DORIA (Doria di Cirié e del Maro), Carlo Alessandro
Nacque a Torino nel 1678 dal marchese Giovanni Gerolamo, gran maestro della Casa reale, commendatore dell'Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro, cavaliere di quello dell'Annunziata, e da Claudia Margherita Scaglia di Verrua, dama d'onore della duchessa. Ramo separato della grande famiglia genovese, signori di Oneglia, in seguito alla vendita di quest'ultima fatta nel 1576 dal trisavolo Giovanni Gerolamo ad Emanuele Filiberto, si era trasferito in Piemonte, ottenendo in cambio i feudi di Cirié e del Maro e di Prelà, ed entrando al servizio dei Savoia.
Decimo di sedici figli, il D. si dedicò dapprima agli studi di diritto, entrando poi al servizio di Vittorio Amedeo II nella segreteria di Stato per gli Affari esteri. Abate di S. Maria di Vezzolano, senza tuttavia aver preso gli ordini, successe al padre nella commenda mauriziana di Ripaglia. Durante la guerra di successione spagnola fu quindi inviato presso la Repubblica di Genova per seguire gli interessi del duca in tale città. Nella istruzione Vittorio Amedeo Il indicava chiaramente i suoi compiti principali: vigilare sulla posizione di Oneglia, esposta ad eventuali attacchi della flotta francese; informarsi sulle contribuzioni finanziarie richieste dall'Impero alla Repubblica, sulle quali il duca contava per ottenere a sua volta i regolari sussidi militari da Vienna; seguire i vari movimenti delle truppe francesi in Provenza e in Linguadoca, per informarne Torino.
Nel 1708 il sovrano lo incaricò di richiedere un grosso prestito di circa 1.200.000 lire piemontesi a banchieri genovesi o a mercanti inglesi ed ebrei della città, inviando per le trattative anche il direttore della Zecca di Torino Girolamo Porta. Ma il credito dello Stato sabaudo, anche dopo la vittoriosa conclusione dell'assedio di Torino, non era molto alto presso la Repubblica ligure; né le fin troppo evidenti mire espansionistiche dei Savoia, che avevano causato già molti fastidi alla stessa Genova, potevano assicurare loro molte simpatie. Tanto che già il rinnovo di un precedente mutuo di 500-000 lire, garantito con i gioielli della Corona, era stato ottenuto due anni prima con gran fatica e solo nel 1711 il governo sabaudo fu in grado di ottenerne il riscatto. La trattativa fallì e il 21 maggio 1709 il D. venne richiamato, su sua richiesta, a Torino, e sostituito dall'abate F.M. Luserna d'Angrogna. Tra la sua corrispondenza ufficiale con il duca si conserva ancor oggi una preziosa "mernoria sul modo in cui la Repubblica tratta i più segreti affari di stato" (Archivio di Stato di Torino, Lettere ministri, Genova, m. 7).
Il suo soggiorno a Torino tuttavia non fu molto lungo: due anni dopo il D. venne infatti nominato ministro residente presso la corte di Roma, in sostituzione del conte Girolamo Marcello De Gubernatis, la cui ferma e tenace opposizione alle richieste pontificie in materia di giurisdizione ecclesiastica aveva provocato le proteste del papa e costretto il duca a richiamarlo a Torino.
I rapporti fra la S. Sede e il duca di Savoia in quegli anni non erano certamente felici: già l'editto del 1694 emanato da Vittorio Amedeo a favore dei valdesi aveva irritato la corte romana; erano seguite numerose proteste a seguito della lotta intrapresa dal duca contro le immunità ecclesiastiche, in particolare contro quelle fiscali, che, con le prime iniziative dovute alla "perequazione" dei carichi fiscali diretti in tutto il Piemonte, avevano notevolmente ridotto i privilegi dei beni ecclesiastici di "antico e nuovo acquisto"; infine l'occupazione da parte del duca delle terre abbaziali di San Benigno, antico feudo pontificio, aveva riacutizzato vecchi e nuovi attriti. Nel 1713, inoltre, la concessione al duca del Regno di Sicilia, con l'annesso titolo regio, aveva comportato infinite questioni di carattere diplomatico, formali e procedurali, date le ben note rivendicazioni della S. Sede sul Regnum Siciliae, cosìcome avverrà del resto più tardi con il Regnum Sardiniae.
