CARBONIO (dal lat. carbo; fr. carbone; sp. carbono; ted. Kohlenstoff; ingl. carbon)
Peso atomico 12; numero atomico 6. Il carbonio è l'elemento contenuto nelle varie specie di carboni; si trova puro in natura come diamante e come grafite; esiste, combinato, nell'anidride carbonica dell'aria e nelle rocce calcariche, ed è uno fra i componenti essenziali degli organismi viventi.
Il diamante è la forma più pura del carbonio. Si presenta in-cristalli del sistema monometrico (fig. 1), delle cui proprietà, giacimenti, usi, ecc. è detto altrove. Ne ricordiamo solo la grande durezza, il piccolissimo coefficiente di dilatazione lineare (circa 1,2 milionesimi per 1°) e il basso valore del calore atomico (prodotto del calore specifico per il peso atomico). Questo infatti, secondo la legge di Dulong e Petit, si aggira intorno a 6,4 per la massima parte dei corpi semplici a temperatura ordinaria, mentre è solo 1,42 per il diamante. Inoltre esso varia assai con la temperatura, come mostra la tabella (linea d) dove, per confronto, sono riportati i valori per la grafite (g) e per il carbone amorfo (e).
La teoria quantistica dello stato solido attribuisce questo comportamento a intense attrazioni fra gli atomi, che si rivelano qui nell'enorme refrattatietà di tutte le forme del carbonio.
Il diamante resiste inalterato a temperature molto elevate: verso 2000°, e rapidamente nell'arco elettrico, si converte in grafite. A temperatura ordinaria nessun reattivo lo intacca; verso 800° brucia nell'ossigeno (gl'italiani Averani e Targioni furono i primi, nel sec. XVII, a bruciare il diamante all'aria, nel fuoco di una grossa lente): nel gas fluoro il più attivo degli elementi, brucia con vivacità solo a 700° (la grafite a 500°: il carbone a temperatura ordinaria).
La grafite, seconda modificazione allotropica del carbonio, si presenta in natura in ammassi o strati sottili (più o meno inquinati da sostanze terrose), facilmente sfaldabili in laminette cristalline a contorno esagonale, di sistema romboedrico, di tipico colore e lucentezza metallica, molto tenera (il suo nome, dal greco γράϕω "scrivo", allude al suo uso per scrivere sulla carta: ma lo si dava a tutti i minerali scuri e teneri). Ha un peso specifico di 2,26, e calore atomico un po' superiore al diamante. La grafite ha una conducibilità elettrica abbastanza elevata (350 mho-cm. a temperatura ordinaria), che cresce col salire della temperatura. Invece il diamante è isolante, e tale diversità sta in relazione con la rispettiva opacità e trasparenza, come insegna la teoria elettromagnetica della luce.
La grafite è la sostanza più refrattaria che si conosca; essa evapora solo alla temperatura dell'arco elettrico (dal polo positivo depositandosi sul negativo, meno caldo) ed è cosa discussa se si sia arrivati a fonderla. Tuttavia, secondo gli studî più recenti, si ammette 500° come temperatura di fusione, e 5500° di ebollizione; si ritiene pure che il vapore di carbonio consti di atomi liberi (e non di molecole poliatomiche); ipotesi, in verità, quasi altrettanto difficile a sostenere quanto a confutare.
Chimicamente la grafite è più reagibile del diamante, ma la differenza tipica sta nel fatto che è attaccabile anche per via umida. Infatti per ossidazione cautamente condotta con miscela di acidi nitrico, solforico, clorato di potassio, si ottiene una sostanza giallastra o verdastra, insolubile in acqua, l'acido grafitico, di formula greggia C11H4O5, ma di costituzione ignota. Insieme ad esso si forma acido mellitico,
nella cui struttura è parzialmente conservato l'ordinamento esagonale degli atomi di carbonio della grafite (v. ciristallografia).
La grafite costituisce la forma del carbonio più stabile, e perciò la sua produzione artificiale è facile, inquantoché qualunque carbone, scaldato sufficientemente, finisce col perdere le piccole quantità di elementi organogeni (idrogeno, ossigeno, azoto) che non mancano in nessuno, e col diventare grafite. In generale però si traversa uno stato intemedio, dove si formano carboni molto duri (p. es., il carbone di storta) e la conversione è facile e sicura solo oltre i 2000°. Industrialmente si usa il metodo Acheson, secondo cui si fanno passare correnti intensissime (da 1500 ampère crescono sino a 9000) attraverso lunghe fosse (fino a 9 metri) ripiene di coke e pece mescolati con ossido di ferro e silice (fig. 2). Questi facilitano la grafitizzazione, dando anzittutto carburi (Fe3C, SiC) che col salire della temperatura si dissociano e lasciano grafite, mentre il silicio e il ferro si volatilizzano, per ricondensarsi (come carburi) nelle parti periferiche. Tale grafite è perciò assai più pura del materiale originale. La grafite serve, oltre che per i lapis (dove è mescolata per macinazione e successivo arroventamnento con varie proporzioni di sostanze terrose, per ottenere le volute durezze), in elettrotecnica, dove ha larghe applicazioni per la sua refrattarietà, conducibilità e scarsa attaccabilità (carboni per lampade ad arco ed elettrodi per forni elettrici e per elettrolisi di soluzioni saline) a fare crogioli refrattarî (impastata con un po' d'argilla, che fondendo alla superficie la difende da un'ossidazione troppo rapida), come lubrificante, in polvere finissima, per la sua tenerezza untuosa, ecc.
Carbonio amorfo. - Oltre le due forme cristallizzate sopra vedute, i chimici hanno sempre ammesso l'esistenza di un carbonio amorfo che si ritroverebbe nelle varie specie di carbone. Per tale ammissione essi si basavano, oltre che sull'aspetto, sulla molto maggiore ossidabilità e reagibilità in genere di quei carboni, essendo regola generale che una sostanza amorfa, dove le molecole sono distribuite irregolarmente, si disgrega più facilmente che una ben cristallizzata. Si credette dovere abbandonare questa opinione dopo i primi risultati ottenuti esaminando la struttura di qualche carbone mediante l'aiuto dei raggi X, che rivelarono le linee caratteristiche della grafite: si concluse dunque che in tutti i carboni esistesse la grafite, se pure allo stato di grande suddivisione. (Ricordiamo che facendo passare un sottile fascio di raggi X attraverso una polvere di minuti cristalli, e perciò anche attraverso una sostanza a struttura microcristallina, si osserva, con adatto dispositivo fotografico, una serie di cerchi col centro sull'asse del raggio originale, dalle cui distanze e intensità relative si può dedurre il sistema cristallino della sostanza, mentre quelle veramente amorfe dànno solamente un'ombra diffusa). Ma ricerche ulteriori, più estese, hanno mostrato che in molti carboni l'intensità delle linee della grafite è relativamente assai piccola, tanto da potersi ritenere accidentale, prevalendo invece l'ombra diffusa. Si veda la fig. 3, dove il numero 1 si riferisce a un carbone amorfo, il 2 a una tipica grafite. L'esistenza del carbonio amorfo risulterebbe così dimostrata.
