carità (caritade; caritate)
La parola indica in primo luogo, all'interno dell'ambito dottrinario più oltre esposto, l'atteggiamento fondamentale del Dio Padre verso le sue creature (ma v. anche AMORE): sì come ciascuno maestro ama più la sua opera ottima che l'altre, ... e però che la sua larghezza non si stringe da necessitade d'alcuno termine, non ha riguardo lo suo amore al debito di colui che riceve, ma soperchia quello in dono e in beneficio di vertù e di grazia. Onde dico qui che esso Dio, che dà l'essere a costei, per caritade de la sua [si allude alla donna cantata nella canzone Amor che ne la mente] perfezione infonde in essa de la sua bontade oltre li termini del debito de la nostra natura (Cv III VI 10); poi che la somma deitade, cioè Dio, vede apparecchiata la sua creatura a ricevere del suo beneficio, tanto largamente in quella ne mette quanto apparecchiata è a riceverne. E però che da ineffabile caritate vegnono questi doni, e la divina caritate sia appropriata a lo Spirito Santo, quindi è che chiamati sono doni di Spirito Santo (IV XXI 11). Ma nello stesso tempo denota il nuovo rapporto d'amore ingeneratosi dopo la redenzione fra la creatura e Dio, rapporto che trova nei beati la forma perfetta: Quello infinito e ineffabil bene / che là sù è, così corre ad amore / com' a lucido corpo raggio vene. / Tanto si dà quanto trova d'ardore; / sì che, quantunque carità si stende, / cresce sovr'essa l'etterno valore (Pg XV 71); Se disïassimo esser più superne, / foran discordi li nostri disiri / dal voler di colui che qui ne cerne; / che vedrai non capere in questi giri, / s'essere in carità è qui necesse, / e se la sua natura ben rimiri (Pd III 77); quello sposo ch'ogne voto accetta / che caritate a suo piacer conforma (III 102); Tutti quei morsi / che posson far lo cor volgere a Dio, / a la mia caritate son concorsi (XXVI 57).
A sua volta tale rapporto è il presupposto di un nuovo spirito di fratellanza (cfr. l'operazione de la caritàde di Cv III XIV 14), diffuso per i meriti divini fra i membri della comunità cristiana. Anche questa virtù, che il giovanile stilnovismo di D. vedeva propiziata dall'intervento strumentale della donna amata - Dico che quando ella apparia da parte alcuna, per la speranza de la mirabile salute nullo nemico mi rimanea, anzi mi giugnea una fiamma di caritade, la quale mi facea perdonare a chiunque m'avesse offeso (Vn XI 1, con prolungamento fino a Cv III VIII 16 E però dico che la biltade di quella piove fiammelle di foco, cioè ardore d'amore e di caritade) - si esprime al grado massimo nel Paradiso: per quanti si dice più lì [nell'Empireo] ‛ nostro ', / tanto possiede più di ben ciascuno, / e più di caritate arde in quel chiostro (Pg XV 57); Se tu vedessi com'io la carità che tra noi arde, / li tuoi concetti sarebbero espressi (Pd XXII 32); e così III 43, XXXI 49 e 110, XXXIII 11 (dove la Madonna è detta meridiana face di caritate, " imperò che la carità della Vergine Maria tutti li beati accende a carità " [Buti]).
Altri esempi si collocano in un campo semantico più generico, dove il vocabolo può riferirsi all'amore per un amico: Cv I III 8 (due volte), e 9; per la patria: Cv IV V 13 carità de la patria; If XIV 1 la carità del natio loco, luogo forse segnato da una sfumatura di nostalgia; per sé stesso: Cv I II 8 tanto la propria caritate ne 'nganna; oppure può valere " compassione ", " pietà ": Pg XIII 129 Pier Pettinaio... / a cui di me per caritate increbbe.
