CARCERE (dal lat. carcer; fr. prison; sp. cárcel; ted. Gefängnis; ingl. prison, gaol, jail)
Cenni storici. - Speciale menzione meritano, per l'Oriente, le carceri cinesi, indiane ed ebraiche. In Cina si ebbero varie forme, dai ceppi a prigioni anguste, dal sistema indiretto e raffinato di estremo supplizio a terreni chiusi da muri di cinta (forse colonie agricole, o di relegazione). In India le leggi di Manù parlano sia d'incatenazione sia di carcerazione, e per quest'ultima prevedono "prigioni nelle strade maestre", il che ci richiama alla gabbia del Medioevo europeo (v. oltre). In realtà pare che si trattasse d'una forma di condanna a morte, per le malattie date dalle intemperie e per inanizione.
Prima dell'esilio gli Ebrei non conoscevano la privazione della libertà personale, e le prime loro carceri furono di mera custodia per gli accusati, o per i condannati in attesa di esecuzione di pena. Si adoperò dapprima come prigione qualunque luogo da cui fosse impossibile fuggire (si ricordi la cisterna in cui fu posto Giuseppe). Si ebbero poi, insieme con queste, vere prigioni, e anche libere custodie, oltre a varie altre forme di cattività.
Prigioni orribili si sa che ebbero Assiri e Babilonesi, Persiani, Egizî, Etiopi e Fenici.
Presso i Greci il carcere, quando non era una specie di berlina, comportava l'essere rinchiusi, e, quasi sempre, posti in ceppi. I carcerati, peraltro, potevano comunicare fra loro (non risulta che ci fosse segregazione cellulare), ricevere visite, e persino uscire, dietro mallevadoria, in occasione di certe feste. Sembra poi che la sorveglianza non fosse troppo rigorosa.
Il carcere romano era per lo più un luogo tetro e fetido, dove si gettavano insieme uomini e donne, condannati e arrestati. Vi si distingueva una parte interior, priva di luce, inaccessibile al pubblico, e una parte exterior, dove i prigionieri potevano ricevere visite. Talvolta il prigioniero era gravato di ceppi (compedes), manette (manicae), catene, ecc., talaltra slegato. Il carcere pubblico (detto prima Tullianum, poi Mamertinus), edificato a Roma relativamente tardi, aveva un sotterraneo dove per lo più avveniva l'esecuzione dei condannati; tanto il sotterraneo, di forma quasi circolare, quanto la sala superiore, trapezoidale, sono assai ben conservati ai piedi del Campidoglio. La tradizione vuole che vi abbia soggiornato S. Pietro, onde nel sec. IV esso fu dedicato al culto col nome di S. Pietro in Carcere.
I Germani non conoscevano il carcere come luogo chiuso, e la privazione della libertà personale avveniva mediante i ceppi; stanziatisi essi, e poi i Franchi, in Italia, il cippus si trasfomiò in carcere, conservando il nome originario.
Costantino, dopo aver dato al cristianesimo diritto di cittadinanza con l'editto di Milano (313), prescrisse con un'ordinanza (320) un umano trattamento nelle carceri, la separazione dei sessi, l'alleggerimento delle catene, la possibilità d'aria e di moto in cortili, ecc. Provvedimenti analoghi emanarono Giustiniano e Onorio.
Negli eremi e nei monasteri nacque la segregazione cellulare, di cui si ha la prima menzione nella regola di S. Colombano. Un capitolare di Carlo Magno (780) e deliberazioni di concili ne limitarono o ne regolarono l'uso.