Caratteristica del carbonio amorfo così definito è la sua capacità di assorbire i gas e molte sostanze, che estrae per tal modo dalle loro soluzioni (v. Carboni assorbenti in carbone); proprietà che si fa dipendere dalla disposizione irregolare degli atomi, per cui quelli situati alla superficie libera (includendovi, naturalmente i numerosissimi pori) resterebbero con valenze non saturate e quindi capaci di unirsi con molecole estranee. Invece nella grafite (e nei carboni grafitizzati, come il coke, ecc.), dove le valenze sono mutualmente saturate nel reticolo cristallino, il potere assorbente manca.
Tipico fra i carboni amorfi è il nerofumo, che risulta dalla combustione incompleta (con fiamma fuligginosa) di sostanze ricche di carbonio, pece, olî, resine (fig. 4) o anche, in America, del gas naturale, ricco di metano e altri idrocarburi; data la sua formazione, contiene ancora fino al 20% delle sostanze originali, da cui può liberarsi per calcinazione in vasi chiusi, che finisce di carbonizzarle, o, per scopi scientifici, mediante lavaggi con benzolo ed etere. Particolarmente puro è quello che si ottiene decomponendo con scintille elettriche l'acetilene compresso a 2-3 atmosfere (C2H2 = 2C+H2), ricavandone anche idrogeno che si può utilizzare. Di peso specifico fra 1,78 e 1,87, facilmente combustibile, ha un tipico color nero opaco cui deve il suo uso per l'inchiostro di China, tipografico, cera da scarpe, ecc. Mescolato al caucciù prima della vulcanizzazione ne aumenta assai la resistenza al consumo (copertoni di pneumatici, soprascarpe, ecc.).
Il valore esatto del peso atomico del carbonio 12, o0 (essendo imprecisabili i decimali ulteriori) è stato dedotto dal rapporto fra il peso della grafite pura o del diamante e quello dell'anidride carbonica ottenuta, attribuendo a questa la formula CO2 (con O2 = 32), e dal rapporto fra le densità gassose (che corrette per le deviazioni dalle leggi dei gas perfetti devono stare fra loro come i pesi molecolari) di O2, CO, CO2, C2H2, considerando noti i pesi atomici O, H.
Il Carbonio appartiene al IV gruppo, 1° periodo, del sistema di Mendeleieff, dove occupa una posizione intermedia fra i metalli elettropositivi, come il litio e il berillio, e i metalloidi tipici, come l'ossigeno e il fluoro: ciò gli dà un carattere di transizione, per il quale esso si unisce con affinità non molto disuguali con metalloidi quali azoto e ossigeno, cloro e idrogeno. Inoltre, in relazione al gruppo che occupa; il carbonio dispone di quattro valenze, e con ognuna di queste può unirsi a una valenza di un altro atomo, mono o polivalente (o atomi dello stesso carbonio) secondo tipi svariatissimi. Gli atomi del carbonio, esempio unico in tutta la chimica, possono concatenarsi fra loro, o per interposizione di atomi di altri elementi, in numero illimitato; e se a questa proprietà si aggiunge l'inerzia con cui questi legami si mantengono e che si manifesta con la maggior evidenza nella inattività a temperature basse delle varie forme del carbonio, dove non sono che atomi di questo elemento uniti fra loro, si comprende l'enorme numero di composti del carbonio, e l'importanza fondamentale di questo elemento per la costituzione degli esseri viventi, al cui metabolismo son necessarî composti delle proprietà più svariate, eppure tutti ottenibili dai medesimi pochi elementi.
Anidride carbonica: CO2. - Essa è il composto più ossigenato del carbonio, e si forma nella combustione viva di qualunque sostanza organica o carbone (C + O2 = CO2). Se ne produce pure nella decomposizione all'aria delle sostanze organiche per opera dei microrganismi; e merita speciale menzione la fermentazione dello zucchero di uva con formazione di alcool (C6H12O6 = 2C2H6O + 2CO2). Essa si svolge pure dal suolo, specialmente nelle regioni vulcaniche (Pozzuoli, Grotta del cane, ecc.), e in alcuni luoghi in tali quantità che conviene captarla per comprimerla e venderla liquefatta: così, in Italia, a Pergine (Arezzo) e a S. Romano (Pisa). Nell'aria libera è contenuta in ragione di circa il 3 per 10.000 in volume (e naturalmente in maggior quantità in locali abitati e mal ventilati). Viene pure emessa nella respirazione degli animali e delle piante (da non confondere, questa, con la funzione clorofilliana di cui più oltre) come termine ultimo delle ossidazioni biologiche. Se ne trova pure nelle acque del mare e dei fiumi, principalmente combinata in bicarbonato di calcio, e anche libera in molte acque minerali (acidule). Combinata con ossidi metallici forma molti minerali, e soprattutto calcari, marmi (CaCO3) e dolomiti (CaCO3, MgCO3) che costituiscono grandiose formazioni geologiche.
L'anidride carbonica ha una parte essenziale nel ciclo della vita organica sulla terra, perché sotto l'azione della luce solare la clorofilla delle piante verdi la converte in amido con liberazione di ossigeno (secondo l'equazione greggia 6CO2 + 3H2O = C6H10O5 + 602) da cui, con reazioni ancora in gran parte sconosciute, si originano le altre sostanze componenti delle piante, e quindi degli animali. Con la morte di questi organismi i loro tessuti si putrefanno e subiscono una graduale ossidazione fino a CO2 che torna nell'aria. Così, attraverso la riduzione di CO2, si accumula nelle piante una piccola parte dell'energia che il sole versa sulla terra, e si rende possibile il fenomeno della vita, che, specie negli animali è costituito da una graduale dissipazione di questa energia.
