VITERBO, Carlo Alberto
VITERBO, Carlo Alberto. – Nacque a Firenze il 23 gennaio 1889, primogenito di Umberto, pesarese, e di Matilde Levi, donna di grande cultura e pittrice, appartenente a una famiglia sefardita presente a Firenze da generazioni.
Cresciuto in una famiglia agiata, insieme al fratello Dario (1890-1961), artista e scultore poi emigrato negli Stati Uniti, ebbe una educazione laica, ispirata ai valori dell’età liberale, secondo i quali l’ebraismo «costituiva un doloroso promemoria di un passato prossimo di umiliazioni che non dovevano ritornare» (C.A. Viterbo, Un Maestro ancora presente, 1972, p. 199).
Dopo avere completato l’istruzione elementare in istituti privati, s’iscrisse al liceo ginnasio Michelangelo di Firenze. Tra i compagni dell’ultimo anno ebbe Alfonso Pacifici, destinato a diventare figura carismatica dell’ebraismo e del sionismo. Le conversazioni con Pacifici proseguirono e l’amicizia si rinsaldò a Pisa, negli anni dell’università. Nel 1911 Viterbo si laureò in giurisprudenza. Tramite Pacifici, ebbe modo di avvicinare Shemuel Zevi Margulies, che reggeva la cattedra rabbinica a Firenze e nel 1899 aveva fondato un’importante scuola superiore di studi ebraici. Con Enzo Bonaventura e altri giovani, che pure non si preparavano alla carriera rabbinica, Viterbo frequentò le sue lezioni e ne divenne uno degli allievi prediletti.
Nel marzo del 1915 fu richiamato alle armi. Si sposò il 24 giugno 1918 – quasi al termine della guerra, cui partecipò come ufficiale di cavalleria – con Nella Micaela Uzielli, nata a Firenze il 21 luglio 1892 e ivi deceduta il 25 dicembre 1973. Il loro unico figlio, Giuseppe, nacque il 9 agosto 1927.
Nel primo dopoguerra svolse attività forense, ma il suo impegno nella vita comunitaria e per l’ebraismo si fece sempre più intenso fino a divenire predominante: soprattutto fu assidua la sua collaborazione al periodico La Settimana israelitica, di cui nel 1920 divenne condirettore insieme a Pacifici, Quinto Sinigaglia e David Prato. Nel dicembre dell’anno prima, con Pacifici e altri undici giovani sionisti fiorentini, Viterbo aveva partecipato a un’esperienza inedita contribuendo alla creazione del Comune Ebraico, un tentativo di autonomia istituzionale, fortemente connotato in senso sionista (Schächter, 2012). Un episodio che scosse la vita dell’ebraismo e suscitò un caso giuridico senza precedenti, risolto con lo scioglimento dell’ente attraverso apposito decreto reale (20 maggio 1920).
Avvicinatosi al sionismo, nel 1921 partecipò al congresso di Karlsbad. Erano anni in cui sull’onda dell’esperienza vociana e prezzoliniana dell’anteguerra, Firenze rappresentava un centro propulsivo, soprattutto da quando nella direzione del Collegio rabbinico a Margulies era succeduto Umberto Cassuto, brillante allievo cresciuto alla scuola di Giorgio Levi Della Vida. Sempre a Firenze sorsero importanti riviste: Israel (1916-38), La Rassegna mensile di Israel (1925-in corso), Israel dei ragazzi (1919) e la casa editrice Israel, che Viterbo stesso contribuì a far nascere nel 1921 (fra le altre pubblicazioni uscirono per i suoi tipi le prime traduzioni di Martin Buber).
Fu inoltre tra i fondatori dei Convegni di studi ebraici (1921-38), dei convegni giovanili (molto importante quello di Livorno, 1924) e dei campeggi estivi e invernali, dove un’intera generazione ebbe modo di conoscere per la prima volta esperienze di vita comune. Nel maggio del 1931 Viterbo fu chiamato a presiedere la Federazione sionistica italiana (FSI), succedendo a Dante Lattes. Nel momento in cui il fascismo raggiunse l’apice del suo consenso, la forte coloritura sionista delle attività fiorentine determinò una spaccatura nella classe dirigente, una frattura tra Firenze e altre città; in particolare si registrarono aspri contrasti con il gruppo di giovani fascisti torinesi, gravitanti intorno alla rivista La nostra bandiera, sorta all’indomani dell’arresto (1934) di alcuni giovani antifascisti alla frontiera svizzera di Ponte Tresa.
