CONTARINI, Carlo
Nacque, probabilmente a Venezia, nel 1474, primo figlio di Panfilo di Francesco detto "il grande", del ramo di S. Felice della famiglia, e di una figlia di Domenico Franceschi.
Il padre, dopo lunghi anni di attività politica, in tarda età nel 1517 si fece frate con il nome di fra' Paolo e sopravvisse ai figli, morendo molto vecchio nel 1535; ugualmente nel 1517 si fece monaca la madre, ritirandosi nel monastero di S. Sepolcro, dove viveva già una sua figlia. Il C. ebbe tre fratelli: Giovanni Paolo, morto in tenera età, Giovanni Franco e Troiano, che morì decapitato, ed una sorella, monaca nel convento di S. Sepolcro.
La prima notizia della vita pubblica dei C. risale al 1506, quando ricoprì l'ufficio di avvocato per le corti; in gioventù dovette aver compiuto studi di carattere giuridico se già nel i 507, quando fu eletto savio agli Ordini, veniva qualificato come avvocato grande.
La carica di savio agli Ordini veniva in genere ricoperta da giovani alle loro prime prove politiche, in modo che potessero farsi subito l'esperienza del Collegio; nell'aprile 1507, per evitare l'ingresso di patrizi troppo giovani in Collegio, Leone Grimani propose che i savi agli Ordini dovessero dimostrare di avere trent'anni; la "parte" fu approvata e il C. intervenne a fornire la prova richiesta.
Già in quei primi momenti della sua vita pubblica si dimostrò particolarmente vivace, intervenendo molto di frequente nei dibattiti del Collegio, accanto a colleghi più anziani e di maggior prestigio. Nel 1511 fu provveditore al Sal; nel 1512 nuovamente savio agli Ordini; nel 1513 provveditore alle Biave.
Contemporaneamente, in questi anni, si andò svolgendo la sua attività di avvocato: si registrano suoi interventi in parecchi dibattimenti in Quarantia criminal ed anche in dibattiti circa la legittimità e correttezza di alcune "parti" contestate da vari gruppi di patrizi, i quali si appellavano a leggi precedenti e consolidate.
Nell'aprile 1515 fu diretto antagonista di Marin Sanuto in un acceso dibattito sorto in Maggior Consiglio circa la possibilità del Consiglio stesso di concedere grazie anche contro le leggi; il C. sostenne la teoria che il signore può concedere grazie modificando le leggi e considerò il Maggior Consiglio come signore, cioè come organo che non riconosce nessun potere superiore a sé, per cui togliere al Consiglio la possibilità di graziare a suo piacimento, significava diminuirne la sovranità. A lui rispose, con un appassionato discorso di tono più etico-politico che giuridico il Sanuto e fu la sua opinione che alla fine prevalse.
Fino al 1523 proseguì, intensissima, la sua attività di avvocato: difese dei privati accusati di delitti comuni; intervenne nelle controversie tra cittadini e la Signoria, trovandosi talvolta a patrocinare il privato, talaltra gli interessi della Repubblica; molte volte lo troviamo ad opporsi alle accuse ed ai pareri degli avogadori di Comun; difese in Senato ed in Collegio patrizi accusati di abusi nell'esercizio delle loro cariche e nella gestione del denaro pubblico ed il più delle volte riuscì a farli assolvere, suscitando gli amari commenti del Sanuto; talvolta, trovandosi a difendere rei confessi, spesso confessi dopo alcuni tratti di corda, si appellava alla miscricordia dei giudici. Nel 1517 fu nominato, insieme ad altri, avvocato straordinario a seguito di forti lamentele per la lentezza delle cause; la Signoria ordinò che i dibattimenti proseguissero anche nei giorni di festa. Nel 1520 difese Girolamo Giustinian, che si era appropriato di un regalo che gli era stato affidato perché lo mandasse al sultano; nel maggio 1521 intervenne come esperto ad una discussione in Quarantia relativa alle contumacie di varie magistrature.
Nel 1522 fu figura di primo piano in un processo clamoroso in Maggior Consiglio: gli Avogadori di Comun sostennero che il doge Leonardo Loredan, morto l'anno prima, aveva tenuto presso di sé meno scudieri di quanti non fosse obbligato a tenere e che perciò aveva trattenuto per sé parte del denaro pubblico destinato a pagare il numero previsto di scudicri. Gli credi del doge furono così citati in Consiglio e fu loro intimato di pagare 800 ducati; il C. fu il principale difensore della famiglia Loredan. In una tempestosa seduta del Maggior Consiglio Antonio Condulmer, inquisitore sopra il doge defunto, propose che si votasse direttamente la "Darte" che stabiliva la condanna dei Loredan ma questi si opposero vivacemente, sostenendo che prima della votazione si doveva far parlare il Contarini. La votazione fu quindi rimandata ad una seduta successiva, che ebbe luogo il 30 genn. 1523 e fu animatissima e si giunse a "villanie", sotterfugi, occultamento di registri e simili cose; alla fine i Loredan, e con loro il C., furono battuti e condannati a pagare.