Tanto nel periodo feudale quanto in quelli delle signorie e dei comuni, il carcere non mutò gran che, sia nella sua struttura che nella molteplicità delle sedi a seconda delle giurisdizioni. Le prime sporadiche riforme avvengono non prima del sec. XVI, ma più come preannuncio d'un lontano futuro che come radicali trasformazioni. Scrittori come Rolandino ci hanno trasmesso descrizioni raccapriccianti delle carceri medievali; Amedeo di Savoia nel 1391 rimproverò i suoi ufficiali di Nizza per le terribili conseguenze che aveva il soggiorno in quelle carceri; i baroni di Napoli, ancora nel 1560, avevano carceri sotterranee prive di luce e d'aria, e una pragmatica emanata per ottenere una riforma non fu eseguita. Le carceri dei vescovi e dell'inquisizione non si fermarono al Medioevo ma arrivarono alla soglia dei tempi moderni: nel 1741 nella visita alle chiese di Sicilia furono denunziate le "orribili prigioni che si trovavano nei palazzi dei vescovi" (Calisse). Le più importanti furono appositamente costruite e adattate. Il Limborch (Amsterdam 1672) descrive celle superiori di dieci piedi per lato, con poca luce, e celle inferiori senza luce e ancora più piccole. In Italia queste prigioni furono chiamate segrete: tristamente famose, fra esse, quelle dei Piombi e dei Fossi veneziani, dei Forni di Monza. In Inghilterra la Torre di Londra, iniziata verso il 1078 da Guglielmo il Normanno e poi successivamente ingrandita; in Francia la Bastiglia, iniziata nel 1370, e abbattuta, com'è noto, dalla rivoluzione, il 14 luglio 1789, sono, nella storia delle carceri, anch'esse ben note e i loro nomi restano legati a ogni sorta d'orrori e di sanguinose vicende politiche.
Verso la fine del Medioevo appaiono dei sostitutivi del carcere, quali la preson cortese veneziana (prison courtoise in Francia), in cui il condannato doveva rientrare al tramonto, la galera o remo nelle galere - o pene più gravi ancora della segregazione, quali la gabbia, in cui i rei venivano esposti in permanenza, o l'immuramento.
Solo verso la fine del Settecento, dopo le famose proteste di Howard, si cominciarono a adottare sistemi più umani; si curò maggiormente, oltre che il fisico, anche il morale dei prigionieri, cercando, per quanto fosse possibile, di rieducarli e prepararli in vista dell'uscita dalla prigione. A tale scopo si istituì il lavoro in comune, si limitò la segregazione cellulare, si costruirono carceri modello. Anche oggi il problema del carcere, nei confronti delle reazioni psicofisiologiche dell'individuo, è oggetto di studî e i perfezionamenti sono, si può dire, continui.
Il carcere nel sistema penitenziario moderno. - Nel suo significato più generale il termine carcere è usato per indicare il luogo in cui vengono rinchiusi sia coloro che sono in attesa di giudizio da parte della competente autorità giudiziaria (carcere preventivo), sia coloro che debbono scontare la pena inflitta per il reato commesso e accertato. In correlazione a tale significato generico si denominano in complesso stabilimenti carcerarî tutti indistintamente gli edifici e i locali destinati ad accogliere gl'individui dei quali l'autorità dello stato sopprime, a scopo preventivo o a scopo di pena, la libertà personale. Conseguentemente, si suole parlare di ordinamento o di sistema carcerario nel senso di attribuire al termine l'accennato significato generico. In un senso più ristretto e più corrispondente a un rigoroso criterio tecnico si distingue invece il carcere propriamente detto, destinato a custodire gli accusati e gl'imputatì durante la privazione preventiva della loro libertà personale, dal luogo di pena destinato a ritenere i condannati dopo la pronunzia del giudice. Per uno studio generale dell'ordinamento delle carceri in senso lato, dei fabbricati carcerarî, nonché degli scopi a cui la pena deve mirare, v. penitenziarî, sistemi.
La distinzione fra carcere e stabilimento di pena, alla quale si è accennato, è stata tenuta presente nella legislazione positiva italiana. Infatti, mentre il regolamento generale del 27 gennaio 1861 era diretto espressamente a disciplinare le carceri, quello invece del 13 gennaio 1862 si riferiva ai luoghi di pena. In seguito la materia dell'ordinamento carcerario e penitenziario trovò una nuova disciplina nella legge del 14 luglio 1889 e nel regolamento del 1° febbraio 1891. Il citato regolamento distingue anche gli stabilimenti di custodia preventiva dagli stabilimenti di pena. Agli stabilimenti di custodia preventiva è riservato il nome di carcere giudiziario. Agli stabilimenti di pena sono attribuite varie denominazioni: ergastoli, case di reclusione, case di arresto, ecc.