Sempre negli anni Trenta, muovendosi da Firenze a Roma, dove la madre, rimasta vedova, si era trasferita, Viterbo iniziò l’opera di soccorso ai profughi provenienti dalla Germania promuovendo il Comitato profughi dalla Germania, anticipando le attività della Delasem (Delegazione assistenza emigranti).
La nascita dell’impero, con la conquista dell’Etiopia, pose all’ordine del giorno della giunta dell’Unione delle comunità israelitiche italiane il problema dei falascia, la comunità ebraica presente in alcuni villaggi nei dintorni di Gondar. Una vicenda che già nel XIX secolo aveva attirato l’attenzione di antropologi ed etnografi, di cui nel 1936 il presidente dell’Unione, Felice Ravenna, affidò a Viterbo il compito di occuparsi, e di cui riferì in una dettagliata relazione (Relazione al Ministero dell’Africa..., 1984).
Il problema della minoranza etiopica di origine ebraica rappresenta un capitolo poco conosciuto nella storia della diaspora. Il nome deriva dall’idioma etipico-gheez fälläsa che significa «esulare, emigrare». Essi si definiscono «Biètha Israèl» (la casa di Israele). Di tutte le ipotesi, anche fantasiose, sulla loro origine, la più accreditata, confortata da scoperte archeologiche, è quella che li considera discendenti di colonie giudaiche che dall’Egitto di Psammetico (594-589 a. C.) risalirono il Nilo verso l’Abissinia, stabilendosi poi sull’altipiano etiopico.
Nel corso di un’importante missione divisa in due tempi, una prima ad Addis Abeba (luglio-novembre 1936), una seconda verso il territorio interno (dicembre 1936-febbraio 1937), Viterbo ebbe modo di avviare studi linguistici e antropologici su questa fino ad allora sconosciuta comunità africana: materiali per un libro che non fece in tempo a ultimare. Una vera inchiesta sul modello di altre realizzate in Italia, corredata da note di costume, resoconti eruditi, un imponente apparato fotografico. L’impresa non poté essere portata a termine in conseguenza delle leggi razziali del 1938 (C.A. Viterbo - A. Cohen, Ebrei di Etiopia, 1993).
Il 26 maggio 1940, a seguito dell’entrata in guerra, Viterbo fu incluso tra i civili ‘pericolosi’ insieme ad altri ebrei italiani, circa quattrocento concentrati nei campi di Campagna (Salerno), Gioia del Colle (Bari) e Urbisaglia (Macerata), dove giunse il 16 giugno dopo un mese di detenzione a Regina Coeli. Fra gli internati erano con lui Raffaele Cantoni da Milano, Gino e Guido Pincherle da Trieste, Eucardio Momigliano da Milano (Capogreco, 2003).
Sono state rese pubbliche le lettere ai familiari, in particolare quelle destinate al figlio Giuseppe, che svelano un lato meno conosciuto della sua personalità, quello intimo, privato, del padre e dell’educatore, una rara testimonianza di opposizione al regime attuata in nome della tradizione, a riprova del fatto che la lezione dei Padri e della Legge poteva essere equivalente alla lezione di libertà di Benedetto Croce o di Gaetano Salvemini.