In Pg XIV 12 s'incontra l'espressione avverbiale ‛ per c. ': 0 anima che fitta / nel corpo ancora inver' lo ciel ten vai, / per carità ne consola e ne ditta / onde vieni e chi se'.
La c. nelle opere di Dante. - Origine divina della carità. - Come prima cosa va detto che Dio è amore e che ogni partecipazione d'amore soprannaturale è, nell'uomo, una risposta a Dio, una partecipazione all'agape divina. Dio è quello infinito e ineffabil bene che si riversa sull'anima che vuole amarlo; così corre ad amore come i raggi del sole corrono verso lo specchio che li assorbe restituendoli poi a sua volta (Pg XV 67-75). Nel passo di Pd XXI 70-72 c. probabilmente designa la santa Trinità, l'alta carità [Spirito Santo], che ci fa... pronte al consiglio [il Verbo, Sapienza divina] che 'l mondo governa [il Padre, Provvidenza]. In Cv IV XXI 1, D. dimostra come ogni valore nell'uomo venga da Dio e prima per modo naturale, e poi per modo teologico, cioè divino e spirituale, dove in questa seconda forma la c. è messa in speciale rapporto con lo Spirito Santo che distribuisce i sette doni di cui parla Isaia (11, 1-3). Stessa idea in Cv II V 8 E puotesi contemplare la somma e ferventissima caritade de lo Spirito Santo. Il bene supremo è Dio e bisogna amarlo: Lo ben che fa contenta questa corte, / Alfa e O è di quanta scrittura mi legge Amore o lievemente o forte (Pd XXVI 16-18); tutta la vita morale consiste nel passare dall'amor torto al diritto (Pd XXVI 62-63). Questa purificazione è tanto più agevole quanto più 'l bene, in quanto ben, come s'intende, così accende amore, e tanto maggio quanto più di bontade in sé comprende (Pd XXVI 28-30). L'amore è la realtà suprema che D. identifica col fuoco stesso dell'Empireo nel cielo sommo, nozione questa che combina insieme un pQ' del mondo delle idee di Platone e del fuoco supremo degli stoici (Ep XIII 24).
Oggetti della carità. - D. ha presenti - come tutti gli autori cristiani - tre oggetti della carità: Dio, gli uomini e sé stesso. Tuttavia egli insiste particolarmente su due aspetti. Il primo è tipicamente evangelico in quanto tratta dell'amore verso i nemici e del perdono che il cristiano deve concedere loro. In un tempo in cui le lotte tra uomini e tra fazioni erano particolarmente vivaci, un simile richiamo al precetto cristiano era ben necessario. Esso è rintracciabile in Vn XI, Pg XIII 36 Amate da cui male aveste, e Cv IV I 5 (ciò che bisogna odiare sono gli errori degli uomini, non gli uomini in sé stessi).
Il secondo è un tema raramente affrontato dai moralisti medievali: il giusto amore di sé. Generalmente infatti si considera l'uomo già abbastanza portato all'amor proprio. D., insieme ad alcuni autori (ad esempio Goffredo di San Vittore) è d'opinione diversa. In cielo gli eletti si amano come Dio vuole che si amino, senza provar invidia per gli altri: la nostra volontà quïeta / virtù di carità, che fa volerne / sol quel ch'avemo e d'altro non ci asseta (Pd III 70-72). Sulla terra l'uomo dev'esser buono per sé stesso (nullo è più amico che l'uomo a sé) ma deve mantenere un giusto equilibrio: non biasimarsi, ma neppure lodarsi (Cv I II 4-11).
La vita della carità. - D. echeggia s. Paolo (Rom. 5, 1-5) quando fa nascere la c. dalla speranza che, a sua volta, è generata dalla fede. Queste tre virtù (cfr. I Cor. 13) riassumono in sé tutta la filosofia celeste (Cv III XIV 14) e sono la condizione della salvezza (Mn III III 10). Esse procurano la beatitudine celeste a quel modo che le virtù filosofiche conducono alla beatitudine terrena (Mn III XVI 7-8) e portano perciò il nome di virtutes theologicae. In Pg. XXIX 121-127 queste tre virtù sono raffigurate in tre donne: rossa la c., verde la speranza, bianca la fede. Il valore di un'anima cristiana si misura con la profondità della c. (Pg XV 71-72).
