ALIANELLO, Carlo
Nacque a Roma il 20 marzo 1901, da Antonio, ufficiale di artiglieria, e da Luisa Salvia.
Ambedue i genitori erano di origine lucana, ma, mentre la famiglia paterna vantava ascendenti nobili e un provato lealismo borbonico, la madre proveniva da un ceppo borghese di medici e avvocati, laico e liberale, partecipe, dopo il '60, della vita politica del nuovo Regno (uno zio dell'A., Ernesto Salvia, fu deputato dal 1904 al 1913 e senatore dal 1919). Persone ed eventi della tradizione familiare ebbero un ruolo notevole nell'attività letteraria dell'A., il quale ad essa siispirò per costruire storie, luoghi e personaggi dei suoi romanzi, e rimase sempre profondamente legato all'humus culturale della "patria lucana" che conobbe in ripetuti soggiorni, anche se non vi risiedette mai stabilmente.
L'A. trascorse gli anni della prima fanciullezza in Sardegna, all'Isola della Maddalena, dove il padre era di stanza. Nel 1909 questi fu trasferito a Firenze; e qui l'A. frequentò il ginnasio "Galilei". A Firenze si iscrisse anche alla Congregazione mariana, retta dai gesuiti, che continuò a praticare per tutta la vita anche a Roma, dove il padre fu richiamato, nel 1914, al ministero della Guerra. A Roma studiò al liceo "T. Mamiani", dopo che la sua domanda di ammissione all'Accademia navale di Livorno era stata respinta per un difetto alla vista. Iscritto in un primo momento alla facoltà di ingegneria, passò a lettere, coltivando in particolare studi di antropologia ed etnografia. La sua vocazione letteraria si era manifestata presto; e l'A. aveva incominciato a scrivere, frequentando anche, ma da isolato, i luoghi di ritrovo dell'ambiente culturale romano: i caffè e qualche redazione di giornale. Infatti dopo la laurea, conseguita nel 1923, lavorò per breve tempo come volontario, su raccomandazione dello zio senatore, al Mondo di Amendola, ma i primi versi glieli aveva pubblicati una rivistina quasi sconosciuta, Nuovo Convito (1916-22), di cui era proprietaria e direttore un'anziana nobildonna lucana, la marchesa Maria Del Vasto Celano.
La formazione intellettuale dell'A. si configura comunque di stampo abbastanza particolare: pressoché totale appare l'estraneità e quasi l'ignoranza della vivacissima e dibattuta problematica culturale contemporanea, fosse anche solo a livello italiano; di fondamentale importanza invece la pratica del cattolicesimo, ma di un cattolicesimo portato al misticismo, e così negativo nei confronti di ogni esperienza scientifica e razionalista da doversi definire più reazionario che conservatore, mentre l'interesse per la storia e gli ambienti della provincia meridionale, va inteso soprattutto in relazione ad un vivo senso dell'arcaico, ad un'idea quasi magica di "radici incontaminate".
Inizialmente gli interessi letterari dell'A. si orientarono sul teatro: nel 1925 riuscì a far rappresentare una sua commedia (di cui non conosciamo il titolo) al teatro degli Indipendenti di A. G. Bragaglia, recitata dai burattini di Mastrocinque; e nel 1928, a Roma, uscì il primo saggio: Il teatro di Maurizio Maeterlinck. Nel contempo, per guadagnarsi da vivere, dal 1925 iniziò la carriera dell'insegnamento: partecipò al concorso per i ginnasi e fu destinato a Rieti; vinse poi il concorso per le materie letterarie nei licei e si trasferì a Camerino dove si sposò; nel 1930 rientrò a Roma, dove insegnò successivamente all'"Umberto I", al liceo artistico e presso l'Accademia di belle arti, infine al "Giulio Cesare", concludendo la carriera come ispettore centrale presso il ministero della Pubblica Istruzione.
Abbandonato il teatro, per il quale non riuscì a trovare altra udienza dopo l'esordio (nel 1931 aveva scritto un dramma, Giuditta, che non fu mai pubblicato), si dedicò al romanzo e, tardi, nel 1942, con un editore eterodosso come Einaudi, riuscì a pubblicare il primo libro, L'alfiere (di cui si ebbero altre tre edizioni: 2ª, Torino 1944; 3ª, Firenze 1957; 4ª, Milano 1964).
