PERRONE, Carlo Baldassarre
PERRONE, Carlo Baldassarre. – Nacque il 5 gennaio 1718 a Torino dal conte Carlo Federico (1691-1720) e da Anna Margherita Provana (morta nel 1728). Discendeva per linea paterna da una famiglia che risulta documentata, in uno dei suoi rami, nel Canavese dalla metà del XV secolo e che aveva offerto alla diplomazia e all’esercito dei Savoia diversi suoi esponenti prima che Perrone arrivasse ai vertici delle cariche dello Stato.
Antonio Perrone aveva ottenuto la cittadinanza a Ivrea nel 1564, vedendo aumentare notevolmente il proprio patrimonio grazie agli appalti per la fornitura delle milizie, il cespite d’arricchimento che consentì al figlio Carlo di essere nobilitato dai Savoia e di essere aggregato alla casata dei conti di San Martino, secondo un percorso relativamente consueto fra i ceti dirigenti nel Piemonte del XVI-XVII secolo. Carlo Emanuele I confermò l’investitura di parte dei feudi di San Martino, Valfré, Pransalito e Torre con il titolo comitale (1604). A questa seguirono altre infeudazioni nel Canavese (1605) e in Val d’Aosta, in particolare a Quart con titolo baronale e a Saint-Vincent con titolo signorile (1612-13). Lo stesso Carlo, auditore camerale e inviato a Milano nel 1612, inaugurò la tradizione familiare di servizio nelle cariche dello Stato. Il figlio primogenito Antonio, commissario generale della cavalleria, entrò a corte come gentiluomo di camera di Carlo Emanuele I e scudiere del principe di Piemonte. Morto senza prole, Antonio passò il titolo al fratello cadetto Cesare, che abbandonò l’abito talare sposando una nobile savoiarda, Prospera di Bellegarde, da cui nacque Carlo Filippo, governatore d’Ivrea nel 1697 e inviato a Parigi dal 1713 al 1716. Dal matrimonio di quest’ultimo con Luisa Doria del Maro nacque Carlo Federico, che ebbe due figli: Carlo Baldassarre e Carlo Giacinto, capostipite della linea secondogenita. Nel Settecento i Perrone erano la famiglia più illustre a Ivrea, anche se la loro dimora principale era già stata stabilita a Torino.
Avviato alla carriera militare dalla frequenza dell’istituto di formazione più elitario e più cosmopolita presente a Torino, l’Accademia Reale (di cui frequentò il secondo ‘appartamento’ nel biennio 1732-33, quello che dava accesso, oltre che ai corsi interni al Collegio cavalleresco d’origine tardosecentesca, alle lezioni del vicino ateneo torinese), Perrone diventò cornetta (1734) e luogotenente (1736) nel reggimento Savoia cavalleria, partecipando alle varie campagne delle guerre di successione polacca e austriaca.
Nel 1738 sposò Claudia Lascaris di Castellar (morta nel 1753), da cui ebbe tre figli: Carlo Filippo, Anna Claudia e Carlo Filippo Giuseppe. Di essi, i maschi morirono da bambini, mentre Anna Claudia sposò (1760) il conte Giacinto Bonaventura Nomis di Pollone.
Promosso capitano nel reggimento Dragoni della regina (1743), si distinse nella battaglia della Madonna dell’Olmo, presso Cuneo (1744), pur terminata con la sconfitta dei piemontesi. Fu l’ultima battaglia a cui prese parte. Entrò quindi a corte come gentiluomo di camera (1745), ottenendo parallelamente un rango diplomatico con l’incarico d’inviato straordinario a Dresda (1745) e a Londra (1749). La carriera diplomatica e i contatti con i circuiti riformatori dell’ultima stagione dell’antico regime costituirono l’ambiente in cui trascorse l’età matura e la vecchiaia.