La c. e le altre virtù. - Sempre con s. Paolo (I Cor. 13, 2, 13) D. conferisce alla c. il primato tra le virtù (Pg XXIX 127), ma insieme a certi teologi (come Guglielmo di Auxerre) ritiene inoltre che talvolta la fede predomini: e or parean da la bianca tratte, / or da la rossa. Anche le virtù morali seguono la c. (v. 131). Riprendendo il dilemma di s. Agostino (c aut caritas, aut cupiditas ", D. dirà che la c. genera la virtù della giustizia nel cuore del principe, mentre il falso amore di sé getta ombra sulla giustizia (Mn I XI 13-14). In Ep XI 14 D. ripete che la c. è madre della pietas e dell'aequitas. Reciprocamente pietade non è passione, anzi è una nobile disposizione d'animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia e altre caritative passioni (Cv II X 6).
Prospettive storiche generali. - Per capire perfettamente le idee di D. sulla c., bisogna reinserirle in un corso storico a un tempo ricco e tormentato.
Specificità dell'agape. - Una cosa va notata prima di ogni altra: D. per questo aspetto si rifà in modo tutto particolare al Nuovo Testamento, il che gli permette di evitare le contaminazioni che la nozione di ‛ agape ' ha conosciuto nel corso dei secoli.
Nella rivelazione del Nuovo Testamento c'è effettivamente qualcosa di tutt'affatto specifico in tal senso: Dio è ‛ agape ', è dono. Senza ovviamente dimenticare gl'imperativi della giustizia e della santità, il Nuovo Testamento afferma in sostanza che Dio ama gli uomini benché siano dei peccatori nemici di Dio, e ai cui occhi non hanno valore alcuno. " In hoc est charitas non quasi nos dilexerimus Deum sed quoniam ipse prior dilexit nos et misit Filium suum propitiationem pro peccatis nostris. Charissimi, si sic Deus dilexit nos, et nos debemus alterutrum diligere " (Ioann. 1, 4, 10-11; cfr. Rom. 5, 6-9). A questa prima tappa in cui l'uomo è senza merito e senza forza, ne succede una seconda: aiutato dalla grazia, l'uomo ‛ amato da Dio ' prosegue il moto dell'agape amando i suoi fratelli e dando a Dio una risposta d'amore. Si vede chiaramente come in questa metafisica neotestamentaria dell' ‛ agape ', questo termine designi essenzialmente un dono. È per questo che il Nuovo Testamento - echeggiato, come abbiamo visto, da D. - insiste tanto sull'amore verso i nemici. Essi rappresentano il tipo stesso di uomini verso i quali né Dio né l'uomo hanno debito, ma che la loro generosità impedisce di combattere e distruggere.
L'‛ eros ' platonico. - Le prime generazioni cristiane hanno avvertito assai bene la differenza tra questa concezione dell'amore-agape e l'idea greca dell'amore-eros. Platone ha difeso con vivacità l'idea che amore è essenzialmente desiderio e che perciò gli dei non possono amare. Essi non desiderano nulla. Tra gli uomini l'‛ eros ' si stabilisce non soltanto sul piano sessuale (e tanto più c'è da aspettarselo in quanto Platone lo disprezza come tutto ciò che è carnale), ma sul piano assai nobile dell'amicizia. Se c'è ‛ eros ' tra gli amici ciò avviene perché l'uno arreca qualcosa all'altro: gioia di filosofare, di pensare insieme, di provare sentimenti comuni.
