CALCATERRA, Carlo
Nacque il 21 nov. 1884, da Carlo e da Carolina Giovanelli, a Premia (Novara) e, quasi per fedeltà alla sua terra, ne dedusse lo pseudonimo di Carlo da Premia, o la sigla "C.d.P.", con cui sovente firmò, massime sul Convivium, da lui fondato nel 1929, noterelle polemiche, soprattutto dirette a combattere il Croce e il crocianesimo (l'elenco delle più significative in Forti, p. 1987). Sui primi del Novecento, ultimati gli studi secondari in scuole piemontesi, s'iscrisse alla facoltà di lettere dell'università di Torino, dove, pur obbedendo all'osservanza del metodo storico, fa attratto daun solo maestro, il Graf. Questi corresse o protesse alcune prove "poetiche" del C. (Chieri dalle cento torri, Torino 1903) e gli apprese il problema del secentismo: che egli e i contemporanei (massime se poeti mediocri o falliti, dal Cesareo al Thovez, o letterati di parte "moderata" come il Luzio) denunziavano quale matrice della poesia del D'Annunzio.
Ma più generalmente denunziavano, compreso il giovane C., e con più verità, il superamento "superomistico" e anticattolico del naturalismo e del positivismo in cui era cresciuta, e di cui era ormai insofferente, la coeva "intellighenzia" italiana: superamento che agli stessi uomini del metodo storico parve stranamente possibile, o desiderabile, per le vie del razionalismo illuministico, del misticismo e dell'irrazionalismo, e non invece per quelle dell'idealismo, aperte dal Croce e dalla Critica (mentre il Croce medesimo, soprattutto col suo scavare filologico-erudito, riscopriva, come fatto di storia e di cultura e non a fini pratici di antidannunzianesimo, la positività del sec. XVII).
Vissuto nella temperie della gioventù piemontese in crisi e nell'amicizia del Gozzano e dei gozzaniani, non senza quei propositi più o meno "conversorii" che poi guideranno il C. nella sua opera di esegeta-editore di quella poesia (cfr. Con Guido Gozzano e altri poeti, Bologna 1944, pp. 3 ss.; e, in collaborazione con A. De Marchi, l'integrale edizione restauratrice delle Opere di G. Gozzano, Milano 1949), il diuturno tirocinio d'insegnante medio dalla Sardegna alla Liguria (almeno fino alla cesura della prima guerra mondiale, in cui fu soldato e prigioniero, e il cui ricordo illumina la dedica della Poesia frugoniana, Genova 1920, "ai commilitoni della brigata Aquila") servì al C. per un simultaneo ricupero e del momento "grafiano" (analisi della stessa opera poetica del Graf e dello Gnoli, presa di posizione per L'ultima rinascita, 1908, cioè un affrancamento dal decadentismo in un'interpretazione cattolica o giobertiano cattolicizzante della storia) e del momento del metodo storico (donde i primi studi su scrittori del Sei e Settecento e la preparazione dell'immenso volume erudito su C. I. Frugoni).
Il dopoguerra lo ricondusse, idealmente e praticamente, al Piemonte, con l'insegnamento a Torino, con l'ampia disamina programmatica degli Studi danteschi di Vincenzo Gioberti (nella collettanea secentenaria promossa dall'Accademia delle scienze, Torino 1922) e con la collaborazione al Giornale storico della letteratura italiana (di cui presto divenne, e restò fino alla morte, uno dei condirettori, trattandovi soprattutto di studi petrarcheschi, di Sei e Settecento e di protonovecentismo italiano), e all'amicizia col Cian nel comune nazionalfascismo. Professore dal 1927 di letteratura italiana nell'università cattolica di Milano (donde nel 1935 passò alla medesima cattedra nell'università di Bologna), fu da allora, anche quale promotore di operazioni culturali e di attività pubblicistico-editoriali, nonché quale antologista, critico ed esege ta del suo predecessore sulla cattedra milanese, Giulio Salvadori (cfr. Liriche e saggi, a cura di C. C., 3 voll., Milano 1933, e i saggi, che vi fanno corona, in Aevum, II [1928] e VII [1933]), uno dei massimi dirigenti del movimento accademico clerico-fascista, in armi contro laicismo, liberalismo e idealismo, in ispecie dopo la conclusione dei patti lateranensi. Già nel periodo torinese, mentre curava per i classici della Utet l'edizione commentata delle Polemiche di L. di Breme (1923), della Tebaide di Stazio volgarizzata dal Bentivoglio (1928) e delle Liriche di P. Rolli (1926), aveva, prima e dopo l'esemplare illustrazione dei Trionfi (Torino 1927), intrapreso un radicale rivoluzionamento della critica petrarchesca in senso antidesanctisiano e anticarducciano. Non senza consensi e dal Bertoni e dal Pasquali (cfr. Pagine stravaganti, Firenze 1968, I, pp. 375-376), rovesciò la tesi, cara al Burckhardt e al Renan, del Petrarca umanista e primo uomo moderno; rivendicò il carattere prevalentemente allegorico dell'innamoramento e dell'amore del poeta di Laura (donde il significato mistico del "dì sesto d'aprile", ecc.). Ma, nel trascendere per l'esegesi poetica il piano meramente culturalistico (e qui, del resto, fornì contributi validissimi, non tutti raccolti Nella selva del Petrarca, Bologna 1942), s'impigliò in difficoltà e in arzigogoli pressoché insormontabili (donde la severa lezione metodica impartitagli dal Croce, Conversazioni critiche, III, Bari 1932, pp. 215 ss., 226-29).