Il primo incarico a Dresda gli consentì d’informare la corte torinese su quanto accadeva in Prussia e in Russia, due monarchie in ascesa con cui lo Stato sabaudo non aveva ancora creato solide relazioni. Da Dresda Perrone inviò a Torino un’interessante relazione, attenta alla situazione finanziaria della Sassonia e allo iato fra vita di corte e malcontento dei sudditi (manoscritti in più copie a Torino, Biblioteca Reale, Miscellanea patria, Real Casa, Politica, vol. XXI, 21-23; Varia, 335, in appendice a una relazione sulla Sassonia e le corti del Nord del 1748; Archivio di Stato di Torino, Corte, Lettere ministri, Sassonia, m. 2, Perrone a Carlo Emanuele III, 30 novembre 1745). In quelle pagine il giovane diplomatico indagava le ragioni della vincente politica aggressiva condotta dalla vicina Prussia, che invase la Sassonia nel 1745 sbaragliandone l’esercito. Da Dresda, dopo gli accordi sassoni-prussiani del 1745, Perrone si recò in viaggio esplorativo a Lipsia e a Berlino, dove fu ricevuto da Federico II. Nel 1746, scrivendo da Dresda alla Segreteria degli Esteri torinese, riferiva dell’incontro con Francesco Algarotti che, intorno al 1749-50, avrebbe rivolto a Perrone uno dei Discorsi militari, l’ottavo, Sopra gli esercizi militari de’ prussiani in tempo di pace (in F. Algarotti, Opere, V, Venezia 1791, pp. 275-283), al fine di attirare l’attenzione del rappresentante sabaudo sull’alto livello di professionalità e di addestramento delle truppe fredericiane.
La missione in Sassonia fece maturare nel giovane inviato piemontese l’interesse per le relazioni commerciali. Perrone si fece allora promotore dell’avvio di scambi economici diretti con la Sassonia, che prevedessero l’esportazione delle sete piemontesi e l’importazione delle tele tedesche senza la mediazione di imprese che ne potessero rincarare sensibilmente il prezzo. Il progetto, tuttavia, naufragò davanti alle indecisioni del governo piemontese e alla difesa delle prerogative delle compagnie commerciali, rappresentate dal collegio dei mercanti di Lipsia.
Altro progetto lanciato da Perrone, nella primavera 1748, fu l’invio in Sassonia di alcuni esperti al fine di studiare il modo più razionale per sfruttare le miniere metallurgiche. Lasciata temporaneamente la corte sassone per ragioni di famiglia, rientrò a Torino, dove presentò un’esauriente relazione su questo tema (due copie in Biblioteca Reale di Torino: Varia 335; Miscellanea patria, Real Casa, Politica, vol. XXI), a cui si deve l’avvio di una serie di viaggi minerari che coinvolsero alcuni dei più promettenti ingegneri e artiglieri sabaudi: basti ricordare il conte Benedetto Spirito Nicolis di Robilant.
L’incarico a Dresda fu interrotto dal trasferimento di Perrone a Londra, sede lasciata allora dal cavalier Giuseppe Ossorio, inviato a Madrid come ambasciatore straordinario. Partito il 26 marzo, Perrone giunse a Londra il 14 aprile 1749, in compagnia del cognato Giuseppe Lascaris, che intendeva introdurre alle arti della diplomazia. La corte hannoveriana demandava in quegli anni il controllo della politica estera britannica al potente Thomas Pelham-Holles duca di Newcastle, coadiuvato, nella gestione delle finanze, dal fratello, Henry Pelham.
Attento lettore dei giornali inglesi, uditore non meno sollecito delle discussioni che si tenevano nel Parlamento inglese, Perrone si trovò a gestire a Londra le difficili trattative per la cessione alla Corona britannica del diritto di Villafranca, il tributo che i Savoia facevano pagare alle navi mercantili straniere che passavano lungo la costa nizzarda, un diritto che in realtà fruttava scarsi introiti e che era per lo più ignorato dalle stesse imbarcazioni inglesi. L’esito della trattativa portò il re Giorgio II a concedere il pagamento di un riscatto della quota alla corte torinese, ma per una somma decisamente inferiore a quella che i Savoia avevano inizialmente chiesto. Le priorità economiche spinsero Perrone allo studio d’iniziative di collaborazione commerciale fra Piemonte e Inghilterra destinate a non essere concretate a causa del conservatorismo mercantilista rivelato dal governo sabaudo; ne nacquero, tuttavia, dibattiti e riflessioni che Perrone restituì in una lunga memoria scritta durante la missione londinese, datata 30 agosto 1751, dal titolo Pensées diverses sur les moyens de rendre le commerce florissant en Piémont (due copie in Archivio di Stato di Torino, due a Torino, Accademia delle scienze, e una a Torino, Biblioteca Reale). In essa emerge, fra l’altro, con evidenza, quanto l’attività commerciale e feneratizia, unita allo sfruttamento delle miniere di rame nella Valpelline (che Perrone amministrò personalmente), avesse giovato al salto di status dei Perrone; l’autore, infatti, toccava vari argomenti con piena cognizione di causa.
