CAPRARA MONTECUCCOLI, Carlo
Nacque a Bologna il 12 sett. 1755 dal conte Niccolò e dalla contessa Virginia Ippolita Salviati. Discendente di una nota famiglia bolognese, assurta al rango senatorio dal 1616 e illustrata nel sec. XVII dalle gesta dei generali imperiali Enea e Alberto, traeva il secondo cognome dall'avo Francesco Montecuccoli, della storica casata modenese, cui l'ultima erede dei Caprara aveva trasmesso titolo e beni al principio del Settecento. Le prime notizie che abbiamo del C. si riferiscono alla educazione militare da lui ricevuta presso uno zio paterno, ufficiale nell'esercito austriaco di stanza a Cremona; e a questo periodo risale verosimilmente la sua conoscenza con la nobildonna cremonese Bianca Soresina Vidoni, che sposò nel 1776 e da cui avrà un'unica figlia, Vittoria.
Tornato a Bologna, il C. occupò nel Senato cittadino il seggio familiare fin dal 1780 e rivestì le cariche e gli onori propri del suo rango: fu gonfaloniere nel 1782, nel 1789 e nel 1790, e a quest'ultima data risulta anche priore dell'arciconfraternita e ospedale di S. Maria della Morte. La sua adesione alle idee rivoluzionarie dovette maturare assai prima dell'invasione francese, se già nell'estate 1792 la sua servitù risultò implicata, non certo a sua insaputa nonostante le sconfessioni formali, nel cosiddetto "complotto dei malintenzionati".
Essa pare comunque da ricondurre, oltreché al clima di insofferenza per il dominio pontificio diffuso tra l'aristocrazia felsinea negli ultimi decenni - del Settecento, a smania di novità e a desiderio di primeggiare e mettersi in vista assai più che non a una vera comprensione delle ragioni storiche degli avvenimenti d'oltralpe. Così ci descrive il personaggio un sonetto in veneziano che circolava in quegli anni tra i suoi concittadini: "Un omo che se sdegna / Un superbo, sofistico, un poltron / Indebita, che in buzzare el s'impegna / L'è un che del teatro el fa el padron / Che co' quattrin degli altri ora el s'inzegna / De comparir fra tutti el più coggion" (Ungarelli, p. 23).Il dilagare delle armi francesi in Italia, nella primavera del 1796, segnò per il C. l'inizio di una frenetica attività politica. Già ai primi di maggio era incaricato dall'Assunteria di magistrati, insieme con l'altro senatore Giuseppe Malvasia e con il consultore pubblico Pistorini, di una missione a Modena e a Parma diretta a sondare le intenzioni del generale Bonaparte. Il 3 giugno si recò a Crevalcore (dove possedeva estese risaie) a incontrare l'avanguardia francese comandata da Augereau, che il giorno stesso fece il suo ingresso a Bologna. Dopo l'occupazione parve stabilmente affidato al C. il ruolo ufficioso di mediatore tra gli interessi del Senato e della città da un lato, e le imperiose volontà dei generali e'commissari francesi dall'altro. Era lui a trattare giornalmente con Augereau per le necessità dell'esercito, e fu lui a ottenere da Bonaparte, il 23 giugno, l'autorizzazione all'invio di una deputazione bolognese a Parigi. In luglio si dedicò all'organizzazione della milizia civica, e in agosto si presentò nuovamente a Bonaparte, in compagnia di Ferdinando Marescalchi, per chiedere una sospensione del decreto di espulsione degli ex gesuiti. Tra settembre e ottobre s'incontrò con il commissario Saliceti, prima a Firenze e poi a Ferrara, per sottoporgli il piano di costituzione bolognese che sarà votato il 4 dicembre in S. Petronio.
Nel primo congresso cispadano, tenuto a Modena tra il 16 e il 18 ott., ebbe una parte assai importante come rappresentante di Bologna e come autorevole portavoce delle volontà di Bonaparte. Inevitabile quindi la sua nomina a membro della Giunta di difesa generale, deliberata allora come organo di collegamento tra i governi provvisori di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio. La Giunta doveva occuparsi soprattutto di formare ed equipaggiare le coorti ausiliarie richieste dal generale in capo, ma fu ben presto spinta dalle circostanze ad assumere poteri più ampi, di controllo finanziario e di polizia. In dicembre essa si recò a Milano per conferire col Bonaparte (e il C. vi si trattenne più a lungo dei colleghi); indi presenziò al secondo congresso cispadano che si riunì a Reggio Emilia dal 27 dicembre al 9 gennaio, uscendone piuttosto rafforzata che indebolita nelle sue attribuzioni. A conferma del rapporto speciale che lo legava al C., del cui palazzo era stato e sarà più volte ospite durante i suoi soggiorni a Bologna, Bonaparte lo volle accanto a sé nella spedizione militare contro il papa che si concluse con la pace di Tolentino (19 febbr. 1797). Dal diario che il patrizio bolognese tenne in quella circostanza, e dalle lettere che giornalmente inviava ai colleghi della Giunta, traspaiono il suo orgoglio nel sentirsi al centro degli avvenimenti e la sua ansia di assecondare in ogni modo i desideri del generale vittorioso; ma invano vi si cercherebbero considerazioni politiche di più vasto respiro.