I grandiosi giacimenti di carbon fossile (stimati a 3.1012 tonnellate) rappresentano un accumulo di energia solare delle precedenti epoche geologiche, quando l'atmosfera era assai più ricca di CO2 che non adesso. Oggi si ammette che il carbonio esistente negli esseri viventi corrisponda a circa la metà di quello della CO2 atmosferica: si tratta dunque di una circolazione rapida. Il carbonio infatti è relativamente scarso, perché fra rocce calcari, esseri viventi, combustibili e anidride carbonica dell'aria e dei mari si calcola al solo o,29% della crosta terrestre (limitata a uno spessore di 10 km, oltre cui non vanno le nostre induzioni).
Nei laboratorî l'anidride carbonica si ottiene in piccolo dall'azione dell'acido cloridrico sul marmo (CaCo3 + 2HCl = CaCl2 + H2O + CO2), mentre per quantità maggiori si usa quella liquefatta in bombe del commercio. Essa è un gas incoloro, più denso dell'aria (1,529 se l'aria è posta1: un litro a O° e 760 mm. pesa g. 1,977), e perciò si accumula nei luoghi bassi, spostandone l'aria; e poiché non può mantenere la respirazione è necessario, che chi entra in cantine chiuse, pozzi, ecc., prima saggi l'aria con una candela accesa. Essa è facilmente solubile nell'acqua (in un volume di questa 1,8 volumi a O° e 1 a 15°); i medesimi rapporti si mantengono a pressioni superiori (legge di Henry); e poiché il peso di gas contenuto in un dato volume è proporzionale alla pressione (legge di Boyle), così l'acqua satura di CO2 sotto 2-3 atmosfere (per es. nei sifoni di acqua di selz) ne contiene un relativo eccesso che sfugge a pressione ordinaria.
In queste soluzioni una parte della CO2 è combinata come H2CO3, o acido carbonico, a cui è dovuto il loro sapore debolmente acido; ma oggi si ritiene che esso sia un acido abbastanza forte, in gran parte scisso negli ioni HCO3′ e H., e che la scarsa acidità delle sue soluzioni sia dovuta al fatto che il più della CO2 vi rimane come tale. Comunque, l'acido carbonico, sempre presente nell'acqua di pioggia che lo prende dall'atmosfera, ha una grande importanza nell'economia della natura, dove costituisce l'acido per eccellenza, debole, ma continuamente attivo. Così si spiega la corrosione dei calcari, che vengono sciolti come bicarbonato di calcio (CaCO3 + CO2 + H2O = Ca(CO3H2) (fenomeni carsici, degradazione delle montagne dolomitiche), e viceversa la formazione dei nuovi depositi (come il travertino del Lazio) quando, l'anidride carbonica evaporando, la reazione va nel senso inverso; si spiega pure la graduale eliminazione di potassa come carbonato dai feldspati (KAlSi3O8), che passano a silicato di alluminio (árgilla o caolino)
A seconda che son sostituiti i due atomi di idrogeno, ovvero uno solo, l'acido carbonico forma i carbonati neutri (e, tranne gli alcalini, tutti insolubili) e i bicarbonati, solubili, ma facilmente dissociabili. Il . calcio ce ne ha fornito sopra un esempio. Perciò le soluzioni di soda o potassa caustica servono nei laboratorî per depurare dalla CO2 altri gas, mentre per assorbirla nei locali sospetti si usa il latte di calce, sospensione dell'idrossido Ca (OH)2; e soluzioni sature di questo, o di idrossido di bario, più solubile, servono a riconoscere l'anidride carbonica, al cui contatto s'intorbidano. L'anidride carbonica può liquefarsi sotto pressione, purché al disotto di 31°,2 che è la temperatura critica (la pressione corrispondente essendo 73 atmosfere). Ecco alcune pressioni di liquefazione, identiche, naturalmente, alle tensioni del vapore saturo (in atmosfere)
Oggi l'anidride carbonica si vende liquefatta in bombe di acciaio provate a 190 atmosfere. Il suo peso specifico diminuisce rapidamente col salire della temperatura, essendo 1,03 a −20°; 0,91 a 0°; 0,766 a 20°; 0,60 a 30°; e si ridure a 0,464 alla temperatura critica. Il liquido è dunque molto dilatabile, ed è perciò che le bombe debbono essere riempite solo per 4/10, e che occorre evitare di tenerle al sole o in luoghi caldi. Al punto di solidificazione (-56,4) la tensione di vapore è ancora 5, 1 atm., e quindi non è possibile conservare la CO2 liquida alla pressione atmosferica, nemmeno in recipienti isolanti. Aprendo il robinetto delle bombe capovolte il liquido si gassifica in parte, raffreddando il resto, per il calore latente assorbito, fino a −79°, temperatura a cui l'anidride carbonica solida ha la tensione di 1 atmosfera. Essa si presenta così sotto forma di neve, che evapora lentamente, e, sospesa in un liquido non congelabile (alcool, acetone, etere) che facilita lo scambio di calore, dà un modo semplice ed economico per avere bagni verso −80°.
Ossido di carbonio: CO. - È uno dei pochissimi composti in cui questo elemento non mostra la solita valenza 4, la sua formula scrivendosi abitualmente C=O. Esso si forma per riduzione dell'anidride carbonica su carbone al calor rosso (C + CO2 = 2CO) e quindi anche quando il carbone arde con quantità insufficiente di aria: ovvero per riduzione di ossidi metallici mescolati con carbone (per lo zinco: ZnO + C = Zn + CO). Particolarmente interessante è la reazione col vapore acqueo al rosso (C + H2O = CO + H2), con cui dal carbone solido si passa a una miscela di due gas combustibili (gas all'acqua). Nei laboratorî il CO si ottiene facendo gocciolare acido formico sull'acido solforico concentrato a 80°, che gli sottrae gli elementi dell'acqua, di cui è avido (H2CO2 = H2O + CO), ovvero scaldando con acido solforico l'acido ossalico che dà anche anidride carbonica (H2C2O4 = H2O + CO + CO2) che si assorbe con potassa caustica.