In tutte le questioni il D. seguì le precise istruzioni del sovrano, ispirate al metodo fino allora da lui stesso seguito nelle vertenze con Roma: fermezza su tutte le questioni pratiche e difesa intransigente dei diritti regi, ma prudenza nell'avventurarsi sul terreno teologico o nell'impostare temi gallicani o ereticali. La sua azione fu quindi certamente più diplomatica di quella del suo predecessore De Gubernatis, cordialmente detestato a Roma, come egli stesso ebbe a verificare nel 1713, quando alla notizia della sua morte scrisse a Torino che: "...tale nuova ha rallegrato tutta questa Corte e specialmente il papa, il quale spera ... d'incontrare minor resistenza dal canto di V.M. nelle consapute discrepanze..." (E. Morozzo della Rocca, Lettere di Vittorio Amedeo II a G. M. Morozzo, in Miscell. di storia ital., s. 1, XXXVI [1887], p. 63).
Dopo aver seguito tutte le questioni relative al riconoscimento del titolo regio al duca e della presa di possesso del Regno di Sicilia, il D. fu richiamato a Torino, ma ben presto rinviato in missione, nel 1717, presso la corte di Madrid, con il preciso incarico di studiare e riferire sui preparativi politici e militari che il desiderio di rivincita della regina di Spagna Elisabetta Farnese e di Giulio Alberoni stava ponendo in atto. E in tale missione il D., se da un lato seppe cogliere in pieno la figura e il carattere dell'Alberoni nonché le sue non certo segrete mire di rivincita sulla Sicilia e la Sardegna, di cui informò celermente ed efficacemente Vittorio Amedeo, dall'altro non fu poi in grado di nascondere diplomaticamente il tutto allo stesso cardinale, tanto da provocarne la risentita diffidenza, probabilmente anche in seguito all'intercettazione di alcuni suoi dispacci riservati alla corte di Torino. Il sovrano sabaudo fu così costretto a sostituirlo con il conte Giulio Cesare Lascaris di Castellar, al quale, appena partito per Madrid, Vittorio Amedeo raccomandava caldamente prudenza e abilità diplomatica con l'Alberoni, perché questi "...non s'aprirebbe mai coll'abate del Maro in negotiati di rilevanza ... et ormai questa piaga è insanabile attestata la diffidenza in cui l'abate sta col cardinale..." (Carutti, Storia di Vittorio Amedeo II, p. 110).
Al suo ritorno a Torino il D. lasciò tuttavia un'assai interessante "Relazione della Corte di Spagna", incentrata in particolare sull'ascesa al potere del card. Alberoni, estremamente attenta e precisa, ancor oggi conservata a Torino e pubblicata a suo tempo da D. Carutti (1861). In essa egli seppe cogliere i vari avvenimenti che portarono al potere l'abile e spregiudicato primo ministro della regina Elisabetta, ma soprattutto la sua accorta politica per cui riuscì dapprima a ricostituire l'esercito e la flotta spagnola, con il pretesto di voler fornire aiuto e soccorso all'Impero nella lotta contro la Sublime Porta; quindi a motivarne la presenza a Barcellona con la spedizione di Orano; infine ad utilizzare le forze militari così ricostituite nella riconquista della Sardegna, scacciandovi le truppe austriache e provocando così quel notevole rimescolamento politico-diplomatico che costò ai Savoia la permuta del Regno di Sicilia con quello di Sardegna, con uno scambio per loro in verità assai poco favorevole.
Al ritorno a Torino il D. lavorò per qualche tempo alla segreteria per gli Affari esteri e a diversi incarichi onorifici, come quello di cancelliere dell'Ordine della Ss. Annunziata. Era stato già da qualche anno insignito del cavalierato di gran croce dell'Ordine mauriziano e il 4 ag. 1723 venne nominato vicerè di Sardegna.