Di ritorno a Bologna il 22 febbraio, il C. vi rimase per il disbrigo degli affari della Giunta anche durante la conclusione del terzo congresso (Reggio Emilia, 21 genn. - 10 marzo 1797) da cui uscì approvata la costituzione della Repubblica Cispadana. In marzo si recò a Mantova per ispezionare la coorte ferrarese ivi dislocata e procurarne il trasferimento a Bergamo, insorta il 13 contro il governo veneto. Alla fine del mese rientrava a Bologna, ma il 20 aprile si rimetteva in viaggio per informare Bonaparte dei deludenti risultati delle elezioni al Corpo legislativo cispadano, influenzati dalla aristocrazia e dal clero. Dopo essersi spinto invano fino a Klagenfurt, raggiunse il quartier generale francese a Palmanova, ma qui Bonaparte si limitò a dargli appuntamento a Milano, dove il C. giunse soltanto il 6 maggio.
Erano i giorni in cui il generale vittorioso, regolata ormai la partita militare con l'Austria, volgeva l'animo alla riorganizzazionepolitica dei territori conquistati in Italia e decideva la creazione della Repubblica Cisalpina, inevitabile polo d'attrazione anche per le province a sud del Po.
Il C., coadiuvato da Antonio Aldini pure presente in quei giorni a Milano, si allineò prontamente alla prospettiva unitaria, mentre i deputati ufficiali del governo cispadano, Fava e Gavazzi, si adoperavano per evitare il declassamento di Bologna a provincia periferica del nuovo Stato. L'aggregazione degli ex ducati estensi alla Cisalpina, decisa da Bonaparte il 18 maggio, portò allo scioglimento del Direttorio, del Corpo legislativo e della Giunta di difesa generale cispadani, sostituiti da un Comitato centrale come organo provvisorio di governo per le Legazioni e le Romagne. Fu questo Comitato a conferire al C., il 2 giugno, veste ufficiale di rappresentante cispadano insieme al Gavazzi, rimasto ormai solo a Milano. Ai due non rimaneva che negoziare le migliori condizioni per l'annessione alla Cisalpina di quanto rimaneva della Repubblica Cispadana, annessione che verrà proclamata ufficialmente il 29 luglio.
Il C. non ebbe nel nuovo organismo statale quella posizione di primo piano cui forse aspirava. Fu nominato, il 10 agosto, commissario del potere esecutivo nel dipartimento del Reno, con il compito di vegliare all'esecuzione delle leggi e all'ordine pubblico, di controllare l'operato delle amministrazioni locali e di stimolare il patriottismo e lo spirito civico: incarico quanto mai difficile e delicato in una città come Bologna, gelosa delle proprie autonomie e travagliata da una grave crisi economica e sociale. Il C. vi si impegnò anima e corpo, ma il suo carattere impulsivo e autoritario non era il più adatto per smussare gli ostacoli e appianare i contrasti. Fin dai primi mesi del suo mandato si pose in urto con l'amministrazione centrale del dipartimento, da lui accusata di inerzia e di scarso zelo repubblicano, e ben presto cominciarono a piovere a Milano i reclami contro la stretta sorveglianza cui egli sottoponeva la posta, contro i suoi abusi di potere, contro gli arresti e le destituzioni arbitrarie di individui e di municipalità intere (come quella del cantone del Bisenzio, di recente aggregato).
