza, una tarantella che divenne assai popolare. L'elezione a presidente della R. Accademia di belle arti di Napoli per il triennio 1851-53 e, nel settembre 1853, a segretario perpetuo della stessa, spinse il C. a proseguire l'attività di relatore su disparati argomenti storicomusicali iniziata felicemente il 7 giugno 1840 con la Memoria sulla musica ecclesiastica (una copia si trova nella biblioteca del Conservatorio di Bologna: cfr. Gaspari). Nel 1858, per motivi personali, il C. si dimise dall'insegnamento, e si ritirò in Arpino, pur senza troncare del tutto i rapporti con gli alunni del collegio né con la direzione, tanto che alle istanze del consiglio direttivo perché riassumesse la carica didattica subentrando a sua volta al suo successore, G. Lillo - nominato nel 1859 e dal 26 giugno 1862 esentato dall'insegnamento - e, insieme, coadiuvasse il direttore Mercadante, divenuto cieco, non poté né volle opporre, pur intimamente riluttante, un ennesimo rifiuto. Dal 26 genn. 1862 insegnò fin quasi alla morte, prodigandosi con mirabile zelo ma fiaccando la pur forte fibra al punto di dover alternare al servizio soggiorni sempre più lunghi e frequenti in Arpino. Ai primi del 1868 l'aggravarsi irrimediabile di disturbi gastro intestinali insorti nel 1864 costrinsero il C. a una penosa inattività ad Arpino, ove si spense il 10 luglio 1868.
Le solenni onoranze funebri tributategli nella chiesa di S. Pietro a Maiella, con imponente apparato musicale concordemente approntato da docenti ed alunni, attestano la stima di cui godeva. Tra l'altro, il C. era stato nominato membro corrispondente dell'Institut de France, alla morte di Halévy (1862), in concorrenza con Liszt; insignito dell'Ordine cavalleresco di Francesco I e, da Vittorio Emanuele II (1862), dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, fu designato infine a rapp esentare la scuola napoletana a Pesaro per l'inaugurazione del monumento a Rossini (luglio 1866). E fu Rossini tra i primi a lamentare la scomparsa del "non mai abbastanza compianto amico" in un'amara e forse presaga lettera al Florimo (Parigi, 24 sett. 1868: cfr. Florimo, III, p. 169), 50 giorni prima di morire. È ancora il Florimo (III, p. 162) a ritrarre il C., "alto della persona, dritto e di bella complessione", e a rilevarne "i principi e costumi veramente patriarcali" e "l'indole sì benigna..." (III, p. 403), decantandone, con una punta d'affettuosa oleografia, le doti morali. Quanto al musicista, la ricercata correttezza e la scolastica perfezione del suo stile si concretano nell'accurata eleganza dei recitativi, nell'esatta traduzione musicale della parola, nella giusta disposizione delle voci, nell'oculato svolgimento delle parti, nella sagace appropriatezza della strumentazione, nella grandiosità di certi effetti corali e soprattutto nell'alta padronanza del contrappunto severo, frutto indubbio di una cultura maturata sui classici, per cui Rossini proclamò il C. "il primo maestro di contrappunto di questo periodo di secolo che possa vantare l'Italia" (cfr. Florimo, III, p. 158 n. 2). Il che non può compensare, tuttavia, la mancanza di geniale spirito inventivo dei suo passivo "rossinismo", inteso, più che nel senso di attiva scelta di un linguaggio musicale, come adozione acquiescente e manieristica di procedimenti, moduli, formule e vezzi stereotipi. Rossiniano per pura imitazione il C. rimase sempre, relegandosi quindi nella legione dei minori epigoni coevi - da F. Moriacchi, M. Carafa, P. Raimondi a N. Vaccai, G. Persiani, P. Coppola - senza riuscire a emulare, nello svincolo dal modello, non tanto Donizetti o Meyerbeer quanto solo Mercadante, G. Pacini o C. Coccia.
Fin dalla gioventù "dagl'intelligenti reputato inappuntabile nelle musiche sacre" (cfr. Florimo, III, p. 163) per dottrina e tecnica avvivate talora da un soffio di sentimento sobrio e austero, il C. scrisse (in genere per soli, coro e orch.): sei messe solenni o di Gloria e due messe funebri; un Credo per più voci e grande orchestra (eseguito nella chiesa di S. Chiara a Napoli, in occasione della "monacazione" di una nobile damigella della famiglia dei duchi Riario Sforza); vari Te Deum, Magnificat, Salvo Regina, Tantum ergo, litanie a più voci con orch., Dixit Dominus e altri salmi per più voci, con o senza coro e accompagnamento di grande orchestra. Inoltre: sinfonie, concerti che chiaramente s'attengono allo stile strumentale dello Zingarelli; musica vocale da camera, canzoni, ecc., con accompagnamento di pianoforte; cori e altro.
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