È un gas incoloro, un po' più leggiero dell'aria (densità 0,967: un litro a o° e 760 mm. pesa g. 1,2506), poco solubile in acqua, in relazione alla sua difficile liquefacibilità (temperatura critica -140°, pressione 35,7 atmosfere). È un gas estremamente velenoso (già un litro ogni 2000 di aria può riuscire mortale per un soggiorno un po' prolungato), perché, addizionandosi in unione relativamente stabile con l'emoglobina del sangue, la rende incapace di adempiere la sua funzione di assorbire l'ossigeno nei polmoni e trasportarlo per l'organismo. Esso determina anche variazioni caratteristiche nello spettro dell'emoglobina, e per mezzo di essa lo si può riconoscere. Alla sua natura di composto non saturo, tendendo a tornare tetravalente, il CO deve le sue reazioni. Così, con alcuni metalli finemente divisi (nichel, ferro ed altri), per riscaldamento moderato dà singolari composti, i metallocarbonili; p. es: Ni (CO)4. E si addiziona pure a varî sali metallici, fra cui tipico il cloruro ramoso, la cui soluzione in acido cloridrico assorbe CO, dando il composto cristallizzabile Cu2Cl2, CO, 2H2O; reazione che si utilizza per separare CO da una miscela gassosa (p. es., nel gas illuminante). Così pure si combina con potassa o soda caustica oltre 130° per dare formiato alcalino (CO + NaOH = H. CO. ONa). La sua tendenza a dare l'ossido più ricco non si manifesta quasi a temperatura ordinaria, dove solo riduce l'acetato palladoso con coloiazione nera (reazione sensibile), ma già a 150° riduce rapidamente l'anidride iodica J2O5 con liberazione di iodio facilmente riconoscibile, e verso 650° s'infiamma all'aria con fiamma azzurra, poco luminosa. La combustione è facile solo in presenza di vapor acqueo; con gas ben secchi è difficilissima. Si ritiene che ciò sia dovuto alle due reazioni intermedie: CO + H2O = CO2 + [H2; 2H2 + O2 = 2H2O ecc., che sarebbero più rapide della diretta 2CO + O2 = 2CO2.
Termochimica degli ossidi di carbonio. - Il calore sviluppato da un grammo-atomo di carbonio (12 g.) quando brucia con formazione di CO2 è diverso a seconda della modificazione allotropica. Secondo le misure più recenti, la grafite svolge 93.980 piccole calorie (ciò che si suole indicare con C + O2 = CO2 + 93.980 (I), il diamante 94.480, il carbone amorfo circa 97.300 (dati riferiti sempre al caso che si parta da carbonio e ossigeno a temperatura ordinaria, e che a questa si riconduca pure l'anidride carbonica formata); cifre da cui si deduce che il diamante è più ricco di energia della grafite, e il carbone amorfo più di ambedue, e si conclude, con l'aiuto della termodinamica, che la grafite dev'essere la forma più stabile. Invece per la combustione dell'ossido di carbonio si ha CO + 1/2O2 = CO2 + 67.700 cal. (II), da cui si deduce per la formazione del CO dalla grafite C + 1/2. O2 + CO + 26.280 cal. (III). Questo non corrisponde al comportamento degli altri elementi, che in genere si uniscono col primo atomo di ossigeno con maggiore sviluppo di calore dei successivi; ma si giustifica considerando che per unirsi col primo atomo di ossigeno ogni atomo di carbonio deve liberarsi dalle attrazioni fortissime degli atomi contigui, ciò che implica un forte assorbimento di calore, valutato oggi a 287.000 calorie per ogni grammo-atomo. Se quindi il CO si potesse formare da carbonio gassoso (supposto monoatomico) e ossigeno ordinario, si svilupperebbero 287.000 + 26.280 = 313.280 calorie, e cioè molto più di quanto corrisponde all'ossidazione ulteriore. Dai valori precedenti si possono dedurre altre conclusioni interessanti. Così sottraendo la III dalla II si ha 2CO = C + CO2 + 41.420, ossia l'ossido di carbonio si trasforma con forte sviluppo di calore in anidride carbonica e carbonio, cioè è instabile rispetto a questi due.
Effettivamente si trova che a temperature sotto 500° e in presenza di catalizzatori (ferro, nichel) necessarî per vincere l'inerzia chimica a cui l'ossido di carbonio, come tanti altri composti, deve la sua esistenza a temperatura ordinaria, esso subisce in gran parte questa decomposizione, ma col salire della temperatura essa ha luogo per un ammontate sempre minore, tanto che oltre 800° il CO2 passando sul carbone rovente si converte invece per la massima parte in CO. In altre parole, detta reazione porta ad un equilibrio fra le sostanze partecipanti, che a temperatura elevata è favorevole al CO, a bassa al CO2. La termodinamica mostra che ciò è dovuto al fatto che la reazione C + CO2 = 2CO ha luogo con aumento nel numero di molecole gassose; è cioè, in senso largo, una dissociazione, e le dissociazioni finiscono sempre con l'essere favorite dalle temperature elevate. Anche le riduzioni di ossidi metallici (p. es., ZnO + C = Zn + CO − 56.400) si possono assimilare a dissociazioni, e quindi a temperatura elevata si compiono, anche se a temperatura ordinaria sono endotermiche. È perciò alla volatilità del suo ossido che il carbonio deve il suo potere riducente e il suo immenso valore in metallurgia.
Sottossido di carbonio: C3O2. - Il carbonio dà con l'ossigeno un composto ancora meno ricco di questo elemento, ma che non si può ottenere, come gli altri due, per sintesi diretta, e ha gia un carattere tipicamente organico. Per riscaldamento con anidride fosforica (che ha un'enorme affinità per l'acqua) dell'acido malonico
se ne elimina 2H2O e si ottiene il composto C3O2 cui si attribuisce la struttura O=C=C=C=O, liquido incoloro che bolle verso 47°, mobile, di odore pungente, che con acqua rigenera immediatamente acido malonico, e col tempo, più facilmente a caldo, si polimerizza gradualmente in sostanze rosso cupo, poi brune.
Ossicloruro di carbonio: COCl2. - Le valenze n0n sature del CO si manifestano anche nel suo comportamento verso il cloro, con cui dà un composto di addizione
per l'azione catalitica della luce solare, secondo Davy, che perciò gli diede il nome di fosgene, o a contatto del carbone verso 200° (Paternò). Tuttavia esso non è molto stabile, e verso 600° si dissocia nei costituenti. Esso è un gas di odore speciale, irritante e tossico, che a +8° si converte in un liquido incoloro, del peso specifico 1,426 a 0°. Con l'acqua forma anidride carbonica e acido cloridrico secondo l'equazione COCl2 + H2O = CO2 + 2HCl, dove cooperano l'affinità dell'ossido di carbonio per l'ossigeno e quella del cloro per l'idrogeno. Analogamente reagisce con molte sostanze organiche e perciò è assai usato per le sintesi organiche.
