CARAFA, Carlo
Nacque a Roma il 21 0 22 aprile del 1611 da Girolamo principe della Roccella e da Diana Vittori. Durante gli studi letterari compiuti nel seminario romano, ebbe modo di mettersi in luce con un'orazione pronunciata per la Pentecoste alla presenza di Urbano VIII, che volle fosse data alle stampe. Il 5 genn. 1629, dottore in entrambi i diritti, entrò nell'Ordine dei teatini. Dieci anni dopo fu nominato protonotario apostolico dell'Ordine dei parrecipanti e, in seguito, referendario di Segnatura. Dal giugno 1644 sostituì a Bologna, come prolegato, il vescovo di Rimini Angelo Censis, durante le legazioni del cardinale Antonio Barberini prima e del cardinale Lelio Falconieri poi. Il 13 luglio 1644 gli fu attribuito il vescovato di Aversa in seguito alla morte dello zio Carlo Carafa. In questa veste ebbe modo di favorire gli Spagnoli in occasione della rivolta di Masaniello, fungendo da intermediario fra don Giovanni d'Austria e il duca di Guisa. Perciò il vicere duca d'Arcos lo raccomandò vivamente alla corte, ricordando che per opera sua Aversa era stata piegata all'obbedienza; in seguito anche don Giovanni d'Austria scrisse in suo favore al re di Spagna e ai cardinali Montalto, Cueva e Albornoz. E così nel 1653 Innocenzo X lo nominò nunzio pontificio in Svizzera.
Il 24 apr. 1653 il C. giunse a Lucerna, il cui sistema politico attraversava un momento di crisi: dieci prefetture, nel tentativo di cancellare gli ingenti debiti contratti in passato con Lucerna, si erano ribellate rifiutandosi di sottostare alla sua "Superiorità". Il C. si preoccupò soprattutto dei danni, che gli sviluppi della contesa avrebbero potuto arrecare alla religione cattolica, considerando gli stretti contatti fra una parte dei ribelli e un predicatore di Berna "che va nutrendo la sollevazione per cavar qualche beneficio alla sua setta".
Il più attivo e autorevole dei ribelli era Giovanni Emmeneger, uomo rozzo ma di penetrante eloquenza, che il C. cercò subito di avvicinare senza alcun risultato, formandosi tuttavia un'idea più precisa del carattere di quella sollevazione, così da scrivere a Roma "che fra questi rustici vi [è] il formulario di Masaniello, perché secondo quello, parmi, che vadino regolando i loro interessi". Il carattere di sollevazione generale che la situazione andava assumendo spinse la "Superiorità" di Lucerna a chiedere aiuti al pontefice tramite il C.; ma questi si mostrò piuttosto evasivo, in considerazione del fatto che si sarebbe pur sempre trattato di una guerra fra due parti ancora ufficialmente cattoliche. Non tralasciò comunque di fare tutto ciò che nella sua posizione gli era possibile per scongiurare le conseguenze estreme, seguendo molto attentamente il corso degli avvenimenti.
Una Dieta appositamente convocata a Baden non aprì alcuna prospettiva di accordo, anzi parve che si stesse preparando un'alleanza fra i ribelli e la borghesia cittadina, anch'essa turbolenta per via di certi antichi privilegi da riconquistare. "Ridurranno tutto a governo popolare, come in sostanza desiderano e fuor di modo ambiscono": l'orrore che ispirava al C. questa prospettiva lo spinse finalmente ad esporsi in prima persona, convocando in chiesa il Magistrato di Lucerna e i cittadini, fra i quali diresse un acceso dibattito. L'esito fu dei più brillanti visto che, superando i profondi contrasti, riuscì infine a concludere fra di loro una pace. Fallirono invece i ripetuti tentativi di pacificazione con i ribelli che ormai, tenendo sotto assedio la città, avanzavano richieste sempre più inaccettabili. Ci si preparò dunque alla guerra aperta con rinforzi di truppe dai cantoni vicini, a capo delle quali fu nominato il colonnello Pellegrino Zuyer, appena in tempo per fronteggiare l'attacco nemico, duramente respinto sul fiume Reuss.