Dotato di una formazione economica del tutto empirica, priva cioè di precise basi teoriche, Perrone apriva una stagione culturale che sarebbe stata caratterizzata in Piemonte dall’attività di personalità quali Ignazio Donaudi delle Mallere, Gianfrancesco Galeani Napione e i due fratelli Giambattista e Francesco Dalmazzo Vasco. Nelle sue riflessioni il clima dei principi mercantilistici non era scalfito, risultando ancora lontano dai nuovi stimoli del nascente liberismo. Gli argomenti più stringenti riguardavano la produzione e il commercio delle sete, della lana e della tela. La possibilità di un fruttuoso commercio delle sete all’estero era subordinata al mantenimento di buone relazioni diplomatiche, e restava indispensabile, a parere di Perrone, l’intervento dello Stato là dove, come in Piemonte, scarseggiavano i capitali e la volontà dei ceti dirigenti a investire in imprese commerciali. Pur sostenendo la politica protezionistica dei Savoia, Perrone disapprovava una regolamentazione troppo minuta, proponendo di lasciare maggior iniziativa ai fabbricanti in grado di controllare l’andamento delle richieste del mercato. Indispensabile per sviluppare le manifatture interne sarebbe stato, secondo lui, l’intervento sulle dogane, favorendo l’importazione di materie prime con agevolazioni per i gruppi artigiani e manifatturieri e viceversa cercando d’incrementare l’esportazione di prodotti finiti sul modello del sistema inglese dei draw-backs. Il progetto di Perrone che destò maggior interesse nel governo torinese fu quello sull’esportazione dei vini piemontesi in Inghilterra vincendo la concorrenza francese, spagnola e portoghese. L’iniziativa di Perrone si arenò non soltanto a causa delle difficoltà nel trasportare i vini senza che si deteriorassero prima dell’arrivo oltre la Manica, ma anche per l’impossibilità di riuscire ad allestire una marina mercantile sabauda svincolata dal monopolio dei trasporti di fatto esercitato dal governo britannico.
Da Londra Perrone non trascurò altre possibili strategie di riforma. Propose, per esempio, di introdurre nuove colture e commerci nell’isola sarda seguendo una politica popolazionista che avrebbe dovuto insediare in Sardegna alcune comunità di tedeschi. Tale idea era nata da un viaggio compiuto da Perrone in Hannover al seguito di Giorgio II, durante il quale l’inviato sabaudo aveva conosciuto la realtà sovrappopolata dell’Elettorato di Magonza. Aveva dunque proposto a Carlo Emanuele III di fare il possibile per intercettare i flussi di emigrazione da questa regione. La proposta, che si era spinta a prevedere un complesso piano di bonifica di alcuni terreni disabitati della Sardegna in modo tale da rendervi possibile l’innesto di nuovi abitanti, venne lasciata cadere per la mancanza di assicurazioni sufficientemente allettanti rivolte da Torino alle popolazioni tedesche.
Negli anni della pace seguita agli accordi di Aquisgrana (1748) Perrone mantenne i gradi militari da ufficiale di cavalleria entrando nelle guardie del corpo del sovrano sabaudo. Nominato cornetta nella seconda compagnia di tali guardie nel 1751, fu ancora impegnato nella sede londinese fino all’agosto 1755, alternando viaggi a Torino per ragioni familiari, fra cui la morte della moglie. Interrotta l’attività all’estero, proseguì nella carriera militare. Nel 1757 fu promosso luogotenente della terza compagnia delle guardie del corpo con il grado di colonnello di cavalleria. Nel 1771 era capitano della seconda compagnia con il grado di maggior generale e nel 1774 luogotenente generale. Alle soglie della fine del suo regno, Carlo Emanuele III lo creò cavaliere dell’ordine di San Maurizio e Lazzaro.