Solfuro di carbonio: CS2. - Facendo passare i vapori di zolfo sul carbone di legna al rosso ha luogo la reazione C + S2 = CS2, e si forma solfuro di carbonio (fig. 5), sostanza endotermica, cioè non stabile, che, come insegna la termodinamica, acquista stabilità a temperatura elevata e si mantiene a temperatura ordinaria per la solita inerzia chimica. È un liquido trasparente, incoloro, di odore non sgradevole se puro, insolubile in acqua, miscibile con molti liquidi organici (alcool, etere, benzolo, cloroformio, ecc.), di peso specifico 1,26 a 20°, che bolle a 46°,3 e solidifica a −109°, dotato di forte potere rifrangente (n = 1,63 per la luce del sodio) come in genere i composti organici solforati. Contenendo due elementi facilmente combustibili è infiammabilissimo (si usa fare l'esperienza di accenderne i vapori col bulbo di un termometro riscaldato a 250°) e la sua volatilità lo rende particolarmente pericoloso. Si può però estinguerlo versandovi sopra molta acqua, che essendo più leggiera lo ricopre. I suoi vapori hanno azione tossica, che interessa specialmente il sistema nervoso. Esso scioglie molte sostanze, fra cui gli elementi iodio, fosforo, zolfo (assai bene) e fra le organiche caucciù e oli, per la cui estrazione dalle sanse fu un tempo usato. Oggi è stato sostituito da solventi meno pericolosi.
Ossisolfuro di carbonio: COS. - Si può considerare come il composto di addizione fra ossido di carbonio e zolfo, dalla cui miscela si può ottenerlo, con scarso rendimento, al rosso. Più comodo è il trattare il solfocianato di potassio KCNS con acido solforico al 66%. Si libera l'acido solfocianico, che in quelle condizioni reagendo con acqua dà ossisolfuro di carbonio e ammoniaca (HCNS + H2O = NH2 + COS). È un gas inodoro se puro, tossico, facilmente infiammabile, che si liquefà a −50°, si dissocia a temperatura elevata in CO e zolfo e parzialmente si trasforma nella miscela equivalente CO2 + CS2. Con l'acqua reagisce lentamente dando idrogeno solforato (COS + + H2O = CO2 + HS2).
Tetracloruro di carbonio: CCl4. - In questo composto la tetravalenza del carbonio risulta evidente. Non si può avere per unione diretta degli elementi, ma si ha facendo agire sul solfuro il cloro, che ne clorura ambedue gli elementi: (CS2 + 3Cl2 = CCl4 + S2Cl2); poi si separa per distillazione frazionata il cloruro di carbonio da quello di zolfo, meno volatile. È un liquido incoloro, di peso specifico 1,59 a temperatura ordinaria, che bolle a 76°,7 e solidifica a −23°, incapace d'infiammarsi; è insolubile in acqua, scioglie bene le resine e i grassi, e viene usato nell'industria.
Cianogeno: C2N2. - Questo composto non si ottiene che in quantità minima per sintesi nell'arco elettrico, ma facilmente per riscaldamento del cianuro mercurico Hg(CN)2, che si scinde in mercurio e cianogeno (con parziale polimerizzazione di questo a paracianogeno). La sua formula di costituzione è N⊄C−C⊄N, ed è un gas incoloro, di odore irritante, velenoso, che si liquefà a −21° e brucia con fiamma color fiore di pesco. Esso è endotermico (assorbendosi nella sua formazione 71 .500 calorie per un gr. molecola) e perciò poco stabile, potendo decomporsi sotto l'azione delle scintille elettriche. Poiché nella sua molecola azoto e carbonio devono considerarsi legati con tre valenze, e cioè due più di quell'una strettamente necessaria, esso tende a dare composti di addizione con le valenze disponibili. Così, addizionando gli elementi dell'acqua dà il composto C2O2N2H4, ossammide, e più facilmente si polimerizza dando paracianogeno (forse C6N6) solido, di color nero, che per riscaldamento si converte in cianogeno.
Bibl.: Oltre i soliti trattati di chimica generale v. H. Le Chatelier, Leçons sur le carbone, la combustion et les lois chimiques, Parigi 1926; per quanto concerne il carbone amorfo v. O. Ruff, Zeitschr. f. anorg. Chemie (1925); Zeitschr. für angew. Chemie (1925); Kolloid-Zeitschrfit (1925).
Tossicologia. - Di particolare importanza pratica, dal punto di vista tossicologico, sono l'anidride carbonica e l'ossido di carbonio.
Avvelenamento da anidride carbonica. - I casi più frequenti di questo avvelenamento avvengono nelle distillerie e in tutti i locali dove si svolgono fermentazioni con notevole produzione di anidride carbonica (cantine, ecc.).
A seconda della quantità proporzionale di anidride carbonica contenuta nell'ambiente e solo quando essa superi il 16% dell'aria respirabile, i sintomi iniziali di respiro difficoltato, della fame di ossigeno diventano quelli dell'asfissia, con cianosi cutanea e delle mucose visibili, dispnea e tachipnea, vertigini, cefalea, torpore sonnolento che giunge, per gradi, ad un coma completo. L'ammalato è bradicardico, la tensione arteriosa è pittosto elevata; profusa sudorazione e convulsioni che seguono la profonda miastenia, sono indice dell'irritazione esercitata dal tossico sui centri nervosi. La sintomatologia di asfissia esterna, provocata soltanto dalla mancanza di ossigeno, si può modificare aereando ampiamente l'ambiente, ricorrendo alla respirazione artificiale, alle trazioni ritmiche della lingua, alle inalazioni o iniezioni sottocutanee di ossigeno quando il centro del respiro tardi a riprendere la sua funzione. Revulsioni cutanee energiche, effusione di acqua ghiacciata sul tronco sono altrettanti stimoli riflessi del centro suddetto. Se del caso, si pratichino iniezioni stimolanti, cardiocinetiche.