Viterbo seppe reagire alle ristrettezze conservando inalterato il pathos di una religione intessuta di dolci ricordi, rafforzata da saldi legami con i precetti. Per rimanere fedeli a se stessi fu necessario procurarsi i libri di preghiera: «Il Ministero ha dato istruzioni perché ciò sia consentito senza restrizioni. [...] La recitazione sarà fatta da un corpo di ‘volenterosi’ del quale, naturalmente anch’io faccio parte. A mensa avremo qualche supplemento in segno di festa. [...] Mi dispiace di non esser con voi ad accendere i lumi [...] Ma siano questi segni di festa, lieti per voi e celebrate la solennità con la convinzione che il Signore vorrà usarci misericordia e farci giustizia» (Il giorno di ritorno che verrà, 2015, p. 42, lettera del 2 ottobre 1940). Alla vigilia della Pasqua ebraica (14 marzo 1941), il sogno di una libertà impossibile è così descritto: «Mi dici che non puoi pensare di far così la Pasqua e puoi ben pensare che anche io non posso pensarci. Speriamo che il Signore benedetto ci conceda la gioia di quei giorni insieme. Ma dobbiamo, purtroppo, pensare alla possibilità che ciò non sia [...] In verità sono assai contristato di veder passare il tempo in questa attesa senza fine, che mi fa disperare di poter passare la Pasqua con voi. Come farai senza il tuo Babbino che legga la Aggadà la sera del Seder?» (ibid., 2015, p. 51). Le altre testimonianze di antifascisti in carcere o al confino che si conoscono (Vittorio Foa, Carlo Levi, Leone Ginzburg) dicono e insegnano altre cose, scrivendo ai genitori, evocando un mondo ebraico largamente secolarizzato. Nelle sue lettere la dialettica laici-osservanti si rivela con chiara evidenza: «Io qui sono diventato una specie di maestro di guida per questa piccola Comunità, non è che abbia una grande scienza, ma sono tutti meno istruiti ebraicamente di me. Già dal venerdì sera scorso (e sono arrivato di giovedì) ho acceso io il lume del Sabato [...] Durante la settimana, per un’ora al giorno, leggo e spiego qualcosa dal libro di preghiere e forse da domenica comincerò delle lezioni di ebraico. Non tutti assistono, ma la maggioranza. Ci sono, purtroppo, degli spiriti dissidenti, che si danno arie di liberi pensatori e non si accostano alle riunioni. Mi fanno pena, perché perdono un grande conforto. E doppiamente pena perché, essendo qui come ebrei, non conoscono e non amano quell’ebraismo per il quale soffrono. Sono più disorientati e disgraziati degli altri» (ibid., pp. 36 s.).
Rilasciato il 30 giugno 1941, rimase nascosto fino alla liberazione di Roma. Chiuso lo studio fiorentino, abbandonata la casa, la moglie e il figlio trovarono riparo nel Senese, nel comune di Monteriggioni. Sotto falsa identità operò nell’assistenza clandestina fino all’arrivo degli anglo-americani. Con il ritorno alla vita democratica abbandonò l’attività professionale di avvocato e riprese la sua attività giornalistica, prima con un Bollettino ebraico di informazioni, poi con il settimanale Israel, giornale che dal giorno dell’esordio, 17 dicembre 1944, nel volgere di poco tempo rimase a lungo il maggiore organo di informazione ebraica del dopoguerra. Nato nel 1916 dalla fusione del Corriere israelitico e della Settimana israelitica, nel settembre del 1938 aveva interrotto le pubblicazioni.
Si trattava di far ritornare gli ebrei alla speranza dopo la catastrofe e Viterbo accettò la sfida facendo risorgere il periodico, scrivendo centinaia di articoli, correggendo bozze, traducendo contributi dal francese, dall’inglese, dal tedesco e dall’ebraico, scrivendo recensioni, postille, siglate CAV, firma che gli permise di raggiungere una popolarità inaspettata. Tra l’ottobre del 1957 e il gennaio del 1959 tenne una rubrica – un corso di lingua ebraica per principianti –, cinquanta puntate raccolte poi in un volume (Una via verso l’ebraismo, 1968). Il suo ultimo editoriale fu pubblicato il 1° agosto 1974. Con la morte, sopraggiunta improvvisamente a Roma il 9 agosto 1974, anche Israel cessò le pubblicazioni.
Opere. Una via verso l’ebraico, Milano 1968 (rist. Roma 1984); Un Maestro ancora presente, in La Rassegna mensile di Israel, XXXVIII (1972), 4, pp. 195-206; Una vita per l’ebraismo, in Israel, dicembre 1974, pp. 6-8; Relazione al Ministero dell’Africa Italiana dell’opera svolta in A. O. I. in rappresentanza dell’Unione delle Comunità israelitiche Italiane, in Israel. Un decennio (1974-1984), a cura di F. Del Canuto, Roma 1984; C.A. Viterbo - A. Cohen, Ebrei di Etiopia. Due diari (1936 e 1976), Firenze 1993; Il giorno di ritorno che verrà. Antologia di lettere dal campo di concentramento di Urbisaglia, a cura di G. Viterbo, Firenze 2015.
Fonti e Bibl.: C.S. Capogreco, L’internamento degli ebrei italiani nel 1940 e il campo di Urbisaglia-Abbazia di Fiastra, in La Rassegna mensile di Israel, LXIX (2003), 1, pp. 347-368; Jews of Ethiopia. The Birth of an Elite, a cura di T. Parfitt - E. Trevisan Semi, London-New York 2005; E. Schächter, C. A. V., un protagonista dell’ebraismo italiano, in La Rassegna mensile di Israel, LXXVIII (2012), 3, pp. 39-62.