L’11 aprile 1763, mancati entrambi i figli maschi avuti dal primo matrimonio, si unì in seconde nozze a Torino con Teresa Luserna di Rorà (1737-1801), da cui gli nacque il figlio Carlo Giuseppe (1764-1836).
Durante il regno di Vittorio Amedeo III (1773-96) Perrone toccò l’apice del suo cursus honorum, segnato dalla carica di ministro e reggente ‘provvisionale’ della Segreteria di Stato per gli Affari esteri (1777), dalla nomina a primo segretario di Stato per gli Affari esteri (1779) e generale di cavalleria (1780).
La prima fase del regno di Vittorio Amedeo III, fra gli anni Settanta e Ottanta, coincise con un periodo di egemonia della Segreteria degli Esteri sugli altri ministeri. Sotto il dicastero di Perrone, inoltre, assai più che sotto il predecessore (Giuseppe Maria Carron d’Aigueblanche), fu attuata una ferma ricomposizione delle strategie di governo del grande ministro Gian Battista Bogino, che avevano segnato i decenni di ‘buon governo’ di Carlo Emanuele III. La coincidenza tra gli obiettivi perseguiti in politica estera e i progetti di potenziamento dell’esercito, rimasto peraltro inattivo fino allo scoppio della guerra contro la Francia rivoluzionaria (1792), non fu casuale. In sede diplomatica i tentativi di superare i vincoli dell’alleanza con l’Austria risentivano di tutte le ambiguità lasciate aperte dalla pace del 1748, che si era dimostrata tutt’altro che semplice da gestire. A garanzia di maggior autonomia e iniziativa da parte dello Stato sabaudo, Perrone auspicò, allora, un’intesa con il re di Prussia; ma i suoi progetti erano destinati a rimanere solo sulla carta.
Nel 1778 Perrone aveva consegnato al sovrano un memoriale (Memoria del conte Perrone, nella quale, stante la continuazione dell’alleanza stata conclusa nel 1756 tra la Francia e la Corte di Vienna, si tratta del sistema politico che nelle attuali circostanze converrebbe alla M.S. di adottare, e si propone un’alleanza tra la predetta M.S., il Re di Prussia e diversi altri principi d’Europa, che è stato citato ed esaminato a fondo da Bulferetti in Le relazioni diplomatiche…, 1941, pp. 38-43) invitandolo a seguire una politica capace di uscire dall’immobilismo che era stato prodotto, nello Stato sabaudo, dal cosiddetto «rovesciamento delle alleanze» (l’intesa fra Austria e Francia in opposizione alle monarchie del Nord che avevano alimentato e vinto la guerra dei Sette anni). Perrone auspicava l’intesa fra Vittorio Amedeo III e Federico II e operò, dopo la morte dell’imperatrice Maria Teresa (1780) e l’avvento al trono di Giuseppe II, per saggiare la possibilità addirittura di un asse fra Inghilterra, Prussia e Francia che potesse giovare alla riconquista del Milanese da parte del Piemonte (dopo la breve esperienza dell’occupazione piemontese di Milano consumata durante le campagne della guerra di successione polacca). L’intervento in tal senso da parte di Perrone, che agiva in quegli anni a contatto con John Stuart (1744-1814), barone di Cardiff, visconte di Mountstuart, quarto conte di Bute, allora rappresentante inglese nella capitale sabauda (1779-83), non incontrò l’assenso di Vittorio Amedeo III. L’ambasciatore inglese, d’altro canto, era stato inviato in Piemonte da Giorgio III per tentare di coinvolgere lo Stato sabaudo nella guerra d’Indipendenza americana, impresa che pure non riuscì. Nella corrispondenza che Mountstuart inviò a Londra si descriveva la rete d’intrighi presente alla corte torinese, che sicuramente indebolì non solo il ruolo del diplomatico britannico, ma anche quello di Perrone, che allora attraversò un periodo di salute assai instabile.