In esso appaiono alcuni dei temi dall'A. poi ripetutamente ripresi e quindi classici della sua narrativa: è, infatti, la storia, ambientata nel Regno meridionale nel momento cruciale dell'impresa garibaldina e della successiva annessione allo Stato italiano, dell'alfiere dei cacciatori reali Pino Lancia, della sua educazione politica e morale, che lo porta, attraverso gli eventi di quel periodo, a riaffermare la fedeltà al suo giuramento di soldato, scegliendo liberamente di rientrare a Gaeta per l'ultima resistenza al fianco del re borbone, dove "non vinceremo" perché "qui ormai non si combatte più per questo" (Torino 1942, p. 588); e della sua educazione sentimentale attraverso l'amore di tre giovani donne. Il romanzo, ponendo quale eroe della vicenda un lealista borbonico e imputando il crollo del Regno meridionale non all'eroismo garibaldino bensì alla corruzione e alla vigliaccheria della sua classe dirigente, dava un'interpretazione evidentemente anticonformista di uno dei momenti più agiograficamente celebrati del Risorgimento; sono quindi comprensibili l'interesse di un editore come Einaudi e le reazioni polemiche che seguirono immediatamente. Contro il romanzo insorse violentemente Il Tevere, organo del Fascio romano, e contro l'autore fu emesso un ordine di confino, peraltro bloccato dal 25 luglio.
La carriera di narratore dell'A., tuttavia, una volta avviata non subì più battute di arresto. Dopo la pubblicazione di un saggio, collegato probabilmente all'attività didattica dell'A. (Introduzione e commento al Bruto I di V. Alfieri, Roma 1945), apparve nel 1947, nella "Medusa degli Italiani" di Mondadori, Il mago deluso, che ottenne il premio Bagutta. Questo secondo romanzo abbandonava l'ambientazione storica dell'Alfiere, ma non l'ambiente meridionale e, pur nell'apparente diversità tematica, si volgeva ad indagare un soggetto, quello delle radici magiche della cultura meridionale, che già era affiorato in alcune parti del libro precedente, e che sarebbe poi riemerso anche nei successivi romanzi storici dell'A., unito a quello, altrettanto caro all'autore, della natura vergine e incontaminata.
Il mago deluso, libro assai confuso e sicuramente meno riuscito del precedente, si impernia sulla lotta tra misticismo e magia nera, ambientata in una piccola cittadina centromeridionale, in cui si può forse riconoscere Camerino, dove un giovane professore, giunto dalla città, si innamora, corrisposto, di un'affascinante e misteriosa signora, amata a sua volta da un organista gobbo dedito alla stregoneria; muore il mago, muore la donna, il giovane professore emerge purificato dalla torbida esperienza.
Senza abbandonare del tutto questi temi "magici", l'A. tornò con la sua terza opera Soldati del re (pubblicata nel 1952 sempre nella "Medusa" mondadoriana e vincitrice del premio Valdagno-Marzotto) al romanzo storico e alla sua canonica ambientazione nel Meridione a metà Ottocento; in questo caso si tratta di tre lunghi racconti articolati sul tema della repressione borbonica del moto costituzionale del maggio 1848. Così come l'ambientazione anche il tema centrale si ripete ed è quello della fedeltà, fedeltà assoluta, o dubitosa, o tradita, che comunque, secondo l'autore, l'individuo deve all'ordine costituito, dal momento che la sua concezione della storia è senza prospettive di evoluzione o di progresso.
Dopo il tentativo di rievocazione evangelica di Maria e i fratelli (Firenze 1955) - tentativo ambizioso perché teso a rappresentare nel dolore di Maria il dolore del Cristo per l'incomprensione dei suoi stessi discepoli e per la sordità del mondo di fronte alla legge della carità; ma tentativo fallito, perché la volontà di avvicinare l'evento evangelico ricostruendone la quotidianità si risolve nella realizzazione di una specie di presepio napoletano troppo colorito e troppo affollato, condito per di più di un realismo spesso truculento -, l'A., nel 1963, pubblicò L'eredità della priora, il più noto e forse il migliore dei suoi romanzi. Questa volta l'evento ebbe notevole risonanza presso il grande pubblico.
