CICALA, Carlo
Nacque a Genova intorno al 1530 in un'antica famiglia appartenente alla nobiltà "vecchia" di quella Repubblica, figlio di Nicolò, fratello del cardinale Giambattista, all'ombra del quale iniziò la carriera ecclesiastica. Laureato in utroque, professor iuris, nonché canonico genovese, aveva appena ventiquattro anni quando, il 30 marzo 1554, succedette, per la rinuncia dello zio, nella diocesi di Albenga in qualità di amministratore in attesa di compiere l'età canonica di 27 anni. Rimase vescovo di quella Chiesa fino al 26 nov. 1572, data in cui, a sua volta, vi rinunciò a favore del cugino Carlo Grimaldi, mantenendo per sé il titolo. Durante gli anni del pontificato di Paolo IV la sua carriera subì una battuta d'arresto, a causa, con ogni probabilità, della politica antispagnola ed antigenovese dei Carafa, che aveva costretto lo zio cardinale a lasciare Roma e a tornare a Genova, dove rimase fino alla morte del pontefice.
L'elezione di Pio IV, che ebbe il cardinal Cicala fra i suoi più influenti e più stretti collaboratori, aprì al C. nuove prospettive di carriera nell'amministrazione pontificia: nominato referendario del tribunale della Segnatura, fu, però, presto costretto nella sua qualità di vescovo a prendere parte ai lavori conciliari a Trento, dove giunse fra i primi prelati il 13 nov. 1561 e rimase fino alla chiusura del concilio nel dicembre del 1563.
La sua solida preparazione canonistica unita all'influente protezione dello zio rimasto a Roma gli consentì di svolgere un ruolo non irrilevante nelle assise tridentine. Schieratosi al fianco degli "zelanti", egli fu tenace assertore delle. prerogative del pontefice e della Curia - "grandissimo defensore de l'authorità di S. B.ne" lo definì il Delfino (Steinherz, p. 222) -, "ciò gli valse le raccomandazioni del Morone al Borromeo perché gli elargisse qualche favore per conservarne la dedizione agli interessi del pontefice" .
Il 27 genn. 1562 fu nominato, insieme a G. Soarez, D. Sarmento de Sotomayor, G. B. Castagna e P. Zambeccari, membro della commissione che doveva esaminare le giustificazioni addotte dai prelati assenti. Il 20 febbraio si espresse a favore della revisione dell'Indice di Paolo IV. Sulla spinosa questione della concessione del calice ai laici, il 1°settembre si dichiarò contrario a che gli articoli relativi fossero proposti onde evitare che per la gravità e la difficoltà del problema fosse prorogata la successiva sessione. Disposto, tuttavia, a fare alcune concessioni in materia agli Ungheresi ed ai Boemi, giudicò che la questione dovesse essere approfondita quanto alla Germania. Ritenne, peraltro, che la decisione ultima dovesse essere lasciata al pontefice. Il 22 dicembre, intervenendo nel dibattito sul decreto relativo alla residenza episcopale, non soltanto manifestò il'proprio dissenso verso la promulgazione di un secondo decreto, ritenendo sufficiente quello già approvato sotto Paolo III, ma mosse gravi obiezioni a quello proposto. Giudicò, infatti, non esauriente la enumerazione degli impedimenti alla residenza e lesive della dignità episcopale le pene proposte per i non residenti, sottolineando la necessità che fossero rimossi i maggiori ostacoli all'attuazione del dovere della residenza: soprattutto decime ed altri gravami imposti dalle autorità civili senza l'autorizzazione della sede apostolica. Ribadì, inoltre, la sua opposizione, già dichiarata in precedenza (20 aprile), a che nel decreto venisse dichiarato in forza di quale diritto dovesse essere prescritta la residenza. Nominato in quanto esperto canonista a fare parte della commissione istituita nel quadro delle discussioni sul sacramento dell'ordine per esaminare la formula presentata dal card. de Guise sul primato, espresse, come gli altri quattro canonisti ed il Lainez; fra i teologi, la sua disapprovazione.