La ‛ crocifissione ' di Eros da parte di Agape. - La lotta tra queste due concezioni dell'amore nell'ambito della teologia e della filosofia comincia allora... per non finire (così sembra) mai, giacché l'equilibrio che potrà stabilirsi tra questi due punti di vista è minacciato di continuo.
Una prima soluzione - come suggerisce s. Ignazio d'Antiochia Ad Romanos 7, 2 - consiste nel ‛ crocifiggere ' l'eros per far trionfare l'agape. Significa in questo caso disprezzo per ogni amore profano, sia che si tratti di matrimonio che d'amicizia. Al limite si giungerà ad annientare le legittime aspirazioni dell'uomo per il suo stesso bene eterno. Il cristiano sarà invitato ad amare Dio senza minimamente pensare che in ciò troverà la propria beatitudine. Certi mistici proveranno così l'annientamento dell'" io ". Nell'epoca moderna, il quietismo rappresenterà questa tendenza e sarà condannato dalla Chiesa cattolica (Bernieres, Fénelon). Nell'identica prospettiva del trionfo dell'agape divina, Lutero dichiara che l'uomo è salvato dalla sola grazia di Dio, senza alcuna considerazione di merito o di risposta all'agape divina. L'uomo è troppo. corrotto per poter arrecare dell'agape a Dio, egli non può superare lo stadio della πίστις; la ‛ fiducia ' di fede che il Dio salvatore imprime in lui.
Contaminazione dell'Agape con l'Eros. - Un'altra tendenza - altrettanto esclusiva - manifestatasi nella storia del pensiero cristiano è quella che cerca prevalentemente un ritorno all'eros. Essa si manifesta in maniere molto diverse. Nella Chiesa antica va ricordata soprattutto la corrente pelagiana che elimina la grazia dal processo della salvezza. L'uomo è amato da Dio non per bontà e come dono, ma per i suoi meriti. Il procedimento giovanneo è, come si vede, capovolto: è l'uomo ad amare per primo. Se si tratta della prima giustificazione, l'uomo è capace di prepararsi con le sue sole forze l'accesso alla fede e alla conversione. Una volta convertito, i meriti sono unicamente suoi, non già doni della grazia felicemente utilizzati. Sebbene il pelagianesimo sia stato già da gran tempo condannato, ciò non gl'impedisce di ricomparire costantemente nella Chiesa. Torna sempre alla luce il desiderio che ha l'uomo di salvarsi tutto da solo e non mediante Dio. Talvolta si tratta di reazione contro i massimalisti dell'agape come, ad esempio, quando dopo il Concilio di Trento si cerca di rivalutare l'idea di merito contro Lutero. Certuni allora dimenticano che il merito è dovuto a una collaborazione tra Dio e uomo, e insistono sul ruolo di quest'ultimo. In una diversa direzione, Bossuet reagirà contro Fénelon, affermando che l'amore disinteressato di Dio è impossibile, sospetto. Quindi, ai fedeli si insegna ad amare Dio per i vantaggi che ne traggono. Dall'unione di queste due correnti (neo-pelagianesimo e anti-quietismo), nascerà la tendenza dei lassisti a eliminare la c. dalla vita morale. Si afferma che la sola osservanza dei comandamenti è sufficiente. I trattati morali non parlano quasi più di carità.
Tentativi di conciliazione. - Tra questi due estremismi, va detto che si collocano numerosi tentativi di conciliazione. Ad esempio, l'eros può essere ricondotto a una sfera inferiore della vita morale. È normale che si cominci ad amare Dio pensando al bene che se ne potrà trarre, ma un cristiano più evoluto capisce che questo punto di vista va inglobato in un amore disinteressato, l'attaccamento a un valore supremo, superiore a quello umano. A seconda delle tendenze e delle epoche, si concederà più o meno spazio all'eros nell'ambito dei rapporti tra persone: si riconoscerà che accanto all'aspetto divino di agape, l'amore coniugale ha un suo proprio valore, fatto di reciprocità, di desiderio e di dono. Si valorizzerà l'amicizia in quanto comunione tra persone virtuose senza vedere in essa una rivale della c. universale. Verrà riconosciuto all'uomo il diritto a desiderare un certo numero di beni creati.