Il nome dell'autore era ormai noto, anche perché nel 1962 la televisione aveva trasmesso L'alfiere come romanzo sceneggiato, il successo del Gattopardo aveva reso di moda l'argomento meridionalista, certa storiografia di sinistra aveva da tempo avviato una revisione del Risorgimento italiano nella direzione già seguita dall'A., seppure con obiettivi fondamentalmente opposti; tanto che, non a caso, il libro fu pubblicato da Feltrinelli (ebbe una seconda edizione nel 1966, ottenne il premio Campiello-Targa d'oro e fu sceneggiato per la televisione nel 1979). L'arco della lunga narrazione copre la cronaca di un anno, dal 1861, poco dopo la proclamazione del Regno d'Italia, al 1862, ed ha per argomento il brigantaggio politico - ovvero, nell'interpretazione dell'A., la guerra partigiana - che i borbonici condussero in quel torno di tempo in Lucania, nel tentativo di sollevare i contadini contro gli "occupanti" piemontesi. Protagonisti sono alcuni giovani ex ufficiali borbonici intenzionati, con maggiore o minore convinzione personale, a guidare al fianco dei veri briganti, come Crocco, il moto insurrezionale. Accanto a loro la priora del titolo, il cui Ordine è stato espropriato dal nuovo governo, avventurieri, avvocati di paese, le donne dei soldati, maghe, frati e tutto un seguito di personaggi, piccoli e grandi, organizzati in una narrazione che presenta ricchezza di fantasia e indubbio ritmo. Tuttavia, se nell'Alfiere e in Soldati del re, si poteva ancora pensare che l'A. tentasse una ricostruzione degli avvenimenti in equilibrio tra le ragioni dei vinti e quelle dei vincitori, qui appare evidente che egli vuole sostituire, in una raffigurazione oleografica dei fatti, eroi ad altri eroi, il borbonico al garibaldino, in nome di una sincera, ma sicuramente non equilibrata, volontà di riscatto di una tradizione locale che egli sente propria. All'Eredità della priora seguirono una biografia biblica, Nascita di Eva (Firenze 1966), quindi la raccolta di racconti per ragazzi Il galletto rosso (Roma 1970) e la sua autobiografia, Lo scrittore odella solitudine (ibid. 1970), in cui l'A. rivendica il suo isolamento culturale come espressione della solitudine necessaria allo scrittore per seguire la sua vocazione narrativa, non senza, però, qualche amara considerazione per il silenzio dell'establishment culturale nei suoi confronti. Nei primi anni '70 la pubblicazione di La conquista del Sud (Milano 1972) - in cui l'A. raccolse una serie di testimonianze di storici e cronisti di parte borbonica ad esemplificare appunto, la conquista e non l'inserimento del Sud nel corpus della nazione - in contemporanea con l'uscita del film di F. Vancini Bronte, cronaca di unmassacro, evidenziò, attraverso un diffuso dibattito che raggiunse toni di accesa polemica su giornali e riviste, la strana, ma non illogica, consonanza in atto tra l'A., cattolico tradizionalista, e alcuni esponenti della cultura di sinistra. Ultimo romanzo dell'A. (che aveva inoltre precedentemente pubblicato un dramma Luna sullaGran Guardia [Torino 1955], trasmesso anche per radio, e un saggio Teatro codino [ibid. 1965]), fu L'inghippo (Milano 1973) che, pur svolgendosi a Roma nel 1890, rispecchia ancora le conseguenze delle divisioni fra italiani collegate ai modi della "conquista del Sud". Narra dell'onorevole Francesco Fortemanno, meridionale liberale e ateo, coinvolto nello scandalo della Banca romana, del suo antagonismo con la sorella, fedele invece al vecchio regime e cattolica, dei loro figli. La trama, spoglia e insieme confusa, la conclusione melodrammatica, caratterizzano il romanzo come una stanca ripetizione dei temi cari all'Alianello.
L'A. morì a Roma il 1º apr. 1981.