Durante i processi che seguirono contro i capi della rivolta, emersero le responsabilità di alcuni parroci contro i quali il Senato cittadino avrebbe senz'altro proceduto se il C. non avesse impedito che si contravvenisse alla disposizioni in materia di immunità ecclesiastica.
Parallelamente a queste vicende il C., fin dal suo arrivo, si dovette occupare di alcune gravi questioni relative alla convivenza fra cattolici e riformati. Di particolare difficoltà fu quella riguardante il principato episcopale di Coira, dove gli eretici avevano occupato il convento domenicano di S. Nicolò, offrendosi in seguito di acquistarlo. Il vescovo di Coira caldeggiò questa soluzione, protestando la sua totale indigenza. Il C., assolutamente contrario a tale cedimento, suggerì alla segreteria di Stato una soluzione più onorevole, che venne in effetti adottata.
Il Magistrato di Coira, infatti, era interessato a mantenere buoni rapporti con l'Impero, per cui una lagnanza ufficiale da parte dell'imperatore per l'afrronto fatto alla religione cattolica avrebbe senz'altro ottenuto la restituzione del convento. Il C. si mise perciò in contatto con il conte Casati che, su incarico del governatore di Milano e con la collaborazione del nunzio pontificio in Germania, ottenne dall'imperatore l'ordine per il colonnello Zuyer di costringere il Magistrato di Coira a restituire il convento. Il Magistrato tuttavia precedette ogni iniziativa imperiale mettendo al bando tutti i forestieri cattolici, costringendoli così prevedibilmente all'abiura. Il C. cercò di frenare il precipitare della situazione ottenendo la cancellazione del bando, chiarendo contemporaneamente, con una lunga lettera in cifra al segretario di Stato, i reali termini della situazione: il vescovo di Coira era responsabile del grave stato di degradazione della religione cattolica nei Grigioni. La sua sete di denaro lo aveva portato a legarsi agli eretici, i più potenti nella zona, e a contravvenire gravemente ad ogni norma di etica civile e religiosa. Il C. affermava di averlo più volte trovato sordo alle sue ammonizioni per cui riteneva fosse giunto il momento di recarsi personalmente a Coira. Vi giunse il 22 luglio 1654, dopo che la tanto sollecitata istanza imperiale era stata fermamente respinta dai riformati. Cercò vigorosamente di riparare ai gravi danni in campo spirituale con decreti, sospensioni a divinis, revoche di sentenze e nuove ammonizioni al vescovo. Nel campo temporale la situazione non era migliore, riassunta in un grosso ammanco nelle casse della mensa vescovile che gli eretici avevano incoraggiato nella speranza che la dote della mensa si dissolvesse completamente. Le soluzioni suggerite dal C. tennero conto sia del precario equilibrio fra cattolici e riformati nella zona, sia delle notevoli capacità di ritorsione del vescovo. Propose infatti di trovare unsi composizione pacifica per quanto riguardava il passato e, per il futuro, una graduale diminuzione dei poteri attribuiti al vescovo, cominciando con l'assegnargli una giusta congrua per potergli togliere contemporaneamente l'amministrazione dei beni. Per la questione del convento di S. Nicolò, invece, non poté far altro che mettere agli atti la sua formale protesta, avendo invano atteso nuove e più efficaci lettere imperiali.
Altrettanto spinoso fu il problema di Augia, tanto più che travalicò la reale portata dei fatti per sconfinare in un dissidio politico di difficile soluzione.
Una bolla pontificia aveva incorporato i beni del convento di Augia Divitis alla mensa vescovile di Costanza: da qui la ribellione dei monaci, guidati da Marco Griessir, priore e procuratore del convento di Reichenau, che da Innsbruck si teneva in continuo contatto con loro. Nell'agosto 1653 la situazione era improvvisamente precipitata in seguito all'intervento dell'arciduca Ferdinando Carlo presso il C. in difesa del Griessir. I rappresentanti dei cantoni subito intervennero progettando una Dieta attraverso la quale diffidare l'arciduca dal compiere mosse pregiudiziali alla loro libertà. Il C., prevedendo l'abnorme sviluppo della questione, riuscì a scongiurare la convocazione della Dieta, ma il pericolo di grossi disordini rimase.