Nel novembre 1523 il C. fu eletto ambasciatore al viceré di Napoli, Carlo di Lannoy, di cui si attendeva l'arrivo nell'Italia settentrionale. Subito dopo venne nominato oratore all'arciduca d'Austria Ferdinando d'Asburgo, dal quale si sarebbe recato ai termine della sua missione presso il Lannoy. Il 28 novembre il C. partì, recando con sé dieci cavalli, il segretario con due famigli, due staffieri e con una dotazione di centoventi ducati al mese. Subito iniziò la serie intensissima delle lettere, ruotanti prevalentemente attomo ai problemi della lotta franco-imperiale in Italia.
Nel 1523 Venezia era schierata dalla parte ispano-imperiale e quindi gli incontri che il C. ebbe con gli esponenti più in vista di quello schieramento furono improntati alla massima cordialità; ciò non toglie che il comportamento della Repubblica, non disposta a far traboccare la potenza di Carlo V, desse origine a qualche rimostranza da parte degli alleati, rimostranze che il C. si trovò a dover comunicare alla Signoria con una certa frequenza.Il 4 dicembre il C. incontrò il viceré, incontro cordiale, appunto, ma un po' turbato dall'accusa di pigrizia nella conduzione della guerra in Lombardia rivolta a Venezia dal Lannoy. Il 1° genn. 1524 entrò in Milano accanto al viceré; ebbe colloqui con il duca di Milano ed affiancò la sua azione diplomatica ed organizzativa a quella del provveditore generale di Terraferma Leonardo Emo. Nei giorni successivi partecipò insieme all'Emo alle riunioni dei capi degli alleati per decidere il da farsi: erano presenti il viceré, il duca di Milano, il marchese di Pescara, Francesco Maria Della Rovere governatore generale dell'esercito veneto, Giano Fregoso e Antonio de Leyva. Nel febbraio 1524 il provveditore Emo si ammalò gravemente e così fino all'arrivo del successore, Pietro Pesaro, il C. seguì gli eserciti in campo con mansioni propriamente militari.
Nel giugno 1524 la Signoria gli dette l'autorizzazione a licenziarsi dal duca di Milano ed il C., poiché a Milano infuriava la peste, si trasferì nella sua proprietà di Casale nel Trevigiano ad attendere la commissione e l'ordine di partire per il suo nuovo incarico da parte della Signoria.
Il problema principale dei rapporti venetoaustriaci in quel momento era costituito da questioni confinarie: Venezia si era impegnata a pagare 25.000 ducati all'arciduca, ma prima pretendeva la pattuita restituzione di tutte le terre dell'Istria e del Friuli rimaste in mano asburgica in seguito alla crisi del 1509. In questo quadro si colloca la missione del C. in Austria, immediatamente preceduta da colloqui dell'oratore imperiale con la Signoria e dalla nomina a Venezia di tre deputati sopra i Confini.
Nel luglio il C., dopo aver ottenuto delle sovvenzioni straordinarie da parte dei Senato, parti per il Nord, con l'incarico di manifestare il buon animo della Repubblica verso l'arciduca ed il desiderio di buona vicinanza: l'arciduca restituisca ciò che deve secondo i patti ed i Veneziani eseguiranno fedelmentei loro capitoli; il C. si preparò con lunghi colloqui con Giacomo Florio, ritenuto espertissimo di cose confinarie.
Da Vienna e dalle altre città nelle quali seguì l'arciduca il C. spedì a Venezia una serie di lettere vivaci e colorite sia pubbliche, alla Signoria, sia private, ad Angelo Gabriel; oltre che sui problemi politici inerenti alla sua missione, ci fornisce rillievi di caratteri e di costume e concentra la sua attenzione particolarmente sul luteranesimo che si sta diffondendo, anche se per lo più "intrinsecamente", perché la gente non osa manifestare le sue inclinazioni. Insieme a lui era a Vienna il fratello Giovan Francesco, il quale scrisse a Nicolò Boldù che era difficile procurarsi le opere di Lutero richieste da Marin Sanuto. I grandi temi attorno ai quali ruota la corrispondenza politica del C. sono sostanzialmente quattro: i problemi confinari veneto-austriaci, i quali non fanno registrare sviluppi positivi, sicché il C. scrive che il suo star lì è infruttuoso e di poca reputazione per Venezia; in secondo luogo la situazione interna delle terre asburgiche, situazione che si va sempre più deteriorando; in terzo luogo le ribellioni dei contadini, i quali ora, a detta del C., hanno capi e artiglierie; infine il progressivo spostarsi di Venezia, dopo la battaglia di Pavia, nello schieramento anti-imperiale e le conseguenti vistose dimostrazioni di ostilità verso il C. da parte della corte austriaca. Il momento è difficile per il C., che vive isolato perché l'arciduca ha proibito a chiunque di incontrarlo. Quando Ferdinando glì proibisce di seguirlo in Boemia per la sua incoronazione, il C., malato piuttosto gravemente, supplica la Signoria di farlo rimpatriare. Nel marzo 1527, dopo quaranta mesi di assenza, torna a Venezia e molte barche gli vanno incontro fino a Marghera.