Da un esame complessivo della sua opera l'A. risulta in definitiva un autore attardato e isolato, il cui punto di riferimento sul piano della struttura narrativa, sia per la forma sia per i contenuti, può considerarsi il romanzo realista ottocentesco di argomento storico; l'ideologia che sottende la sua produzione, esplicita fin dai primi lavori, si rifà ai termini di un cattolicesimo reazionario che fatalmente volge in conclusione ad un totale scetticismo nei confronti della storia: "E tu il progresso vuoi? … se già sei un galantuomo cerca di diventare migliore. Ma a quel progresso che ti porge la politica tu non ci credere ch'è roba sporca" (L'alfiere, p. 199); e ancora: "Ci vogliono regalare questa benedetta libertà, che chissà che gli pare e il mondo resterà sempre quello che è…" (ibid., p. 591). In un mondo siffatto l'evento storico non può essere che casuale e prevaricante e dunque l'ispirazione e l'interesse dell'A. sono non per la storia ma in polemica con essa; le sue simpatie vanno ai vinti, ai perdenti, i quali si identificano con i vinti e i perdenti della storia del Sud che dalla loro emarginazione hanno tratto la forza per seguire il valore assoluto della fedeltà: fedeltà al loro giuramento, se soldati; fedeltà alla propria terra, che per l'A. è la "patria lucana", arcaica e magica; infine fedeltà suprema alle leggi divine. In questa chiave l'affermazione tante volte confermata dall'A. di non essere scrittore "borbonico" è affermazione veritiera, oltreché sincera; mentre riacquista così unitarietà l'intero arco della sua produzione, trovandovi una sua collocazione anche il filone "magico" e mistico.
L'argomentazione meridionalista, però, vista superficialmente, al di fuori di questa impostazione globale, ingenerò una serie di equivoci sull'A. e sulla sua opera, sia accomunandolo agli "smitizzatori" progressisti della storia risorgimentale, sia impropriamente avvicinandolo a nomi quali quelli di De Roberto o di Tomasi, mentre le radici culturali dell'A. erano lontane, così dal cupo naturalismo del primo come dal raffinato decadentismo del secondo. Anche nelle sue opere migliori, L'alfiere, Soldati del re, soprattutto L'eredità della priora (le uniche che conservino oggi un qualche interesse), al di là degli equivoci giudizi critici contingenti, la prospettiva da cui l'autore racconta la sua storia è pur sempre ristretta, i suoi protagonisti, nonostante le loro scelte eroiche, scolorano nel sentimentalismo se non nel melodramma; il tentativo di fondere lingua e dialetto, l'utilizzazione di termini antiquati più che arcaici, appesantiscono lo stile e quindi la speditezza del narrare; le scene in cui intervengono elementi magici sono talvolta assurde o ridicole. Tuttavia si deve riconoscere all'A. la capacità di trarre attraenti intrecci drammatici dalle vecchie cronache, di creare un ritmo che, un po' nello stile del romanzo d'avventure alla Dumas, si sottrae alla statica dello psicologismo e afferra e trattiene l'attenzione del lettore.
Fonti e Bibl.: Oltre ai necr. in Il Messaggero, 2 apr. 1981; Il Tempo, 2 apr. 1981, Corriere della sera, 2 apr. 1981, vedi: L. Russo, I narratori 1850-1957, Milano-Messina 1958, ad Indicem (conindicazioni bibl. relative alle recensioni ai primi romanzi dell'A.); F. Montanari, La narrativa di C. A., in Studium, LX (1964), pp. 6-15; W. Mauro, Cultura e società nella narrativa meridionale, Roma 1965, ad Indicem; M. Camillucci, Un grande romanzo storico 'L'eredità della priora', in Studium, LXII (1966), pp. 452-455; G. Manacorda, Storia della letteratura italiana contemporanea (1940-1965), Roma 1967, ad Indicem; G. Barberi Squarotti, La narrativa italiana del dopoguerra, Bologna 1968, ad Indicem; I. Scaramucci, Studi sul Novecento, Milano 1968, ad Indicem; M. Lupinacci, Il Risorgimento riveduto e scorretto, in Corriere della sera, 21 giugno 1972; Diz. della lett. ital. contemporanea, I, Firenze 1973, s.v.; Diz. della lett. mondiale del 900, I, Roma 1980, s.v.