Il 15 ott. 1654, il C. ricevette la notizia della sua nomina a nunzio pontificio a Venezia. Verso la fine di novembre lasciò quindi Lucerna al termine di una nunziatura di particolare rilievo soprattutto come punto di osservazione e di manovra della diplomazia pontificia verso le regioni dell'Europa centro-occidentale.
Furono infatti altamente apprezzate a Roma le sue precise e tempestive relazioni sulla situazione politica generale, sui rapporti dei cantoni con Francia e Spagna, sugli avvenimenti bellici in Alsazia e Lorena, sullo svolgimento delle numerose Diete.
Sono dell'aprile 1655 le prime relazioni del C. da Venezia. Il negoziato di gran lunga più importante e che caratterizza la sua nunziatura fu quello riguardante la Compagnia di Gesù. Fu subito incaricato, infatti, di accertare la possibilità di un ritorno a Venezia dei gesuiti, espulsi dalla città nel 1606.
Le difficoltà, come il C. constatò ben presto, venivano, oltre che dall'orgogliosa, tradizionale avversione veneziana verso la Compagnia, anche dagli aspetti giuridici della questione, essendo stata l'espulsione formalmente tanto complessa e intricata di divieti da renderne impossibile la revoca per via ordinaria.
Il C. vide quindi la preliminare necessità di cercare l'alleanza del maggior numero possibile di senatori, attendendo la congiuntura favorevole a presentare la cosa sotto la luce della ragion di Stato. La sua prima abilissima mossa fu quella di guadagnarsi la collaborazione del procuratore Giovanni Pesaro, "uno di quei senatori che qui sono di maggior stima e che più di ogni altro rigira la macchina di questa Repubblica". Contemporaneamente guidò le mosse della Curia romana, invitando Alessandro VII ad esprimere all'ambasciatore veneto N. Sagredo la sua paterna preoccupazione per la sorte di Venezia, afflitta dalla guerra coi Turchi e dai danni derivati alla gioventù dalla assenza dei gesuiti, senza tuttavia far trapelare la reale intenzione di ottenerne la riammissione.
Le manovre del C. ben si inserirono in un particolare stato di disagio finanziario della Repubblica, reso più drammatico dalla guerra di Candia. I tradizionali aiuti pontifici, dietro suggerimento del C., furono allora ridotti al minimo, giustificandone la restrizione con lo scarso impegno di Venezia nell'impedire i pericolosi preparativi militari del duca di Modena. Il C. tuttavia non mancava di sottolineare nelle sue relazioni l'enorme difficoltà della trattativa, essendo in netta minoranza i senatori segretamente favorevoli al ritorno dei gesuiti, mentre sarebbe stata necessaria l'unanimità del Collegio dei savi per poterne discutere in Pregadi, dove era prescritta una maggioranza del 516 dei voti. Fra il C. e Roma si svolse un'ampia corrispondenza a proposito di alcuni conventi di scarso interesse per la religione, che si progettava di sopprimere per allettare con la promessa dei loro beni la Repubblica in difficoltà. Il C. era particolarmente propenso alla soppressione dell'Ordine dei crociferi, con una decina di conventi e circa cinquanta religiosi talmente ignoranti e dissoluti che lo scioglierli sarebbe stata "opera santissima e degna di benedizione".
Mentre con grande fervore e nel più assoluto segreto si studiavano tutti gli aspetti diplomatici e tecnici per la buona riuscita dell'affare, nel luglio 1656 il nuovo ambasciatore veneziano a Roma, Girolamo Giustiniani, rivelò con una lettera agli ignari senatori l'intenzione di Alessandro VII di chiedere formalmente la riammissione dei gesuiti. La notizia sconvolse profondamente l'ambiente politico veneziano e le laboriose manovre del C. subirono una battuta d'arresto. Il tempo comunque giocò a favore del C.: dal Collegio dei savi uscì poco dopo il Soranzo, il più acceso antigesuita, mentre altri avversari si trovavano assenti per varie cause. I Turchi infine, minacciando la Dalmazia, crearono un clima di panico e di conseguente favore nei confronti di ogni potenziale alleato. Ai primi di novembre il Collegio dei savi prese quindi in esame la richiesta papale, ma la veemente oratoria di Andrea Valier riuscì a far aggiornare la seduta sospendendo ogni decisione. Convenne a quel punto attendere l'avvicendamento in Collegio fra il Valier e Giovanni Pesaro, mentre si guadagnava definitivamente il favore del Senato con la vendita dei beni dei padri di S. Spirito. Il 6 gennaio il C. poteva quindi scrivere a Roma di aver presentato "formaliter" il breve pontificio al Collegio dei savi, mettendo così in moto la complessa procedura con le migliori speranze di buona riuscita. L'adunanza decisiva del Senato si aprì la sera del 19 gennaio e si concluse dopo lunga discussione, con i 16 voti contro 72, a favore della riammissione dei gesuiti. Subito dopo, come promesso, partirono le galere pontificie verso la Dalmazia, seguite da cospicui aiuti finanziari derivati in gran parte dalla vendita dei beni dei crociferi.