Avvelenamento da ossido di carbonio. - L'ossido di carbonio sui fermenti, sui batterî, sugl'infusorî si è dimostrato quasi inattivo tranne che a dosi molto elevate. Anche sui semi germoglianti non esercita notevole azione, mentre invece è molto tossico per gli animali superiori quando venga inalato. La sua presenza nell'atmosfera passa spesso inavvertita e così sono frequenti gli avvelenamenti dovuti a questo gas, che è il prodotto di una combustione incompleta. L'ossido di carbonio si trova nella proporzione del 4 al 10% nel gas illuminante, dal 30 al 40% nel gas d'acqua, e si svolge dai bracieri, dalle stufe ed altri apparecchi di riscaldamento il cui funzionamento è imperfetto; è nel fumo dei sigari, nei gas delle miniere e delle gallerie ferroviarie mal ventilate (Benedicenti), ecc.
L'azione locale irritante sulle prime vie respiratorie, che era stata ammessa dal Marcacci per l'ossido di carbonio, è stata dimostrata insussistente (Benedicenti e Treves). La sua azione tossica si manifesta invece chiaramente sul sangue, che combinandosi con questo gas assume un colore rosso-ciliegio, già descritto dal Bernard. La carbossiemoglobina che così si forma è un composto stabile non riducibile dal solfuro d'ammonio (Hoppe-Seyler, 1864) che differisce dall'emoglobina anche spettroscopicamente.
L'affinità dell'emoglobina per l'ossido di carbonio è 210 volte più grande che non per l'ossigeno, così si comprende perché soggiornando per un certo tempo in un ambiente la cui atmosfera contenga anche piccole quantità di ossido di carbonio si possa produrre la morte per asfssia. Perché la fissazione dell'ossido di carbonio all'emoglobina avvenga occorre una determinata tensione di questo gas nell'atmosfera, tensione che varia, nei suoi valori, da specie a specie e da individuo a individuo e che è in rapporto con la tensione di anidride carbonica nell'aria. L'ossido di carbonio nell'uomo e negli animali superiori viene eliminato, col respiro, inalterato e la sua eliminazione segue le stesse leggi che regolano il suo assorbimento. Introdotto nell'organismo mescolato con l'ossigeno viene assai più rapidamente eliminato; l'opposto avviene se sia introdotto mescolato con l'anidride carbonica (Benedicenti).
Haldane ha veduto che animali profondamente intossicati da ossido di carbonio posti in un recipiente contenente ossigeno alla pressione di due atmosfere possono essere salvati e A. Mosso ha dimostrato che nei ratti posti in miscuglio di 50% di ossigeno e 50% di ossido di carbonio alla pressione di due atmosfere non si verificano sintomi d'intossicazione. È quindi da escludersi un'azione specifica dell'ossido di carbonio sul sistema nervoso centrale; i disturbi derivanti da questo gas (crampi, convulsioni, ecc.) sono da attribuirsi all'insufficiente ossidazione del sangue.
Facendo inalare grandi quantità di ossido di carbonio molto rapidamente si ha un arresto del cuore con manifestazioni simili a quelle che si ottengon0 per eccitamento del vago e che sono dovute all'anossiemia; un'inalazione lenta e progressiva conduce a un indebolimento dell'attività cardiaca e ad una graduale diminuzione della pressione sanguigna per paralisi dei centri vasomotori (Benedicenti e Treves).
Durante l'avvelenamento da ossido di carbonio si ha glicosuria; altri disturbi del ricambio possono pure manifestarsi. Da recenti ricerche (Warburg) pare dimostrato che l'ossido di carbonio possa paralizzare il fermento respiratorio (Atmungsferment) presente non solo nel sangue ma in tutte le cellule dell'organismo.
Nell'avvelenamento acuto l'organismo comincia ad avvertire le dosi subasfittiche con cefalea, ronzio alle orecchie, nausea, vomito. Aumentando la saturazione dell'emoglobina da parte dcl tossico si afferma la sindrome asfittica; il volto è arrossato, la pupilla midriatica; l'anestesia e la perdita della coscienza sono complete. Gravissimi sono i segni della partecipazione nervosa centrale all'avvelenamento, con tremiti diffusi che divengono spesso vere convulsioni, raffreddamento diffuso, delirio, paralisi degli sfinteri, rigidità muscolare, o paralisi generale, coma. La dispnea è intensa, la respirazione è stertorosa e poi cessa; il polso è anche qui raro e teso, dopo un periodo iniziale nel quale è frequente.
La morte è spesso preceduta da un'elevazione critica della temperatura. Non è rara l'albuminuria e la glicosuria. Il reperto necroscopico rivela nel sangue e nei tessuti una colorazione rosso-chiara dovuta alla carbossiemoglobina riconoscibile anche spettroscopicamente. Non mancano segni di emorragie e rammollimenti cerebrali a focolaio, che spiegano le paralisi, i disturbi sensoriali, le amnesie, le psicosi residuate talora dall'avvelenamento.
L'avvelenamento cronico è facile in soggetti (fuochisti, stiratrici, cuochi) esposti a quotidiane emanazioni di CO in piccola concentrazione; si rende palese soprattutto per i disordini nervosi, astenia, irritabilità, deperimento, cefalee, psicosi, e per l'anemia, facile soprattutto nelle donne giovani.
La terapia richiede anche qui una pronta ed ampia aereazione, difendendo il malato da perdite di calorico; nei casi minacciosi, respirazione artificiale, inalazioni o iniezioni d'ossigeno: salasso e fleboclisi o trasfusione sanguigna. Iniezioni d'etere, di canfora, ecc., e revulsioni cutanee sono indispensabili.
Assimilazione del carbonio.
Gli studî sulla nutrizione delle piante e sull'utilizzazione dell'anidride carbonica dell'aria per l'azione della clorofilla sono recenti.