Secondo il citato regolamento le carceri giudiziarie vengono distinte in centrali, succursali e mandamentali. La destinazione principale delle carceri giudiziarie consiste nella custodia degli inquisiti ma a questa destinazione è associata quella della custodia di determinate categorie d'individui soggetti a scontare una pena. Nelle carcere giudiziarie centrali e succursali sono custoditi i condannati alla detenzione (pena che è abolita nel codice penale Rocco) o alla reclusione non superiore a mesi sei, e i condannati all'arresto. In quelle mandamentali sono custoditi i condannati alla reclusione o detenzione non superiore a mesi tre, e ugualmente i condannati all'arresto. In genere, poi, le carceri giudiziarie possono servire alla custodia: a) dei condannati a qualunque pena restrittiva in attesa dell'invio a destinazione; b) dei detenuii di passaggio; c) dei detenuti temporaneamente a disposizione dell'autorità di pubblica sicurezza o di altra autorità.
Nel carcere giudiziario è prescritta la segregazione cellulare continua per gl'inquisiti. Previo assenso della competente autorità è concessa agli accusati la facoltà del lavoro in comune durante il giorno sotto la sorveglianza degli agenti, rimanendo ferma la segregazione notturna. Per i condannati nei cui riguardi pende giudizio d'appello o ricorso per cassazione è prescritta la segregazione notturna con la comunione diurna; questo trattamento viene anche applicato ai condannati a non più di quindici anni in attesa di destinazione. Nelle carceri giudiziarie sono anche disposte celle arredate in modo speciale, destinate agl'inquisiti che intendono mantenersi a loro spese, rimanendo fermi, in tal caso, gli obblighi generali della disciplina carceraria.
Il carcere nel sistema delle pene. - Anche nel sistema delle pene stabilite dalla legge il termine carcere può essere usato in senso tecnico con una precisa significazione.
In Italia, prima dell'unificazione della legge penale compiuta col codice del 1890, la pena del carcere era contemplata dai due codici in vigore nel regno, cioè il sardo e il toscano. Il codice sardo considerava la pena del carcere come la prima fra le pene correzionali (art. 26), la quale quindi, per rigore, era intermedia fra le pene criminali e le pene di polizia. La durata del carcere, che veniva espiato in una casa di correzione, andava da un minimo di giorni sei a un massimo di anni cinque; entro questi limiti la durata della pena era distinta in sei gradi, e cioè da sei giorni a un mese, da un mese a tre, da tre a sei, da sei mesi a un anno, da un anno a tre anni, da tre anni a cinque (art. 56). Uguale carattere aveva nel codice toscano la pena del carcere; la durata di essa era fissata da un minimo di un giorno a un massimo di sei anni, salvo il caso di concorso di pene per cui il massimo era portato a otto anni. La detta durata, fino a tre mesi era divisa a giorni, da tre mesi a tre anni a mesi, da tre anni in poi a trimestri. Fino a tre mesi la pena del carcere si espiava nelle prigioni pretoriali, oltre a tale termine nelle prigioni centrali.
Nella legislazione generale del regno il termine carcere fu successivamente usato nel codice di commercio, che all'art. 861 commina appunto il carcere da sei mesi a due anni per i reati di bancarotta semplice. Le norme di attuazione del codice penale unico emanate col r. decr. 1° dicembre 1889, stabilirono infine che al carcere corrispondesse la detenzione fino a cinque anni, e anche la reclusione per uguale durata ove si facesse richiamo del carcere non come pena da applicare, ma per qualunque effetto giuridico. Prescrissero poi che al carcere corrispondesse l'arresto non inferiore a sei giorni nel caso che il reato fosse, per il suo carattere, una contravvenzione (art. 22).