Nel febbraio del 1563 il C. si recò ad Innsbruck, mandatovi dallo zio cardinale, per ottenere l'intervento dell'imperatore per la liberazione di Visconte Cicala, fratello del cardinale, il quale, servendo nella flotta spagnola, era stato fatto nel 1561 prigioniero dei Turchi e portato a Costantinopoli. Rientrato a Trento, ripartì poco dopo di nuovo per Innsbruck, dove giunse il 23 aprile, questa volta latore di istruzioni dei legati per il cardinal Morone, che stava trattando alla corte imperiale un accordo tra Ferdinando I e il pontefice sulle questioni conciliari più controverse.
Tornò a Trento probabilmente il 17 maggio con il cardinale Morone e da quel momento fino alla chiusura del concilio i suoi interventi furono frequenti nei dibattiti sugli abusi nel sacramento dell'ordine, sul mátrimonio, sui decreti di riforma. Si oppose alla soppressione dei capitoli cattedrali esenti ed alle disposizioni sulla riforma dei principi ritenendo che contenessero solo "verba speciosa nec per illud restituatur libertas ecclesiastica" (Conc. Tridentinum, IX, p. 1096).
Al termine del concilio il C. si affrettò a visitare la sua diocesi, preceduto da una lettera del 24 febbr. 1564 del cardinal Cicala al doge in cui gli chiedeva di prestare il suo aiuto e quello del braccio secolare al nipote perché la diocesi di Albenga potesse essere "soprattutto purgata da ogni. sospetto di heresia et ogni altra sorte di lepra, che in questi tempi segnalatamente per i nostri peccati, si vede il mondo tanto corrotto et infestato" (M. Rosi, p. 612). Quello stesso anno celebrò il sinodo diocesano, e il 3 apr. 1569 fondò il seminario vescovile, nominandovi un maestro di grammatica, uno di umane lettere ed uno di canto.
Nell'estate del 1564 Nicolò Ormaneto e Tullio Crispoldi, collaboratori del cardinal Borromeo a Milano, convinti che la Chiesa di Albenga fosse suffraganea di Milano, invitarono il vescovo ad intervenire al concilio provinciale milanese che si sarebbe tenuto l'anno dopo. Il C. replicò che la sua diocesi era suffraganea di Genova ma non riuscì a persuadere il Borromeo che chiese all'Ormaneto di effettuare un supplemento di indagini. La questione si trascinò per un anno senza peraltro giungere ad una definitiva chiarificazione: nell'agosto del 1565 il vicario del Borromeo si apprestava ad inviare le lettere dì convocazione anche ai "vescovi che son dubij come Savona et Albenga, per non torsi spontaneamente la sententia contra non gli invitando come gl'altri" (C. Marcora, p. 392).
Il 10 maggio 1565,, il C. era stato nominato da Pio IV governatore di Camerino con istruzioni di recarvisi immediatamente. Sotto Pio V non si registrano sue nomine ad uffici dell'amministrazione pontificia in Curia o fuori ed è probabile che ebbe ripercussioni sulla sua carriera la disgrazia in cui cadde il cardinale Cicala in seguito alle accuse mossegli dal pontefice di aver tramato per succedergli. Una licenza della Camera apostolica per la spedizione a Genova, esenti da dazi ed altre imposte, di oggetti moderni di marmo rilasciata il 3 giugno 1570 induce ad avanzare l'ipotesi che in seguito alla morte dello zio (8 apr. 1570) egli intendesse ritirarsi in patria.
Ma Gregorio XIII, che aveva avuto modo di apprezzarlo durante il concilio, lo destinò alla nunziatura di Savoia che venne, però, mutata il 15 giugno 1571, per ragioni che ci sono sconosciute, con quella di Toscana.