Tale nomina, oltre a testimoniare la stima goduta a corte dal D., è di notevole, anche se ancora poco studiata, importanza nell'ambito della politica sabauda verso il nuovo Regno di Sardegna. Com'è noto, a guidare i primi passi della politica dei Savoia verso l'isola furono soprattutto considerazioni di carattere militare, unite ad una più che manifesta speranza di utilizzare il nuovo ma certo poco vantaggioso acquisto quale pedina di scambio nel gioco politico-diplomatico delle varie guerre di successione di quegli anni, nelle quali il Piemonte fu sempre impegnato. Tuttavia l'aver voluto inviare come secondo viceré, subito dopo il generale F. G. Pallavicino di Saint-Rémy, un diplomatico stava anche a significare un'attenzione diversa verso i gravi problemi del Regno. E in effetti se si considera che su ventinove viceré inviati nell'isola solo sei provenivano dalla diplomazia di contro ai ben ventitré militari di carriera, e che, dopo l'esperimento del D., bisogna attendere circa mezzo secolo per trovare un altro diplomatico quale viceré, non si può non cogliere l'importanza della scelta del D. nel 1723, appena tre anni dopo l'acquisto dell'isola.
In effetti la politica seguita nel Regno dal nuovo viceré fu certo meno energica e nella lotta contro il banditismo e in quella contro gli ecclesiastici, forti del mancato accordo fra Vittorio Amedeo e la S. Sede in materia di immunità e privilegi del clero. Per altro anche durante il suo governo si manifestarono quei contrasti che caratterizzarono in seguito tutti i rapporti fra viceré e potere civile: tensioni con l'intendente generale; diffidenze verso i rappresentanti del potere giudiziario e la stessa Reale Udienza, soprattutto per la fuga di notizie riservate che caratterizzava le sedute comuni, specie se dedicate a materie ecclesiastiche; difficoltà nella lotta al banditismo dovute soprattutto alla protezione accordata a numerose bande dai grandi feudatari; abusi in materia di esportazioni di grano, le cui concessioni venivano acquistate dai più importanti feudatari anche con la corruzione dei pubblici funzionari: tutti problemi descritti vivacemente dal D. nella sua corrispondenza con il governo di Torino. In complesso tuttavia la sua azione non fu ritenuta molto efficace dalla corte. che, al termine del suo mandato, lo sostituì con il già ricordato Pallavicino di Saint-Rémy; e il fallimento di tale esperienza caratterizzò anche in seguito le scelte del governo, che preferì attribuire al ruolo del viceré quel carattere militare e accentratore che conservò in pratica per più di un secolo, fino alla metà dell'Ottocento.
Tornato in Piemonte nell'aprile del 1726, il D. morì pochi mesi dopo, il 17 ag. 1726, nel feudo di famiglia di Cirié (presso Torino).
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Arch. di corte, Lettere ministri, Genova, m. 7 (1706-1709); Roma, mm. 147-152 (1711-1715); Spagna, m. 58 (1717-18); Ibid., Lettere particolari, D, mm. 22-23; Ibid., Politico, m.1, cat. 4, n. 17: Istruzioni al D.; Ibid., Paesi Sardegna, Corrisp. viceré, 1723-26; Ibid., sezione III, Arch. Doria di Cirié, mm. 7, 15, 21: passim; Ibid., Patenti Controllo Finanze, sub voce, per le varie nomine del D.; Arch. di Stato di Cagliari, R. Segreteria di Stato e Guerra, s. I, vol. 276; s. II, vol. 1069, passim; molte altre lettere e documenti nelle serie Corrispondenza viceregia colla corte e la segr. di Stato; Carteggio del viceré con le autoritá dell'isola; Affari di corte; Affari interni; Affari esteri, anni1723-26; D. Carutti, Relazioni sulla corte di Spagna dell'abate D. del Maro e del conte Lascaris di Castellar..., in Mem. d. Accad. d. scienze di Torino, classe di scienze morali..., s. 2, XIX (1861), 2, pp. 1-105; Torino, Biblioteca Reale, A. Manno, Il patriziato subalpino ... (datt.), sub voce Oria d', linea di Cirié; G. Manno, Storia di Sardegna, IV, Milano 1835, pp. 113-117; D. Carutti, Storia di Vittorio Amedeo II, Firenze 1863, pp. 422 ss.; P. Palmarocchi, Sardegna sabauda, I, Il regno di Vittorio Amedeo II, Cagliari 1923, pp. 23, 56, 82 ss., 90 ss. e passim; R. Poddine Rattu, Biografie dei viceré sabaudi del Regno di Sardegna (1720-1848), Cagliari 1968, pp. 21 s.; F. Loddo Canepa, La Sardegna dal 1478 al 1793, II, Sassari 1975, pp. 41 s., 46, 51, 65, 71.