BLANCARDI, Carlo Antonio
Nacque a Torino il 12 ag. 1633. Suo padre, Giovanni Battista, conte di Briga e di Cigala e dal 1631 membro del Senato di Piemonte, lo avviò agli studi in legge, che il B. portò a termine nel 1651. Lasciati gli studi intrapresi in giurisprudenza feudale, entrò nel 1657 nei ranghi dell'amministrazione pubblica: grazie all'appoggio del primo segretario di Stato, marchese di San Tommaso, il 22 giugno fu chiamato a far parte del Senato di Piemonte e nominato giudice "per le ultime appellazioni" del contado di Asti.
In questo secondo incarico il B. si pose particolarmente in luce per il piglio e la risolutezza con cui venne sbrigando, durante le ultime vicissitudini sofferte dal ducato prima della conclusione della pace dei Pirenei, le ricorrenti e gravose controversie insorgenti dal passaggio e dall'acquartieramento in territorio sabaudo di truppe mercenarie e dallo sconfinamento di bande monferrine. Altrettanto energica, dopo la fine del conflitto, fu la sua opera di controllo dei traffici e delle esazioni fiscali nell'Astigiano e di delegato per l'approvvigionamento di derrate di prima necessità dagli scali di Nizza e Villafranca. Più che l'alacre diligenza dispiegata dal giovane funzionario, avevano tuttavia ben impressionato il governo ducale l'impegno puntiglioso e il rigore dimostrati dal B. nel perseguire ogni infrazione che potesse configurarsi quale deliberata resistenza al potere centrale.
A soli ventotto anni, nel 1661, veniva così accordata al B. la gran croce dell'Ordine mauriziano e due anni dopo (18 dic. 1663) giungeva la nomina ad auditore e sovrintendente generale di guerra. Anche nell'esercizio di questo nuovo ufficio la sua intraprendenza venne a misurarsi, ma assai più rudemente, in ragione di antagonisti ben più autorevoli e pervicaci, con le vecchie clientele e le radicate consuetudini di autonomia della nobiltà feudale. Il momento era tuttavia favorevole, a differenza di trenta anni prima, quando si era trovato ad operare il padre, per un attacco a fondo contro la potenza dell'elemento nobiliare accresciutasi in misura esorbitante durante il periodo della reggenza.
Al progressivo deterioramento dei prezzi agricoli e delle rendite fondiarie aveva corrisposto, sotto Carlo Emanuele II, un graduale mutamento di indirizzo politico inteso a rovesciare il precedente rapporto di forze in favore dell'instaurazione di un più saldo potere centrale e di un ordinamento più vicino al modello assolutistico. Il processo di restaurazione e consolidamento dell'autorità ducale e di assorbimento del particolarismo comunale e feudale non era comunque esente, oltre che da concrete difficoltà obiettive, da numerose contraddizioni: soltanto intorno alla prima metà del secolo era venuta formandosi una borghesia di toga e degli uffici in grado di appoggiare l'azione governativa, e non sempre - come denunciava il B. nell'ottobre 1664 a proposito di certe riluttanze cameraliste - con la dovuta energia e consapevolezza, a causa dell'integrazione nel frattempo avvenuta fra cariche pubbliche, concessioni e immunità di carattere feudale, e la collusione così stabilitasi fra le nuove consorterie dell'"aristocrazia burocratica" e le vecchie oligarchie nobiliari. A non contare i soprusi in materia di giurisdizione civile a danno dei "poveri abitanti oppressi", particolarmente grave - secondo il B. - era la sopravvivenza degli arbitri feudali, favorita dagli strascichi della guerra dinastica e dalla non ancor ricomposta unità politica, in un settore estremamente importante come quello dell'amministrazione militare. In questo senso egli non esitò, nel novembre 1664, a denunciare le mire eversive nei confronti della giurisdizione centrale sulla gente di guerra dello stesso principe di Carignano. Ma anche nel settore tributario notevoli erano le opposizioni all'instaurazione di un regime fiscale che consentisse una politica mercantilistica di più dinamico sviluppo produttivo dell'economia locale: l'opera di unificazione e coordinamento delle gabelle statali e di riduzione delle tradizionali immunità e dei diritti di regalia avrebbe dovuto procedere - secondo il B. - in maniera più spedita e con mano ferrea "quando pur si inimichi la maggior parte della Nobiltà del Piemonte". Rimosse ormai da tempo le vecchie autonomie statutarie delle borgate e delle comunità del contado, sempre più inammissibile sembrava al B. la conservazione dei cospicui privilegi di cui continuavano a godere i maggiori centri cittadini (in particolare invocava l'intervento ducale nei riguardi delle pretese della municipalità torinese). Ma con assai più inflessibile severità e rigore si sarebbe dovuto colpire in direzione dell'alta feudalità, non aliena dal ricorrere alle violenze e alle sopraffazioni nei confronti degli stessi agenti governativi. E, mentre denunciava come i conti di Envie e di Costigliole avessero minacciato "di far bastonar l'esattore" se fosse comparso sui loro feudi, osservava come l'esperienza maturata in quegli anni lo avesse convinto a dubitare fortemente della fedeltà di una "nobiltà del tutto ambiziosa e a mano alta".