Se si tolgono infatti alcuni tentativi di Leonardo da Vinci e poi di Van Helmont (1577-1644), occorre arrivare alla seconda metà del secolo XVIII, e precisamente alle esperienze del Priestley (1733-1804) per trovare le prime notizie sull'influenza dell'aria nella vita dei vegetali e in particolare sui rapporti fra piante ed aria fissa (anidride carbonica). "Queste esperienze" sono parole di Priestley "m'inducono a ritenere che le piante conducono ad effetti contrarî a quelli che si producono nella respirazione degli animali e che tendono a mantenere l'atmosfera dolce e salubre, allorquando essa è divenuta pericolosa in conseguenza della vita e della respirazione animale". Egli dunque stabiliva un dualismo tra animali e piante, ammettendo che i primi rendono l'aria impropria alla vita coi prodotti della respirazione e che le piante invece purificano l'aria viziata. Ma di questa importante funzione il Priestley non riuscì a precisare le condizioni. La verità da lui enunciata fu accolta perciò con molto scetticismo ed egli stesso finì col dubitarne. In seguito (1779) il Bonnet di Ginevra poté constatare lo svolgimento di bollicine gassose da parte di ramoscelli di vite tenuti sott'acqua ed esposti al sole e l'Ingenhousz, medico e fisico, oltre a confermare i risultati del Bonnet, poté stabilire che il sole non interviene come sorgente calorifera, bensì come sorgente luminosa e che lo sviluppo delle particelle gassose (aria vitale) è intimamente connesso con l'attività della sostanza verde delle piante. Egli però ritenne che l'ossigeno provenisse dalla decomposizione dell'acqua di vegetazione contenuta nei tessuti delle piante: che questa cioè sotto l'azione della luce si scindesse nei suoi componenti, fornendo ossigeno libero ed idrogeno destinato ad accrescere le sostanze organiche, specialmente quelle di più facile combustibilità, quali gli olî e le resine; e questa conclusione sembrava avvalorata dal fatto che nelle piante eziolate, cioè sottratte all'azione della luce, aveva costantemente notato abbondanza di acqua e difetto di sostanze organiche. A più importanti risultati condussero le esperienze di Giovanni Senebier (Ginevra 1782), comunicate a breve distanza da quelle dell'Ingenhousz; egli infatti riuscì a dimostrare in modo non dubbio che le piante sommerse in acqua ed esposte alla luce decompongono l'anidride carbonica disciolta nell'acqua stessa e che quando questa è esente da acido carbonico, lo sviluppo di ossigeno non ha più luogo. Conclusione non ardita se si tien conto del rigore con cui furono eseguite le esperienze, convenientemente estese allo studio dell'azione della luce solare diretta o diffusa, all'analisi dei gas che si svolgono e all'influenza anche delle luci colorate. Con prove che però egli stesso non considerò come decisive, il Senebier riconobbe infatti che i raggi rossi agiscono con maggiore efficacia che non i raggi violetti nell'indurre la decomposizione dell'acido carbonico. Tutto ciò restava dunque dimostrato per le piante sommerse. Ma nelle condizioni di vita ordinaria le piante terrestri presentano lo stesso comportamento? e cioè decompongono l'anidride carbonica dell'aria? Dell'interessante problema si occupò Teodoro De Saussure (1804). Egli adoperò delle piante di pisello, con le radici in acqua, situate sotto campane di vetro, nelle quali introduceva mescolanze ben note di aria ed anidride carbonica: alcune di queste campane erano esposte al sole, altre erano tenute nell'ombra. Il De Saussure poté constatare: che le piante insolate in ambiente di sola anidride carbonica o anche in aria atmosferica contenente 3/4 fino a 2/3 di questo gas, intristivano rapidamente; che in aria contenente metà del suo volume di anidride carbonica esse vivevano ancora per 7 giorni e poi deperivano; che in aria pura o in aria contenente 1/4, 1/8, 1/2. del suo volume di anidride carbonica esse dopo 10 giorni presentavano rispettivamente un aumento di peso di mg. 425, 265, 374, 583. In queste ultime esperienze l'anidride carbonica era stata quasi completamente decomposta e sostituita da ossigeno libero. Restava così provato che il fogliame sotto l'azione della luce decompone l'anidride carbonica dell'aria circostante; che a questa decomposizione corrisponde un aumento nel peso delle piante; che un lieve aumento di anidride carbonica rispetto al contenuto normale dell'aria atmosferica è favorevole all'attività del fogliame, ma che un aumento eccessivo nuoce alle piante. Dall'esperienze di confronto risultava inoltre che luori dell'azione della luce la decomposizione dell'anidride carbonica non ha luogo, e che l'aggiunta di piccole quantità di questo gas all'aria comune nuoce sempre alle piante tenute nell'ombra. Risultava così chiarito l'ufficio del fogliame nella nutrizione delle piante e il processn detto di assimilazione che il De Saussure volle distinto dal fenomeno della respirazione.
L'assimilazione del carbonio da parte delle piante si compie col concorso di tre fattori: l'anidride carbonica, il fogliame verde, le radiazioni solari.
L'anidride carbonica rappresenta la materia prima destinata alla elaborazione, il fogliame la macchina che opera la separazione del carbonio dall'ossigeno, la luce solare l'energia necessaria a detta operazione. L'ossigeno si svolge allo stato libero, il carbonio con gli elementi dell'acqua assume forma organica, la clorofilla o pigmento verde della pianta agisce da catalizzatore. In ultima analisi da un prodotto completamente ossigenato (anidride carbonica) e perciò incombustibile, si passa a composti meno ossigenati (materia organica combustibile); ha luogo cioè un vero processo di riduzione del quale è prova evidente lo sviluppo di ossigeno. Detto processo è di natura endotermica e la luce interviene come sorgente di energia esterna.
L'anidride carbonica è contenuta nell'atmosfera nel rapporto di 0,3‰. Essa penetra nelle foglie attraverso la pagina inferiore e procedendo verso la pagina superiore viene a contatto coi granuli clorofillici contenenti la materia clorofillacea. Questa, secondo Willstätter, non è una sostanza unica; risulta bensì costituita da due pigmenti (clorofilla A e clorofilla B), che nelle foglie si riscontrano nel rapporto di 0,36 molecole della prima per una molecola della seconda. La loro analisi elementare conduce alle formule:
sicché esse differiscono di un solo atomo di ossigeno. Ciò ha fatto supporre che lo sviluppo di questo elemento nella funzione clorofilliana potesse dipendere dalla trasformazione del composto più ossigenato (clorofilla B) nell'altro (clorofilla A); ma ciò è escluso dal fatto che il rapporto fra le due forme A e B nelle foglie verdi esposte alla luce si mantiene costante. Sui metodi di estrazione, separazione e purificazione di queste due sostanze, sui loro caratteri chimici, sui loro prodotti di demolizione si veda alla voce clorofilla.
Qui basti ricordare' che sono state ormai caratterizzate come eteri composti di due acidi policarbossilici, contenenti magnesio in combinazione organo-metallica, e di due alcoli; i primi detti rispettivamente clorofillina A e clorofillina B; i secondi rappresentati dall'alcool metilico CH3OH e dal fitolo:
Prescindendo dunque dalla costituzione del nucleo fondamentale organomagnesiaco, i due eteri sono rappresentati o dagli schemi:
nei quali i due acidi figurano come bicarbossilici, o piuttosto dagli schemi:
nei quali i due acidi figurano come tricarbossilici, ma con un carbossile in legame lattamico.