Nel diritto penale militare tuttora vigente il termine carcere rimane a indicare una determinata pena fra quelle che possono essere pronunziate senza che il condannato diventi indegno di appartenere alla milizia. Nel sistema di queste pene il carcere è collocato al terzo posto, dopo la morte col mezzo della fucilazione nel petto e la reclusione militare, e prima della dimissione (cod. pen. militare esercito, art. 20; cod. pen. militare marina, art. 19). Nel suo ordinamento e nel suo regime il carcere militare non differisce sostanzialmente dalla reclusione. Nella durata il carcere militare va da un minimo di due mesi a un massimo di quattro anni, ed entro questi estremi è graduato da due mesi a quattro, da quattro a sei, da sei a nove, da nove a dodici. In nessun grado la pena del carcere può essere applicata a giorni.
La pena del carcere militare non superiore a quattro mesi si sconta dagl'individui di bassa forza nelle carceri militari preventive, o nelle sezioni militari delle carceri giudiziarie locali, dove non esistono carceri militari. I condannati per un tempo superiore sono raccolti in uno speciale carcere militare. I militari imbarcati su regie navi all'estero, condannati al carcere militare dai consigli di guerra o sommarî di bordo, possono, se la pena non superi i quattro mesi, scontare sulla nave la pena stessa (reg. disc. mar., art. 209). Gli ufficiali condannati al carcere scontano la pena in locali diversi da quelli destinati ai soldati (cod. pen. mil. esercito, art. 12; cod. pen. mil. marina. art. 11), e, quando la pena non superi i due mesi, presso il corpo al quale appartengono o sono aggregati, sentito in proposito il parere dell'avvocato generale militare (regolamento stabilimenti militari di pena, par. 342, 433). Alla pena del carcere militare sono connesse le pene accessorie della sospensione per gli ufficiali, e della rimozione dal grado per i sottufficiali e caporali. La sospensione priva temporaneamente l'ufficiale dall'impiego, producendo la perdita totale dello stipendio e delle altre competenze, oltre tutte le altre conseguenze previste dalla legge sullo stato giuridico degli ufficiali. La rimozione fa discendere il sottufficiale o il caporale a semplice soldato (cod. pen. mil. esercito, art. 16, cod. pen. mil. marina, art. 15).
Carcere privato come forma di reato. - Gli antichi criminalisti raffiguravano l'ipotesi della detenzione d'un uomo contro la sua volontà, posta in essere da un privato con l'intendimento di esercitare giustizia sull'uomo rinchiuso, cioè d'infliggere a costui una punizione per un delitto che si ritenga da lui commesso. In tal senso il concetto del carcere privato fu accolto anche dal Carrara, che collocò infatti (pur avvertendo la rarità dell'ipotesi) il reato così configurato fra quelli che hanno per oggetto la pubblica giustizia (carcere privato proprio). Quando, poi, l'arbitraria detenzione fosse commessa per un fine diverso (odio, lucro, ecc.), sarebbe da configurare diversamente il reato, collocandolo quindi fra quelli contro la libertà individuale (carcere privato improprio). A questa dottrina s'ispirarono il codice francese (art. 341), e, tra noi, il codice sardo (art. 199) e il codice toscano (art. 360). Un diverso concetto prevalse invece in Germania, dove, sia nella dottrina sia nella legislazione, fu chiaramente riguardata la privazione della libertà (Freiheitsberaubung) come il vero e proprio oggetto del reato. A tal giusto concetto s'ispirano le legislazioni vigenti. Il codice italiano del 1890 (art. 146) e il progetto di nuovo codice penale (art. 613) contemplano il reato fra quelli contro la libertà personale, punendolo rispettivamente con la reclusione da un mese a cinque anni e da sei mesi a otto anni; sono stabilite inoltre aggravanti in caso che il delitto sia commesso: a) in danno di un ascendente, di un discendente o del coniuge; b) da un pubblico ufficiale con abuso dei poteri inerenti alle sue funzioni.
Bibl.: Anche per la bibliografia si rimanda alla voce penitenziarî, sistemi. Per la materia qui esposta: C. Damiani, Carcere, Carc. giudiziario, Carcere militare, Carcere privato, in Enciclopedia giuridica italiana, III, parte 1ª, sez. 2ª, Milano 1903; P. Vico, Diritto penale militare, in Enciclop. del diritto penale ital., IX, Milano 1908; F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale, II, Lucca 1879; V, Lucca 1881.