La rigorosa dedizione alla politica di abbassamento della feudalità e di centralizzazione statale valse al B. la chiamata (18 ag. 1666) a una delle due supreme magistrature dello Stato, quale terzo presidente della Camera dei conti di Piemonte. Da quel momento, tuttavia, egli vide crescere intorno a sé l'animosità e l'astio di buona parte dell'aristocrazia feudale rappresentata a corte. Già nel marzo del 1666 aveva dovuto affrontare a Torino non poche "cabbale e intrighi" di fronte al suo fermo proposito di "far pagare i debitori" e di porre fine agli abusi in campo fiscale; nel maggio s'era aggiunto un aspro scontro con il governatore di Villanova. Ma è con l'assunzione del nuovo ufficio alla Camera dei conti, il quale gli conferiva piena autorità in materia finanziaria, e proprio in un momento di più deciso controllo ducale sulle transazioni e connivenze delle amministrazioni periferiche e comunali con i feudatari locali, che i suoi avversari s'infittirono. Nel giugno 1668 era la volta del conte di Champion, sei mesi dopo del podestà di Villanova; l'anno seguente la crescente opposizione lo costrinse infine (nonostante che il 15 dic. 1668 fosse intervenuta, a conferma dell'appoggio del sovrano, l'ulteriore nomina a presidente del contado di Asti e marchesato di Ceva) a ritirarsi per qualche tempo nei suoi possedimenti di Sospello, da cui tuttavia non mancava di inviare memorie a corte per segnalare i continui "conflitti di competenza sopra la giurisdizione della gente di guerra" e di premere perché le malversazioni fossero considerate alla stregua di "delitti di lesa maestà, che si puniscono sovra il tamburro". A Torino, comunque, la burocrazia di toga di estrazione borghese non aveva esitato a prendere posizione in favore del B.: il suo più illustre rappresentante, il presidente del Senato Bellezia, anzi, nel sett. 1670 ne caldeggiava la successione a capo del consesso senatoriale.
Il B. ritornò a Torino in tempo per partecipare - in appoggio al piano d'azione del presidente delle finanze Giambattista Truchi e contro il parere del marchese di Pianezza - ai preparativi della sfortunata spedizione piemontese del 1672 contro la Repubblica di Genova. Ed è nel breve volgere di questa amara vicenda che doveva consumarsi la sua parabola.