Il Marescalchi, che non gli era amico, lo chiamava nelle sue lettere per dileggio "il nostro Robespierre", e G. Greppi, membro del Gran Consiglio cisalpino, si recava a Bologna nel giugno 1798 appositamente per raccogliere le prove delle sue malefatte. Le autorità locali, interpellate dal Direttorio, lo scagionarono dalle accuse più gravi, negando "che si possa incolpare di fatti, ma solo al più di parole, o di contegno un po' fiero talvolta nel primo istante, in cui lo domina il suo carattere vivo e risoluto, e uno zelo impaziente di resistenza"; e l'esame del suo voluminoso carteggio con gli organi di governo, l'amministrazione dipartimentale, le municipalità e altre autorità civili, militari ed ecclesiastiche non lascia dubbi sullo scrupolo, talora eccessivo, con cui egli adempiva ai suoi doveri, anche se raramente apre spiragli sulla sua personalità e sulle sue idee politiche. Di un conflitto interiore tra ideali democratici e preoccupazioni tipiche del grande proprietario terriero sembra essere testimonianza una lettera del 16 genn. 1798 al ministro di polizia Sopransi, in cui la proposta di estendere ai centri rurali la formazione dei Circoli costituzionali, "affinché i lumi si diramassero, ovunque, e si potesse togliere dall'animo de' villici quei principi pregiudicati che la superstizione "l'ignoranza nudrifican nel loro seno", è accompagnata da significative riserve: "Non ho però mancato di riflettere il pericolo che ancora vi potrebbe essere, se il popolo di campagna s'avvezzasse ad unirsi in società, ad occuparsi di questioni politiche senz'esser certo ch'egli conosca, o voglia contenersi nei limiti delle leggi prescritte, onde queste unioni non divengan fatali all'ordine".
La campagna orchestrata contro il C. finì comunque coll'indurre il Direttorio a richiamarlo, ai primi di agosto 1798, mascherando la destituzione con la nomina a ministro plenipotenziario presso la Repubblica Ligure. Recatosi a Milano e informato dei retroscena di tale decisione, egli respinse sdegnosamente l'offerta e non risulta che ricoprisse più cariche pubbliche negli ultimi mesi di vita della prima Cisalpina, tranne quella, poco più che onorifica, di alto giurato per il dipartimento del Reno. L'invasione austro-russa lo colse a Firenze, dove si trovava per occuparsi dell'eredità materna, e dove venne arrestato nel luglio 1799; tradotto a Bologna, fu dapprima posto in libertà vigilata, ma su ordini giunti da Vienna venne nuovamente messo agli arresti e deportato prima a Palmanova, poi a Pest, in Ungheria.
Tornò solo nel marzo 1801, dopo la conclusione della pace di Lunéville. Nel frattempo era stato nominato da Bonaparte membro della Consulta di Stato della seconda Repubblica Cisalpina, e come tale prese parte ai Comizi di Lione (gennaio 1802), dove fu del Comitato dei trenta e dove, secondo quanto riferisce il Melzi, diede voto contrario alla presidenza di Bonaparte. Fu tuttavia compreso nel Collegio elettorale dei possidenti e nella Consulta di Stato della Repubblica italiana, organo, quest'ultimo, di grande prestigio ma di assai scarsi poteri effettivi. Deluso nelle sue aspirazioni a un ruolo politico più attivo, il C. - che aveva ormai fissato la sua residenza a Milano - si abbandonò al gioco e alle folli prodigalità cui era sempre stato incline, e sperperò in pochi anni quanto restava del suo immenso patrimonio (valutato da un contemporaneo a 20 milioni di lire, senza tener conto dell'eredità materna e di quella dello zio cardinale) tanto da farsi pignorare addirittura i mobili di casa.
Napoleone, che ben conosceva la pochezza dell'uomo (a Lione avrebbe detto al Melzi, di lui e di Fenaroli: "il faut les placer dans la Consulte parce qu'ils ne savent ni lire, ni écrire") ma non dimenticava l'amico fedele dei suoi primi anni di gloria, lo volle ugualmente a Parigi con gli altri consultori in occasione della cerimonia dell'incoronazione (2dic. 1804), e alla successiva trasformazione della Repubblica Italiana in Regno d'Italia lo nominò gran scudiere, uno dei grandi ufficiali della, Corona, con mansioni di pura rappresentanza e con ricco appannaggio; nel 1806, infine, fece acquistare ad alto prezzo il sontuoso palazzo Caprara di Bologna, dove aveva soggiornato ancora l'anno prima durante il suo viaggio in Italia.
Insignito delle più alte onorificenze (gran croce dell'Ordine della Corona ferrea, grand'aquila della Legion. d'onore), nominato conte e senatore nel 1809, il C. continuò fino al crollo del Regno nella sua esistenza inutile e fastosa; negli ultimi anni fu suo segretario Luigi Pellico, fratello di Silvio, e la sua casa fu frequentata da Porro e Confalonieri. All'arrivo degli Austriaci cercò di propiziarsi i nuovi dominatori offrendo feste e pranzi magnifici; ma dopo aver perso il titolo e il soldo di gran scudiere (primi di giugno 1814) si accostò a quanti cospiravano per il ritorno di Napoleone o l'avvento di Murat, se è da credere a voci non sempre attendibili raccolte dalla polizia di Vienna.
Il C. morì a Milano il 29 maggio 1816.
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