Subito nel marzo 1527 venne eletto savio di Terraferma; nell'aprile riferì in Senato delle sue missioni ma quando venne a parlare di Lutero il doge lo interruppe bruscamente. Nel giugno 1527 ebbe colloqui con Lodovico di Canossa oratore del re di Francia; il 27 luglio partì, per incarico del Collegio, per un lungo giro a Padova, Verona, Vicenza, Bergamo e Brescia con il compito di raccogliere quanti più denari possibile per pagare gli Svizzeri. Nel settembre era di nuovo a Venezia. Nel febbraio 1528, al termine di una tormentata elezione che fece registrare clamorosi rifiuti, fu eletto provveditore generale dal Mincio in qua, cioè delle zone che corrispondono in pratica all'attuale Veneto, con 140 ducati al mese.
L'attenzione del C. in questo suo compito fu prevalentemente rivolta a controllare i passi "dove poleno calar todeschi" e a predisporre un servizio di informatori riguardo a probabili concentrazioni di truppe in Trentino. Affiancò attivamente il Della Rovere nelle operazioni militari ed intervenne energicamente a Bergamo travagliata dai disordini ed il suo intervento, secondo una testimonianza bergamasca, fu "forte e a proposito". Nel giugno 1528cadde gravemente malato; il provveditore generale di Brescia, Marco Foscari, informò la Signoria sulle vicende del C. il quale, dopo alcuni giorni di apparente miglioramento, morì a Brescia nella notte tra il 21 ed il 22 giugno 1528.
Il Cappellari nelle sue genealogie di patrizi, veneti lo fa vivente nel 1530 e l'errore è stato ripreso recentemente dal Donazzolo; ma la data del 21-22 giugno è certissima: è dovuta alle lettere del Foscari riportate da Marin Sanuto ed è ripresa negli alberi genealogici del Barbaro.
Nel 1518 il C. si era sposato con Ludovica di Lorenzo Barbo, dalla quale ebbe tre figli: Bernardo, che visse a lungo percorrendo una prestigiosa carriera politica e diventando procuratore di S. Marco; Giovanni Vittore, che fu frate domenicano, priore a S. Pietro Martire di Murano e vescovo di Capodistria; ed una figlia, sposa in prime nozze di Silvestro Gabriel, in seconde nozze di Pietro Giustinian. La situazione economica della famiglia del C. non dovette essere floridissima: dopo la sua morte il nipote Imperiale chiese una provvigione al Senato a nome della vedova, perché la famiglia si potesse mantenere. La vita di Ludovica Barbo ebbe un tragico epilogo: infatti il 4 luglio 1533 la Quarantia criminal condannò al bando con taglia di 1.500 lire h taglio della testa in caso di cattura, Giovan Battista Barbo fu Lorenzo per aver assassinato in barca sua sorella Ludovica, vedova del Contarini.
Fonti e Bibl.:Del C. abbiamo due relazioni: la prima è quella letta in Senato nell'aprile 1527 ed è stata pubbl. in Fontes Rer. Austr., s. 2, XXX, Wien 1870, pp. 1-4, e ristampata in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di L. Firpo, II, Germania, Torino 1970; della stessa relazione abbiamo un sommario un po'diverso in M. Sanuto, Diarii, XLIV, Venezia 1895, coll. 383 s. La seconda è più che altro un sommario del viaggio scritto da un personaggio del seguito e si trova in Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. Ital., cl. VII, 761 (= 7959), cc. 68-91; da questa deriva l'estratto che si trova in M. Sanuto, Diarii, XXXVI, Venezia 1893, coll. 573-81 (pubbl. poiin S. Romanin, Storia documentata di Venezia, V, Venezia 1856, pp. 520-29); Arch. di Stato di Venezia, Senato, Secreta, reg. 50, cc. 31r, 52r, 70, 82r; reg. 51, cc. 58r, 82r; reg. 52, c. 8r; Ibid., Libro d'oro, Schedario nascite, sub voce Contarini, Bernardo; Ibid., M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, II, c. 493; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. Ital., cl. VII, 15 (= 8304): G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, II, c. 308rv; M. Sanuto, Diarii, Venezia 1879-1903, VII-VIII, XIII, XV-XVI, XVIII-XLIV, LVIII, ad Indices;P. Paruta, Historia vinetiana, I, Venezia 1718, pp. 362, 366, 368; A. Morosini , Historia veneta, I, Venezia 1719, pp. 76, 86, 215; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, IV, Venezia 1834, ad Indicem;P. Donazzolo, Iviaggiatori veneti minori, Roma s. d., pp. 94 s.