All'indomani della messa in accusa di Catalano Alfieri, comandante della fanteria sabauda nell'ag. 1673, egli aveva chiesto al duca che venisse riconosciuta la sua competenza nell'istruzione del processo penale. Gli storici piemontesi ottocenteschi, dal Manno al Cibrario, al Claretta, vollero vedere in questo intervento e nelle stringenti procedure successivamente instaurate per l'imbastimento del processo il desiderio di rivalsa di un "uomo nuovo", "senza fede e religione" e singolarmente favorito dal duca, nei confronti di un autentico "gentiluomo di antica schiatta", se non lo "spirito di passione e di interesse" di un ambiguo "mestatore e raggiratore" alla ricerca ad ogni costo di facile popolarità e di prebende (nel 1664 il B. aveva dovuto alienare la porzione di feudo di Cigala). La vicenda presenta invece aspetti assai più complessi, al di là comunque delle convenzionali angolazioni moralistiche di tanta parte della storiografia erudita ottocentesca, e assume anzi, per tanti versi, un significato esemplare per la comprensione del momento politico più in generale. Sul piano formale, la richiesta del B. per l'istruzione del processo a carico dell'Alfieri non aveva affatto carattere eccezionale, data la giurisdizione da lui detenuta sul marchesato di Ceva, e quella sempre conservata in materia militare come auditore generale di guerra. Essa poi veniva a parare la manovra messa subito in moto dal potente parentado dell'Alfieri, perché il caso fosse sottratto ai normali giudici togati e affidato invece a una giuria mista, dove la presenza di esponenti dell'alta ufficialità e dell'aristocrazia avrebbe potuto imprimere una ben diversa piega all'andamento dell'istruttoria. Certo il B. parve a molti, sul piano concreto, la persona meno adatta a dirigere con mente serena l'inquisitoria: un duro alterco a corte l'aveva contrapposto qualche tempo prima all'Alfieri. Ragion di Stato esigeva comunque che si giungesse nella maniera più spedita ed efficace a una definizione del procedimento. Se non va condiviso il severo giudizio del Cibrario, secondo il quale il B. "nel proprio ufficio ravvisava piucché un augusto ministero da compiere, un amor proprio da soddisfare", è certo piuttosto che egli anche in questa circostanza servì con tenace inflessibilità e senza ripensamenti le direttive impartite dal duca, non senza peraltro il proposito di conseguire infine - attraverso le risultanze della sua requisitoria - quella condanna esplicita più in generale delle mene e delle velleità di predominio aristocratiche che egli andava perseguendo da tempo. Che esistesse una precisa ambizione in tal senso è dimostrato dall'inconsueta messa in scena curata dal B. per il processo (più di duecento testimoni d'accusa furono chiamati a deporre, anche da fuori dello Stato), ma soprattutto dall'ostinazione con cui, essendo nel frattempo morto in carcere l'Alfieri, egli reclamava dal duca nel settembre del 1674 l'autorizzazione a concludere l'istruttoria e a pronunciare la sentenza. La morte dell'Alfieri aveva tuttavia sopito le originarie determinazioni ducali di giustizia esemplare; d'altra parte, dinnanzi al propagarsi delle prime voci di commiserazione e anche di sospetto per le circostanze in cui era avvenuta la fine dell'Alfieri, e all'emergere dei propositi di fiera reazione dell'aristocrazia di corte per l'umiliante offesa arrecata a uno dei suoi più cospicui esponenti, il fronte dell'amministrazione e della magistratura di toga aveva cominciato a ripiegare e a mostrare più di un segno della sua collusione con l'elemento nobiliare. Al B. rimaneva comunque l'appoggio del presidente delle finanze Truchi e di qualche altro cameralista, ed egli tentava nell'ultimo scorcio del 1674 di convincere il consiglio ducale dell'opportunità di riaprire il processo, "che era stoltezza levare al principe una condanna di 150 m. ducatoni che gli era dovuta". "I ministri che pensano diversamente - concludeva - non possono essere che ciechi e maliziosi"; offriva comunque, a processo concluso, "la resignazione delle cariche curando l'onore e non gli onori e dimettendo volentieri quelle pompose spoglie".
Risentimenti e rancori investivano ormai da ogni parte il B., ma la mobilitazione nei suoi confronti divenne infine generale quando egli rifiutò di sottoporre a voce, e non per iscritto al duca come egli si proponeva, le risultanze della sua istruttoria ad una assemblea appositamente delegata a sentirlo. E furono proprio la caparbia difesa delle proprie competenze e il senso geloso della propria dignità gerarchica a perderlo definitivamente. Accanto alla nobiltà di corte anche i membri più autorevoli del Senato (ormai fermamente intenzionati a liquidare la candidatura del B. alla presidenza del consesso, che minacciava di metterli in ombra) si inducevano a premere sul sovrano per la instaurazione di un processo penale.