Giunto a Firenze il 29 di quello stesso mese, il 30 fu introdotto alla presenza dei granduca Cosimo I e del reggente Francesco che trovò ben disposti nei riguardi della Sede apostolica. Nel quadro della riforma dei compiti dei rappresentanti diplomatici attuata dal Boncompagni, egli dovette procedere fin dai primi giorni della sua missione all'imposizione ed al controllo del rispetto dei deliberati tridentini. Uno dei primi suoi atti fu, infatti, quello di obbligare alla residenza tutti i vescovi di diocesi toscane e non toscane che soggiornavano a Firenze e non vi incontrò grosse difficoltà. Il 9 agosto chiese a Roma la "soprintendentia et il ricorso delle appellationi et aggravii per le cose ecclesiastiche dello Stato" (Arch. Segr. Vat., Segr. di Stato, Firenze, 2, f. 394r) già posseduta dai suoi predecessori e si rammaricò non poco quando ricevette le "facoltà" le giudicò "strette et mediocri et di molta meno authorità, che non sono quelle concesse al Nuntio di Savoia", sicché gli parve di aver "discapitato assai" nel mutamento di nunziatura (ibid., f. 437r). In effetti, in ossequio alle direttive del tridentino, gli venne tolta la facoltà di concedere privilegi, esenzioni, immunità, gradi accademici, riducendo in tal modo in misura notevole le entrate della nunziatura.
I dispacci inviati dal nunzio al segretario di Stato Tolomeo Galli nei primi nove mesi della nunziatura si attardano nella descrizione della lenta agonia di Cosimo I e dell'assistenza prodigatagli da Camilla Martelli fino alla morte (21 aprile 1574). Sia in politica estera sia in politica interna l'azione del successore Francesco I fu così irrilevante che il C. ritenne di poter chiedere licenza a Roma per recarsi a visitare l'abbazia della beata Maria di Murola nella diocesi di Reggio che aveva ottenuto in commenda nel novembre del 1568 per rinuncia del card. Giambattista Cicala, osservando che a Firenze "non ci è quasi che far niente" (ibid., f. 226r). Ottenutala, si assentò dal 27 ag. al 15 sett. 1574.
Il 17 nov. 1574 il C. partì per Pisa per poter informare Roma dell'incontro tra Francesco.I e Giovanni d'Austria che doveva suggellare la totale dipendenza del granducato dalla Spagna.
Del contenuto degli abboccamenti nulla trapelò e il C. poté cogliere solo nel segni esteriori (come il pernottamento del granduca e del cardinal Ferdinando nella galera "Reale" di don Giovanni) le prove di intese politiche. Rientrato a Firenze il 7 dicembre, ripartì due mesi dopo per Roma per il giubileo, accompagnato da una lettera di Francesco I a Gregorio XIII che ribadiva la sua remissività ai voleri del pontefice, remissività che non venne mai meno in questi primi mesi del suo governo.
Il 26 marzo 1575 il C. riprendeva il suo posto, in coincidenza con l'acuirsi delle agitazioni che scossero la Repubblica di Genova e che avevano origine nella legge del garibetto con cui Andrea Doria nel 1547, dopo la congiura dei Fieschi, aveva ridotto la partecipazione al governo della nobiltà "nuova". Il C. sia per la sua provenienza da una delle più influenti famiglie "vecchie", sia per la vicinanzadella Repubblica alla Toscana, dove molti nobili "vecchi" avevano trovato rifugio dopo la rivolta dei nobili "nuovi", venne ad assumere un ruolo non irrilevante allorché la diplomazia pontificia decise di intervenire al fianco dell'Impero e della Spagna in funzione mediatrice, inviando come legato a Genova il cardinale Giovanni Morone.
Fu richiesto al C. di accompagnare il legato da Firenze, ove era giunto il 9 apr. 1575, fino al confine della Repubblica con il compito di convincere le famiglie della nobiltà "vecchia" rifugiatesi a Massa a rientrare in patria fidando nella mediazione del Morone. A quest'opera, che gli venne ripetutamente raccomandata da Roma, il C. si dedicò, senza molto successo, anche da Firenze e con i membri della propria famiglia che erano rimasti a Genova ma che, costatando gli scarsi risultati della missione del Morone, meditavano di raggiungere a Firenze i parenti che avevano trovato ospitalità presso il nunzio. Solo nel settembre 1575 le due parti si decisero ad affidare la composizione delle loro controversie al Morone, ai commissari imperiali e all'ambasciatore di Filippo II, i qualì, ridottisi a Casale Monferrato il 10 marzo 1576, raggiunsero un accordo per un'equa ripartizione delle cariche in Consiglio.
