ORCHI, Carlo Andrea
ORCHI, Carlo Andrea (in religione Emmanuele). – Nacque quasi certamente a Como, verosimilmente intorno al 1600, da Giovanni Pietro e da Colomba Ciappana.
Sul luogo di nascita, pur in mancanza di documenti relativi, c’è l’unanime consenso degli studiosi; per quanto riguarda l’anno, invece, non si può far altro che congetturare: in quasi tutti gli studi si pensa ai primi anni del Seicento; ma tenendo presenti gli elementi certi relativi agli studi, appare più probabile che fosse nato negli ultimi anni del secolo precedente.
Scarsissime le notizie sulla sua vita, per le quali non soccorrono più di tanto neanche gli archivi dell’Ordine cappuccino, per solito ricchi di dati; è possibile che ciò sia dovuto a una certa freddezza nei riguardi di un frate la cui opera era già ai suoi tempi controversa. Le poche informazioni si debbono al principale biografo di Orchi, Felice Scolari, che ebbe a disposizione documenti poi divenuti irreperibili.
Intraprese da ragazzo studi di retorica che lo portarono a Torino, Bologna, Roma, e poi a laurearsi in filosofia a Milano (Brera) nel 1620 e in medicina a Pavia nell’ottobre 1623. Fu ordinato frate cappuccino il 25 aprile 1626 e gli fu assegnato il lettorato e l’ufficio della predicazione, che divenne, a partire dal 1631, la sua occupazione principale. Il suo particolare stile oratorio gli dette una grande notorietà, per cui divenne piuttosto ricercato: pare che fosse chiamato a predicare in molte città italiane (ma gli unici dati certi riguardano il quaresimale del 1642 a Como e quello del 1645 a Milano). Non è certa la notizia, riportata da alcune fonti, secondo la quale fu definitore per la provincia di Milano.
Morì il 22 febbraio 1649 a Procida, mentre era in viaggio per Malta, dove avrebbe dovuto predicare il quaresimale.
L’anno successivo, a Venezia, uscì un volume di Prediche quaresimali; l’opera conobbe un buon successo, come provano le numerose riedizioni (sette tra il 1650 e 1676, tutte identiche alla prima). Ne fu pubblicata anche una traduzione latina molto libera di Bruno Neuser (Mainz 1668), in cui le singole prediche, mescolate a testi di altri autori, sono adattate per l’utilizzazione in vari momenti dell’anno liturgico (come esplicitato dal titolo: Conciones annuales, sive discursus praedicabiles in omnes dominicas per totum annum et quadragesimam).
La notevole rinomanza, nel bene e nel male, acquistata dalle Prediche è dovuta soprattutto alle caratteristiche stilistiche, che ne fanno uno dei campioni più rappresentativi della prosa secentista. Alla lettura del volume appare con nettezza che la ricerca di soluzioni espressive estreme è in Orchi superiore alla media della predicazione barocca. Lo sfrenato concettismo che l’omiletica secentesca interpretava in maniera anche più radicale di altri generi letterari è attivo in ogni singola pagina di Orchi, il quale pare animato da una continua tensione per la spettacolarizzazione di qualsiasi aspetto, anche banale, del reale. La prediletta figura dell’enumerazione è funzionale alla rappresentazione di molti dettagli tradizionalmente ignorati dalla letteratura, verso cui invece Orchi, in linea con le punte più avanzate della poetica barocca, mostra un fortissimo interesse (per cui, per esempio, vengono minuziosamente descritti i singoli gesti di una lavandaia che lavora sulla riva di un fiume). Peraltro, l’estrema attenzione per i particolari non va di pari passo con un tentativo razionale di raffigurare la realtà; anzi, a emergere nelle prediche è «uno pseudo-mondo passibile d’incremento all’infinito, autosufficiente nella sua nullità, perpetuamente miracolistico» (Pozzi, 1954, p. 194).
La prosa di Orchi è interamente costruita sull’uso parossisitico di artifici stilistici, in particolare nel settore della dispositio: il lavoro sull’ordine dei costituenti delle frasi, con inversioni, dislocazioni o ricercati effetti di simmetria è visibile pressoché a ogni pagina. Non di rado si ha la sensazione che le sperimentazioni formali abbiano la precedenza, nell’idea di scrittura dell’autore, sulle istanze dei contenuti. Meno sperimentale, al confronto, è l’assetto lessicale, anche se non mancano vocaboli rari ed estemporanee coniazioni d’autore.
Tra i punti di riferimento di Orchi vanno annoverati senza dubbio due testi molto frequentati da quasi tutti i predicatori secenteschi, le Dicerie sacre di Giovan Battista Marino e le Imprese sacre di Paolo Aresi. Viceversa, Pozzi ha mostrato con argomenti inoppugnabili come l’idea di una decisiva influenza della letteratura spagnola, in Orchi come del resto negli altri autori concettisti, non sia altro che un luogo comune privo di fondamento.