Questo, in realtà, fu poi sempre il maggior limite del C., l'incapacità di serbare distinte la storia della cultura e la storia, o l'intelligenza, della poesia. Tale difetto di dialettica vizia anche i più autorevoli e importanti volumi del C., Il Parnaso in rivolta (Milano 1940, rist. Bologna 1961) e il Barocco in Arcadia (Bologna 1950), che costituisce l'ossatura erudita e il fondamento monografico (insieme con altri numerosi saggi teorici e bibliografici sul barocco e l'età barocca in Italia) dell'antecedente volume prevalentemente espositivo, narrativamente unitario e scopertamente polemico, tanto in favore d'una concezione cattolico-aristotelico-controriformistica della poesia e dell'arte quanto a condanna del classicismo e dell'antibarocchismo crociani. Il barocco è, per il C., un'epoca storica e uno stato d'animo: il mondo (non, dunque, la sola Italia fra il Tasso e l'Alfieri) degli "scentrati", d'una società e di una cultura cui difettano ormai un equilibrio, una fede, una salda concezione della realtà (mal sostituita da pseudovalori, quali il sensualismo, "l'empiria sensoria", l'edonismo, l'illusionismo estetico e morale). Ma è chiaro che queste definizioni, se valgono per i non poeti nell'ambito della storia letteraria ed artistica (e il C., in effetti, ne esclude Bernini e Campanella, Palestrina e Bruno, Galileo e Monteverdi), non valgono né per l'Europa (sia l'Europa "protestante" di Shakespeare, di Rembrandt e di Spinoza, sia l'Europa "cattolica" di Velázquez e di Racine), né per la storia italiana in se stessa. Manca, perciò, il legame dialettico fra il dramma spirituale dei singoli letterati o poeti, e il vario divenire d'un'età, che tanto più riesce, obiettivamente, a progredire, quanto più si affranca dalla concezione cattolica e controriformistica.
Analogo difetto (nella comune genesi autoctonistica, nell'uguale ossequio a quelle che nell'Italia degli anni Trenta furono le direttive "ufficiali" della ricerca storica) vizia, oltre la squisita erudizione e le indubbie benemerenze scavistiche, la trilogia d'argomento piemontese: Ilnostro imminente Risorgimento; I Filopatridi; Le adunanze della "Patria società letteraria"(Torino 1935, 1941 e 1943 rispettivamente). Di concerto con l'interpretazione "sabaudistico-territoriale" del Risorgimento (e delle sue presunte origini settecentesche), quale vennero elaborando il Volpe, il Rota, il Cognasso, il De Vecchi di Val Cismon, il C. vuol ritrovare nell'attività culturalistica e riformistica dell' "intellighenzia" piemontese anteriore alla Rivoluzione (e quindi in antitesi col moto di Francia) la matrice, la stessa linea di sviluppo, del Risorgimento italiano e togliere pertanto a quest'ultimo ogni traccia europea e di iniziativa francese: quasi che il patriottismo regionalistico dei piemontesi del Settecento sia cosa diversa dal cosiddetto patriottismo antirisorgimentale dei retrivi e accademici del secolo XIX e, invece, si apparenti, anticipandolo e pressoché generandolo, al patriottismo nazionale italiano; quasi che lo sviluppo ultimo dello stesso moto riformatore subalpino potesse aver ex hypothesi altra conclusione che "il grande Piemonte", la monarchia amministrativa illuminata, e uno iato incolmabile non separi quest'ultima dalla monarchia statutaria e unificatrice di Cavour e di Vittorio Emanuele II. Come nei libri di storia letteraria del Sei e Settecento il C. non seppe, dunque, o non volle, mettere in luce il salto di qualità fra l'Italia non pur del barocco, ma dell'Arcadia e del bello ideale da un lato e l'Italia europea od europeizzante dell'Alfieri e del Baretti dall'altro, così nei suoi libri di storia culturale piemontese non volle, o non seppe, mettere in luce il salto di qualità fra i settecentisti dell'ancien régime e i risorgimentisti ottocenteschi dell'unità, sebbene dedicasse attentissime cure all'opera di L. di Breme e l'ultimo suo libro, a preparazione dell'incompiuto (e anzi non scritto) Ottocento (che avrebbe dovuto sostituire nella collezione Vallardi i due volumi di Guido Mazzoni), fosse l'edizione commentata de I manifesti romantici (Torino 1951).