È questo il caso di D. che, ad esempio, sulla scorta di s. Tommaso, parla di legittimo amore di sé e di beatitudine imperfetta. Ma tutto ciò non può rappresentare altro che uno stadio inferiore della vita morale: alla sua sommità essa è comunione di c. tra un Dio che dona il suo amore e un uomo che risponde uscendo da sé stesso e amando Dio più che sé stesso. D., che questo ha capito molto bene, sottolinea nella descrizione del Paradiso il procedere dell'anima cristiana che ama Dio in modo sempre più perfetto, o, più esattamente, che s'abbandona alla logica dell'agape che Dio gli porta.
Concezione ‛ fisica ' ed ‛ estatica ' dell'amore. - Di contro va notato che D. non ha avuto quasi mai l'occasione di rifarsi alle teorie scolastiche sulla concezione fisica o estatica dell'amore, sull'intellettualismo tomista o il caritativismo francescano. La concezione fisica dell'amore è basata sull'idea che ogni natura subordinata è compresa nella natura prima, che è Dio. Chi ama l'una è portato ad amare anche l'altra. Questa corrente di pensiero nasce con s. Agostino e prosegue con Ugo di San Vittore, Pietro Lombardo, ecc. La filosofia estatica dell'amore insiste su quello che oggi chiameremmo il superamento: l'uomo deve uscire di sé (ex-stare) per perdersi nel Dio che ama. Questa corrente è rappresentata da s. Bernardo, Abelardo, Riccardo di San Vittore, s. Francesco. In ambedue queste scuole s'ammette l'amore interessato di Dio, ma nella prima esso è una parte dell'amore totale, mentre nella seconda è uno stadio preliminare. Non c'è dubbio che D. riconosce in s. Bernardo il dottore per eccellenza della vita contemplativa (Pd XXXI), tuttavia non entra nei dettagli della sua teoria dell'amore estatico. Parimenti D. ha posto bene in luce che l'ordine domenicano - e in special modo Tommaso - è più orientato verso l'intellettualismo, mentre s. Francesco e la teologia francescana pongono in primo piano l'amore (Pd XI 37-39). Ma egli si rifiuta di scorgere gran differenza tra gli uomini e le tendenze perch'ad un fine fuor l'opere sue (Pd XI 42). Quando parla di s. Tommaso o di s. Bonaventura, D. non fa alcuna allusione alle dispute teologiche e ancor meno al problema dell'amore.
Bibl. - Articolo " ἀγαπάω ", in G. Kittel-G. Friedrich, Grade Lessico del Nuovo Testamento, trad. ital., Brescia 1963, I 57-146; da confrontare anche l'articolo Charité, in Dictionnaire de spiritualité e in Catholicisme; articolo Liebe, in Lexikon für Theologie und Kirche, VI, Friburgo 1961, 1031-1043; articolo Carità, in Enciclopedia cattolica, m, città del Vaticano 1949, 796-835; P. Rousselot, Pour l'histoire du problème de l'amour au Moyen Âge, Parigi 19332; M.C. D'Arcy, The Mind and Heart of Love, Londra 1945; A. Nygren, Eros et Agapé. La notion chrétienne de l'amour et ses transformations, 3 voll., Parigi 1945-1952; C. WarNach, Agape. Die Liebe als Grundmotiv der neuestestamentlichen Theologie, Düsseldorf 1951; J.W. Raush, Agape and Amicitia. A comparaison between St. Paul and St. Thomas, Roma 1958; M. HufTier, La charité dans l'enseignement de S. Augustin, Parigi 1960; C. Spicq, Théologie morale du Nouveau Testament, ibid. 1965.