Tra i vari Ordini predicatori, quello dei cappuccini era forse il meno propenso allo stile concettista nell’omiletica. Ciò spiega l’imbarazzo che sembra circondare la figura di Orchi tra i suoi confratelli, molto tangibile nel discorso con il quale il curatore della princeps delle Prediche, Benedetto da Milano, introduce i testi ai lettori. La pubblicazione viene giustificata con il proposito di offrire un esempio notevole, per quanto discutibile, di eloquenza arguta: si è deciso di stampare le prediche di Orchi «perché s’ammiri l’eminenza dell’ingegno in ciò ch’è più degno d’ammirazione che d’imitazione». Ma allo stesso tempo viene dichiarata apertamente l’inutilità se non proprio la dannosità dal punto di vista spirituale degli eccessi stilistici: «la fioritezza soverchia del dire è diametralmente opposta a quel fine della conversione delle anime, ch’esser deve l’unico oggetto dopo l’onore, e gloria divina» di chi parla ai fedeli. Si arriva infine ad ammonire i predicatori, segnatamente i cappuccini, a non seguire le orme di Orchi e anzi a procedere in modo opposto: «deve per ogni modo essere sbandita la soverchia delicatezza dello stile, e la curiosità de’ pensieri». Simili perplessità sono evidenti anche tra i revisori a cui spetta il compito di redigere la lettera di approvazione dell’opera per la stampa (anch’essa pubblicata nella prima edizione), i quali valutano positivamente le «moralità... lunghe, vive, e fervorose», ma non senza rilevare che «lo stile è molto più fiorito di quello che si convenga al predicatore, massime capuccino».
Quelle stampate nel volume del 1650 sono certamente solo alcune delle prediche composte da Orchi. Le altre sono andate perdute, così come alcuni testi di cui si ha memoria (peraltro sulla base di indicazioni poco affidabili dei repertori antichi). Nessuna traccia è rimasta della tesi di laurea, che secondo Scolari sarebbe stata pubblicata a Milano nel 1620; stesso discorso per un Encomium gloriae Austriacae stampato a Bamberg, in data imprecisata (Savonarola, 1713). Bernardo da Bologna (1747) cita anche quattro volumi di Lectiones philosphicae et theologicae, senza specificare se si tratta di manoscritti o stampe. In vari repertori si parla di un’intensa attività poetica in italiano; secondo Valdemiro Bonari (1898) la sua produzione contemplerebbe anche testi in latino e in francese (ma la notizia è priva di fondamento, dato che si basa sull’attribuzione a Orchi di un manoscritto non suffragata da alcuna prova). Unica testimonianza sicura della scrittura in versi è un sonetto pubblicato nella raccolta di Poesie liriche di Giuseppe Campanile (Napoli 1674).
Il nome di Orchi compare con grande frequenza nelle storie della letteratura italiana, anche se per secoli accompagnato da un giudizio apertamente negativo, dovuto al duraturo pregiudizio antibarocco. Non di rado, viene menzionato come il rappresentante più tipico del concettismo, dei cui difetti le Prediche costituirebbero una summa. È solo a partire dagli studi di Giovanni Pozzi che l’opera di Orchi viene affrontata in maniera non superficiale, in particolare dal punto di vista stilistico.
Fonti e Bibl.: A. Lasor a Varea [= R. Savonarola], Universus terrarum orbis scriptorum calamo delineatus, Padova 1713, p. 129; Bernardo da Bologna, Bibliotheca scriptorum Ordinis minorum s. Francisci cappuccinorum, Venezia 1747, p. 79; C. Jöcher, Allgemeines Gelehrten-Lexikon, II, Leipzieg 1750, ad nomen; G.B. Giovio, Gli uomini della comasca diocesi antichi e moderni, Modena 1784, pp. 161 s.; Un quaresimale del Seicento, in Rivista europea, II (1839), pp. 335-344; V. Bonari, I Cappuccini della Provincia Milanese dalla sua fondazione (1535) fino a noi, Crema 1898, p. 113; E. Nencioni, Saggi critici di letteratura italiana, Firenze 1898, pp. 107-110; B. Croce, I predicatori italiani del Seicento e il gusto spagnolo, Napoli 1899, p. 16; F. Scolari, Il p. O. e i barocchi predicatori del Seicento, Como 1899; S. Vento, Le condizioni dell’oratoria sacra nel Seicento, Roma 1916, pp. 87-96; E. Santini, L’eloquenza italiana dal concilio Tridentino ai nostri giorni, Palermo 1923, pp. 76 s.; B. Croce, Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari 1924, p. 170; Ilarino da Milano, Biblioteca dei frati minori cappuccini di Lombardia (1535-1900), Firenze 1937, pp. 100 s.; G. Pozzi, Cultura impresistica del p. E. O., in Paragone. Letteratura, II (1951), 20, pp. 44-53; Giovanni da Locarno [= G. Pozzi], Saggio sullo stile dell’oratoria sacra nel Seicento esemplificata sul p. E. O., Roma 1954 (alle pp. 203-247 una scelta di brani tratti dalle Prediche quaresimali); A. Vecchi, E. O., in Dizionario critico della letteratura italiana, a cura di V. Branca, Torino 1986, pp. 292-296; D. Di Cesare, La selva delle analogie, in Lingua, tradizione, rivelazione. Le chiese e la comunicazione sociale, Casale Monferrato 1989, pp. 145 s.; Stanislao da Campagnola, Oratoria sacra. Teologie ideologie biblioteche nell’Italia dei secoli XVI-XIX, Roma 2003, pp. 32-38.