La seconda guerra mondiale, il suo decorso e il suo monito operarono tuttavia un rivolgimento negli atteggiamenti e nell'attività del Calcaterra. Partecipò valorosamente in Val d'Ossola alla guerra partigiana di liberazione; e quindi intraprese una intensa attività di restaurazione dei valori e degli strumenti della cultura. Donde la molteplice rivendicazione del Risorgimento e delle sue forme di arte, di musica e di poesia (cfr. Poesia e canto, Bologna 1951, spec. pp. 291 ss., 343 ss.; Barocco in Arcadia, cit., pp. 509-510); e la ripresa d'iniziative dal C. promosse o presiedute o restaurate, come la Commissione per i testi di lingua, il Centro alfieriano di Asti (e al Croce, che pur declinò con una commossa letterina - cfr. Terze pagine sparse, Bari 1955, II, pp. 272 s. - il C. chiese di commemorare nel bicentenario il poeta), gli Studi petrarcheschi (dal 1948 in avanti), ecc.
Opera teorica e pratica di continuità culturale il C. soprattutto compì, nell'ambito della sua università di Bologna, con la monografia storico-parenetica Alma mater studiorum, Bologna 1948 (memorabile per più ragioni l'accenno e l'omaggio, p. 402, all'"Ateneo…, che ebbe tra i suoi più studiosi e solerti allievi Giacomo Matteotti"). Non è, peraltro, a negare che il breve arco della sua esistenza, nel secondo dopoguerra, se lo vide operoso non solo a raccogliere i suoi scritti, ma a slargare il campo delle proprie ricerche in ambito sei-settecentesco, non gli suggerì né campi nuovi di ricerca né un diverso metodo di lavoro. Neanche il superamento delle aporie che, successivamente risolte dalla schiera numerosa dei suoi discepoli (prevalentemente od unicamente bolognesi), restano dell'opera del C. il limite più visibile, ma anche il più caratteristico e più personale contrassegno: emblematico di tutto un filone critico-culturale fra i più tipici dell'"intellighenzia" clerico-nazionalista italiana nel ventennio fra le due guerre.
Morì a Santa Maria Maggiore (Novara) il 25 sett. 1952.
Bibl.: La bibl. degli scritti di C. C., a cura di M. Saccenti, in Dai dettatori al Novecento, Torino 1953, pp.26-573 cfr. F. Fattorello, C. C., in Riv. letteraria, I(1929), nn. 4-5, pp. 4-6; necrologi: U. Pirotti, in Stile, 1952, pp. 7 ss.; R. Spongano, in Giorn. stor. della lett. ital.CXXXIX (1952), pp. 387 s.; O. Macri, in L'Albero, n. 13-16, gennaio-dicembre 1952, pp. 130 ss. (poi in Realtà del simbolo, Firenze 1968, pp. 533 ss.); C. Jannaco, in La fiera letteraria, 5 ott. 1952, p. 1; U. Bosco, in Studi petrarcheschi, V (1952), pp. 4-13; L. Serra, in IlPonte, VIII(1952), pp. 1703 s.; M. Camillucci, in L'Osserv. rom., 4 dic. 1953; G. Marzot, in Dai dettatori al Novecento (Studi in ricordo di C. C.), Torino 1953, pp. 21-25 (rist. ne I Critici, III, pp.1980-1985); nonché F. Flora, C. C., in Convivium, 1954, pp. 3-12; F. Maggini, ibid., pp. 13-15 Cfr., inoltre, A. Borlenghi, La critica letter. dal De Sanctis a oggi, in Letter. ital. Le correnti, II, Milano 1956, p. 1036; E. Raimondi, introd. alla ristampa de IlParnaso in rivolta, Bologna 1961, pp. IX-XXXIII; C. A. Madrignani, L'"anima in Barocco", in Belfagor, XVI(1961), pp. 624-631; A. Chiari, Testimonianze di vita e di fede, Milano 1967, pp. 73 s.; F. Forti, C. C., in I critici, III, Milano 1969, pp. 1957-1976 (con bibl. delle opere e della critica, a pp. 1985 ss.; del quale saggio si veda anche la precedente redazione, intitolata Umanità di un Maestro, nel cit. art. commemorativo, pp. 5-20).