Pur tra diverse difficoltà, Perrone non interruppe il suo operato, entrando ancora nel merito di una serie di progetti di riforma economica in linea con la sua posizione di aristocratico e con le esperienze che aveva raccolto nei decenni precedenti. Nel 1778 si era interessato e aveva sottoposto al re un nuovo metodo per l’estrazione del sale che il conte Giuseppe Pietro Graneri aveva visto in uso a Portoferraio e che si sarebbe potuto adottare in Sardegna (Lettera del commendatore Graneri al conte Perrone… e la descrizione del primo corpo di dette saline, in Archivio di Stato di Torino, Corte, Sardegna, Economato, Cat. XI, Sale, saline, salinieri, m. 2, n. 54). Nel 1782 vagheggiava l’allargamento dei commerci piemontesi fino al continente americano (Lettere e memorie, in Archivio di Stato di Torino, Corte, Commercio, Cat. III, m. 3 d’add., n. 3). Nel 1786 espresse il suo parere favorevole al progetto avanzato dal banchiere Balzet (ibid., m. 4, n. 4: Biglietto del conte Perrone sul progetto Balzet) per la creazione di una cassa di credito verso le Regie Finanze allo scopo di concedere prestiti ai negozianti e di stimolare il commercio delle sete facendo fruttare un interesse a sottoscrittori privati.
Fedele alle tesi già espresse nei Pensées diverses, ovvero all’idea che fosse dovere dei nobili, per far cosa grata al proprio sovrano, partecipare a imprese economiche anche azzardate, partecipò come azionista a una società «della nuova manifattura delle tele» sorta in quegli anni sotto il patrocinio di Vittorio Amedeo III. Erano gli stessi anni in cui l’Accademia delle scienze di Torino diventava un’istituzione culturale sotto le insegne e la protezione del sovrano e sotto il motto veritas et utilitas, lasciandosi alle spalle l’attività svolta privatamente da un gruppo di tecnocrati, artiglieri e scienziati che Perrone aveva ben conosciuto e frequentato. Il sostegno di Perrone non si manifestò, del resto, verso i soli studi di natura strettamente economica. Negli anni Ottanta diede il suo appoggio alle ricerche che il chirurgo Michele Vincenzo Giacinto Malacarne stava già compiendo sulla diffusione del cretinismo in alcune vallate piemontesi e aostane. Mantenne un legame ideale con l‘ambiente dell’Accademia Reale, in cui era stato educato, grazie al rapporto con padre Pietro Cajoli, professore di geometria nell’istituto torinese, che gli dedicò una sua opera (Geogonia o sia trattato del globo terracqueo, Torino 1789).
Nel 1779 aveva ottenuto il titolo cavalleresco più prestigioso nel sistema degli onori dinastici controllato da casa Savoia: quello di cavaliere dell’Annunziata. Nel 1784 il sovrano gli affidò la commenda mauriziana di Sant’Andrea di Gonzole, che gli garantì una pensione annua di 16.000 lire.
A partire almeno dal 1781, quando la Guida per la città di Torino di Onorato Derossi lo annoverava come proprietario, risiedette con la famiglia nel palazzo che il marchese Gioachino Bonaventura Argentero di Bersezio aveva commissionato all’architetto Giovanni Battista Borra (1713-70), situato all’angolo di contrada S. Carlo con contrada della Provvidenza (corrispondente all’angolo fra le attuali vie Alfieri e XX Settembre).
Nel palazzo che la famiglia continuava a possedere a Ivrea, e che fu venduto dopo l’occupazione francese del Piemonte, Perrone si dilettò a studiare l’acclimatazione di piante esotiche, segno di un suo interesse per le scienze naturali testimoniato dalla dedica che il medico e chimico Vittorio Amedeo Gioanetti gli rivolse nell’Analyse des eaux minérales de Saint Vincent et de Courmayeur (Torino 1779).
Prima di risultare giubilato (1789) con una pensione annua vitalizia di 8000 lire di Piemonte, ricevette diversi ‘assegnamenti’ per servizi segreti, registrati dal 1781 al 1789 per cifre che le patenti dichiarano oscillanti fra le 2000 e le 20.000 lire.
Perrone morì a Torino il 27 febbraio 1802.
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