Da questo momento la corrispondenza del C. con la segreteria di Stato registra le relazioni e le istruzioni relative ad affari di più ordinaria amministrazione. Il C. non cessò mai di interporre i suoi uffici presso gli ambienti politici veneziani perché le complesse vicende di Mantova, insidiata da Modena e dalla Francia, trovassero pacifica soluzione. Seguì poi con particolare interesse le trattative di pace che all'inizio del 1657 si svolsero fra Venezia e i Turchi, riferendo a Roma la travagliata seduta del Senato al termine della quale prevalse la linea propugnata dal Pesaro e da Francesco Querini per il rigetto delle dure condizioni offerte dai Turchi e il proseguimento della guerra. Era in pieno svolgimento, frattanto, la lunga Dieta di Francoforte per l'elezione del successore di Ferdinando III. Diffuse e particolarmente sollecite furono al proposito le relazioni inviate a Roma dal C. sulla base dei suoi personali colloqui con esponenti politici di passaggio a Venezia e della sua corrispondenza con gli altri nunzi in Europa.
Nell'agosto 1658 il C. ricevette ufficialmente la nomina a nunzio presso l'imperatore. Questa promozione era nell'animo di Alessandro VII già da tempo, ma la sua esecuzione era stata ritardata dalla morte di Ferdinando III e dal seguente interregno. In virtù delle precedenti prove, così brillantemente superate, il C. raggiunse così uno dei più prestigiosi vertici della carriera diplomatica pontificia. Da quell'alto punto di osservazione il C. poté inviare a Roma relazioni di grande interesse sulla situazione politica internazionale, in quegli anni avviata all'interno dell'Europa verso una travagliata e difficile pace, minacciata dall'esterno dalle temibili forze turche. A questo proposito ricevette precise istruzioni da Roma di sostenere presso l'imperatore gli ambasciatori del principe calvinista della Transilvania, Giorgio Ràkòczy, incaricati di chiedere l'aiuto dell'Impero contro i Turchi. L'azione del C. fu tuttavia informata alla massima prudenza, evitando di comparire allo scoperto e di assumere impegni precisi, soprattutto perché il Ràkòczy era sospettato di legami con la Svezia ai danni dell'imperatore. Intanto il C. faceva giungere a Roma precisi rapporti sui contatti che si stavano intrecciando fra Impero, Francia e Spagna per un congresso di pace; come più avanti comunicherà a Roma notizie ed indiscrezioni sulla pace dei Pirenei e su quella di Oliva.
La posizione del C. a corte non fu tuttavia delle più facili: dietro ad una cordiale correttezza di rapporti si agitavano numerosi contrasti, come le manifestazioni di cesaropapismo a proposito dei vescovati vacanti, che turbarono le buone relazioni fra le due potenze. Uno dei problemi più tormentati fu quello relativo al vescovato di Trento che l'imperatore, in contrasto con Roma, voleva destinare all'arciduca Sigismondo. Il C., incaricato di dissuadre l'imperatore, vide tutti i suoi sforzi fallire finché non si giunse, nel 1660, alla presa del possesso temporale di Trento da parte dell'arciduca. Questo gesto inasprì indubbiamente i termini della questione, tanto più che una Congregazione appositamente deputata cercò inutilmente una sanatoria imponendo a Sigismondo di prendere i voti e di risiedere a Trento. La controversia rimarrà in sospeso durante la nunziatura del C., servendo spesso come elemento di contrattazione da ambo le parti per la soluzione di altre simili trattative. Aperti contrasti sorsero anche per la nomina a cardinale dell'arcivescovo di Osnabrück, contrastata dal principe Trivulzio con l'offerta di denaro, cui sembrava volesse aderire anche l'imperatore, subito fermamente dissuaso dal C. che non gradiva "questo continuo suono di denaro all'orecchio portato per tanti versi". Il C. si oppose con decisione anche al duca di Baviera, che si accingeva a violare le immunità ecclesiastiche gravando sui beni della Chiesa per il mantenimento delle soldatesche.