Nel gennaio 1675 Carlo Emanuele si lasciò infine convincere suo malgrado all'incriminazione del B. per distorsione delle testimonianze a carico dell'Alfieri e delitto di lesa maestà. Cadde presto tuttavia, in fase istruttoria, l'accusa di prevaricazione a danno dell'Alfieri, ma altre imputazioni vennero subito fabbricate sul conto del B.; il fisco gli attribuì l'alterazione di un mandato a favore del suocero, il medico Riccio di Villanova; mentre, accanto alle accuse di peculato pubblico e corresponsabilità nella relazione di scritture infamanti il principe, gli venne contestata anche l'imputazione di adulterio con donna maritata. Tali reati non vennero mai provati nel corso delle cinquanta sessioni in cui si dilungò il processo: tuttavia la commissione chiamata a giudicarlo, diretta dal presidente del senato Giovanni Battista Novarina e dal primo presidente della Camera dei conti Guglielmo Leone, pronunciò verdetto di condanna capitale (3 marzo 1676).
Strumento della volontà assolutistica ducale, il B. finì così per esserne anche la vittima. In realtà, nel difficile gioco di manovre e contrappesi volto a rafforzare l'autorità della dinastia, anche questa sentenza poteva essere utile ad acquietare per qualche tempo (e proprio nel difficile momento dell'inizio della reggenza di Giovanna di Savoia Nemours) reazioni troppo vivaci dell'elemento nobiliare e cabale di corte. Dopo tre giorni e mezzo di agonia "per torture acerbissime sul di lui corpo", il B. venne decapitato il 7 marzo 1676 sulla piazza della cittadella.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Sezione I, Lettere Particolari B, mazzo 92, 1657 in 1674, 9 ag. 1655; 3 luglio 1657; 4 febbraio, 17 maggio e 8 sett. 1658; 4 nov. 1659; 10 ottobre e 4 nov. 1664; 29 ott. 1665; 10 febbraio, 9 marzo e 6 maggio 1666; 4 giugno e 10 dic. 1668; 29 ottobre, 11 novembre e 8 dic. 1674; Materie giuridiche, Camera dei Conti di Piemonte, mazzo I, fasc. 23; Ibid., Sezioni Riunite, Patenti Piemonte, reg. 65, f. 170r; 67, f. 162; 73, f. 141; Controllo finanze, reg. 1655, f. 186; 1657, ff. 101 e 105; 1664 in 1665, ff. 5 e 160; 1665 in 1666, ff. 99 e 186; 1666 in 1667, ff. 6 e 169; 1667 in 1668, f. 192; 1668 in 1669, f. 24; 1669 in 1670, f. 110; Torino, Bibl. Reale, Misc. 161 bis/230; G. Galli della Loggia, Cariche del Piemonte, II, Torino 1798, pp. 155 s.; F. Sclopis, Not. di P. Monod, in Doc. riguardanti al principe Tommaso di Savoia, Torino 1832, p. 107; L. Cibrario, Storia di Torino, II, Torino 1846, pp. 434 ss.; J. B. Toselli, Biographie niçoise ancienne et moderne, ilNice 1860, p. 120; A. Ferrero della Marmora, Le vicende di Carlo di Simiane,marchese di Livorno poi di Pianezza, Torino 1862, pp. 145 ss.; G. Claretta, Sulle avventure di L. Assarino e G. Brusoni alla corte di Savoia, Torino 1873, p. 99; Id., Storia del regno e dei tempi di Carlo Emanuele II, Genova 1877, pp. 777-780 e 800-802. C. Dionisotti, Storia della magistr. piemontese, II, Torino 1881, pp. 274 e 325-328; A. Manno, Il patriz. subalpino, II, Firenze 1906, pp. 318 s.; R. Quazza, Preponderanze straniere, Milano 1930, pp. 242 ss.