In quegli stessi mesi venne scoperta la congiura di Orazio Pucci su cui il C. riferì con dovizia di particolari a Roma. Di fronte alla repressione che si manifestò in tutta la sua ferocia nell'impiccagione del giovane il 22ag. 1575 nel medesimo luogo in cui era stato impiccato quindici anni prima il padre che aveva cospirato contro Cosimo I, il C. non espresse sentimenti di riprovazione; si mostrò tuttavia incline a cogliere l'inquietudine che serpeggiò nella vecchia aristocrazia, timorosa che in conseguenza di quella cospirazione ordita da molti suoi membri contro il principato mediceo si arrestasse il processo di inserimento di esponenti dell'antica nobiltà fiorentina nell'alta burocrazig dello Stato, accanto a uomini provenienti dai ceti forensi e mercantili che avevano monopolizzato sotto Cosimo I le cariche di maggior rilievo.
Fra il maggio e il giugno 1575 giunsero in Toscana i visitatori apostolici nominati da Gregorio XIII per controllare l'applicazione dei decreti tridentini nel granducato: Alfonso Binarini, vescovo di Camerino, per Firenze, Giovanni Battista Castelli, vescovo di Rimini, per Pisa e Francesco Bossi, vescovo di Perugia, per Siena. La perfetta intesa che aveva caratterizzato i rapporti fra Francesco I e papa Boncompagni durante il periodo della nunziatura dei C. fu messa seriamente a repentaglio dall'azione dei visitatori. Il. breve del pontefice - giudicato da Francesco I "minatorio" (ibid., 4, f.256r) - con cui si chiedeva che i visitatori potessero ispezionare i luoghi pii e gli ospedali, che erano soggetti all'immediata giurisdizione del principe, fu all'origine dei primi scontri. Attraverso il C. il sovrano fece sapere che non avrebbe tollerato "carichi ne sugettione nel suo stato, insoliti e non dovuti" (ibid., f. 265r, 26 ott. 1575). Stando ai dispacci fu il primo ed ultimo urto fra il C. e Francesco I. Richiamato a Roma poco dopo, il C. lasciò Firenze il 17 febbr. 1576, non senza aver prima preso parte ai festeggiamenti per il riconosciniento del titolo granducale ai Medici da parte dell'imperatore Massimiliano II.
Aveva retto la nunziatura per quasi tre anni in un periodo in, cui l'alleanza fra il granducato e la Sede apostolica, consolidatasi sotto Cosimo I, non aveva subito incrinature e rientrava a Roma quando le controversie per la recezione dei decreti tridentini cominciavano appena a profilarsi. È quindi difficile valutare le capacità diplomatiche del C. in una situazione politica tranquilla, per non dire inerte, in cui alla perfetta sintonia fra trono e altare corrispose il pressoché totale isolamento di Francesco I fra i principi italiani, derivato prevalentemente dalla questione delle precedenze, vera ossessione dei suoi primi anni di governo, di cui si coglie il riflesso nella corrispondenza del nunzio. Tuttavia, pur tenendo conto che nel quadro della riforma delle funzioni dei rappresentanti diplomatici promossa da Gregorio XIII le incombenze di carattere più propriamente religioso dovevano prevalere rispetto a quelle di politica internazionale; che, inoltre, la presenza a Roma del cardinale Ferdinando de' Medici e dei suoi segretari costituiva un canale diretto di comunicazione fra il granduca e il pontefice, e che, infine, il carattere sospettoso e diffidente di Francesco I si rifletteva anche nei rapporti con le rappresentanze estere ("le cose in questa Corte sì trattano tanto segretamente ch'è difficile a saperne mai l'intiero, et ogni minima diligentia darebbe sospetto, et gelosia" ibid., f. 207r, lamentava il nunzio), il tono piatto e scolorito della corrispondenza del nunzio denota la mediocre statura del diplomatico, incapace se non di acquistare la fiducia di un sovrano "difficile", per lo meno di imbastire una rete di contatti con personaggi influenti della corte medicea che gli avrebbero consentito di uscire dal proprio isolamento.
Siignorano la data e il luogo della morte.
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