Contrasti sorsero anche quando Vienna giunse ad essere direttamente minacciata dai Turchi. Roma avrebbe vivamente desiderato da parte dell'imperatore l'adozione di una linea di attacco aperto e definitivo. Le istruzioni al C. e agli altri nunzi in Europa indicarono perentoriamente la direzione di una grande alleanza fra le potenze, alla quale la S. Sede avrebbe prestato ogni aiuto possibile. Furono infatti imposte decime sui beni ecclesiastici italiani e fu girato a favore dell'Impero il legato di 600.000 lire che il Mazzarino aveva lasciato alla S. Sede, sotto condizione che si giungesse a guerra aperta. Gli incitamenti pontifici e i febbrili tentativi di formare una lega europea non evitarono tuttavia che l'imperatore giungesse alla pace di Vasvar, interrompendo solo provvisoriamente le minacce turche. Solo allora fu possibile permettere il rientro del C. in Italia, che avvenne nei primi mesi del 1665, a conclusione di una prestigiosa nunziatura nel corso della quale, il 14 genn. 1664, aveva ricevuto, nella cattedrale di Ratisbona, la berretta cardinalizia.
Gli fu allora assegnata la sede di Bologna, quale legato in sostituzione del cardinale Vidoni. Vi giunse nel giugno 1665 e subito riferì a Roma sulle violenze che turbavano la vita cittadina. Con grande decisione il C. ristabilì l'ordine, procedendo alla messa al bando degli elementi più pericolosi. Presero così la via dell'esilio alcuni nobili, come il marchese Lignani, uno dei Quaranta, Malvasia, e diversi religiosi, fra cui il benedettino Ugone Marescotti. Diede infin ordine di carcerare i vagabondi per poi tradurli soldati in Dalmazia, e si servì decisamente anche di una esecuzione capitale come monito per i facinorosi. Con questi provvedimenti, aggiunti ai numerosi decreti, già nei primi giorni di luglio il C. poteva riferire a Roma di tenere ormai sotto controllo la situazione.
Qualche contrasto il C. ebbe con l'arcivescovo cardinal Boncompagni, da lui spesso accusato di offendere la dignità della sua carica, trattandolo "come se fussi paroco, non legato di Bologna". Furono però in sostanza scaramucce di lieve entità riguardanti gli aspetti formali dei loro contatti salvo, in qualche occasione, pochi contrasti giurisdizionali del resto, come gli altri, prontamente risolti. Anche da Bologna continuò a intrattenere qualche relazione con l'ambiente politico tedesco che ancora si serviva del C. per le sue istanze a Roma. Proseguirono immutate anche le manifestazioni di stima da parte della Curia, concretizzate nel 1667 con l'assegnazione di una pensione di 600 scudi sopra la diocesi di Napoli.
Nel 1670 il C. si recò a Roma per partecipare al conclave seguito alla morte di Clemente IX. Da questo momento la documentazione su di lui è pressoché inesistente, se si eccettua, nel 1679, la sua risposta a Innocenzo XI a proposito del progetto di bolla contro il nepotismo, sulla quale espresse un parere sostanzialmente negativo, contribuendo così all'accantonamento del programma. Non pare quindi attendibile la notizia riferita dal Litta relativa ad un proseguimento triennale della sua attività di legato a Bologna sotto Clemente X. Si ritirò con tutta probabilità dalla politica attiva e, dal 1665, anche dall'incarico pastorale di Aversa.
Morì intorno al 20 ott. 1680, a Roma, dove ricevette sepoltura nella chiesa del Gesù.
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