I primi prodotti del processo fotosintetico, che ha come materia prima l'anidride carbonica, in prevalenza sono di natura carboidrata e fra i carboidrati quello che comunemente si riscontra nelle foglie assimilanti è l'amido, la cui formazione può essere espressa da questa equazione:
A giudicare peraltro dalle osservazioni del Sachs e di altri sperimentatori non è ammissibile che l'amido sia il primo prodotto di questa fotosintesi clorofillica; in alcune piante, ad es., non è possihile in condizioni ordinarie constatarne la formazione, ma si può provocarne artificialmente la comparsa solo che s'intensifichi il processo assimilatorio con un conveniente aumento dell'anidride carbonica dell'ambiente. Si sa inoltre che i cloroplasti delle fancrogame in presenza di d-glucosio, d-galattosio, fruttosio, saccarosio sono in grado, già al buio, di formare dell'amido a spese delle sostanze zuccherine impiegate, che i cloroplasti di alcune piante (cariofillee, olearacee), sono capaci di utilizzare allo stesso scopo la glicerina, il galattosio, la mannite, ecc., e che le piante inferiori utilizzano nello stesso senso anche i composti aldeidici o fenolici; finalmente in alcune composite al posto dell'amido compare l'inulina.
Tutto ciò fa pensare che l'amido od anche l'inulina derivino dalla disidratazione di idrati di carbonio relativamente semplici, i quali si formerebbero nella prima fase del processo sintetico per subire in una seconda fase la disidratazione accennata. Così ad es. potrebbe aver luogo in una prima fase la formazione di glucosio:
e in una seconda fase la formazione di amido:
Il problema dei primi prodotti dell'assimilazione clorofilliana è ancora lontano dall'essere risolto, pur avendo trovato soluzioni attendibili in molte ipotesi, soprattutto in alcune più recenti fondate sulla costituzione della clorofilla.
Prima di esporle ordinatamente è bene ricordare che in ogni caso esse debbono trovarsi in armonia con un dato di fatto sul quale non esiste dubbio, che cioè nel processo fotosintetico di cui si tratta ad un certo volume di anidride carbonica assorbita corrisponde un egual volume di ossigeno emesso, e che quindi il cosiddetto quoziente clorofillico
è uguale all'unità. Questa eguaglianza dei due volumi, già affermata da Boussingault (1859) e più tardi messa in dubbio da alcuni fisiologi, fu di recente riaffermata da Maquenne e Demoussy (1913) e finalmente da Willstätter e Stoll (1915).
Ipotesi di Liebig e Ballo. - Liebig (1843) e Ballo (1889) sostennero che nell'interno della molecola clorofillica l'anidride carbonica subisce una graduale riduzione in acido formico, ossalico, tartarico, ecc., dai quali poi per successive eliminazioni di ossigeno si formerebbero zuccheri ed amido:
In realtà per molte piante ricche di succo si osserva una certa relazione fra l'ossigeno eliminato e la quantità di acidi organici da essa elaborati, e questa relazione varia sotto l'influenza della luce. Ma l'eliminazione di ossigeno ha luogo anche di notte ed è del tutto estranea al processo fotosintetico, dipendendo solo dalle condizioni speciali in cui vive il plasma della pianta succolenta; l'ipotesi dunque, nei riguardi dell'attività clorofillica, non è sostenibile.
Ipotesi di Boussingault. - Del pari insostenibile è l'ipotesi emessa dal Boussingault (1864), la quale è in armonia col quoziente
ma non è suffragata da altre prove dirette o indirette.
Il Boussingault pensò alla possibilità di una parziale riduzione dell'anidride carbonica in ossido di carbonio con eliminazione di ossigeno e ad una simultanea scissione di H2O in H2 ed O. In totale si avrebbe per una molecola di anidride carbonica decomposta, una molecola di ossigeno allo stato libero e si perverrebbe anche ad una sintesi di materie zuccherine secondo lo schema seguente:
L'ipotesi però non ebbe fortuna.
Ipotesi di Baeyer. - Più fortunata invece è stata l'ipotesi del Baeyer (1890), il quale ammette la scissione dell'acido carbonico normale in ossigeno e formaldeide; da questa per polimerizzazione si otterrebbero gli zuccheri e quindi per disidratazione gli amidi:
L'aldeide formica sarebbe dunque l'anello di congiunzione íra il prodotto di partenza (H2CO3 + H2O + CO2) e gl'idrati di carbonio superiori, e ciò avrebbe altrettanti punti di appoggio nelle seguenti considerazioni:
1. Nelle piante non si trova la formaldeide libera; si trovano bensì i due derivati ad essa più vicini, l'alcool metilico e l'acido formico. Il primo è stato identificato in varî vegetali ed entra addirittura nella costituzione della clorofilla, sicché si deve considerare come un prodotto di elaborazione delle piante superiori, il secondo è anch'esso abbastanza diffuso nel mondo organico vegetale ed è stato riconosciuto nelle foglie fresche di pino e di abete, nel succo della saponaria, nel tamarindo, ecc.
2. Da una soluzione diluita di formaldeide trattata con calce a temperatura ordinaria si ottiene un isomero del glucosio, il cosiddetto forinosio, il quale è un vero composto zuccherino; è dunque dimostrato che dalla polimerizzazione della formaldeide si possono ottenere composti zuccherini analoghi a quelli delle piante.
3. La presenza nelle piante di composti zuccherini a 5-7 atomi di carbonio ed anche 8 (arabinosio, xilosio, perseite) trova facile spiegazione riell'ipotesi di una graduale polimerizzazione di un idrato di carbonio contenente un solo C e tale è il caso dell'aldeide formica.
4. L'aldeide formica si ottiene dall'anidride carbonica in presenza d'acqua nelle più svariate condizioni: per elettrolisi dell'acido carbonico per azione delle scintille elettriche sull'anidride carbonica in presenza d'acqua, per azione dei raggi ultravioletti sopra una miscela di vapore acqueo e CO2 in presenza di un alcali, per azione delle emanazioni radioattive.
Tutti questi fatti avvalorano l'ipotesi del Baeyer, la quale difatti ha incontrato il generale consenso, nonostante la grave obiezione della tossicità dell'aldeide formica rispetto al protoplasma vivente. Ma il Baeyer stesso osserva che l'azione tossica si annulla con l'immediato processo di polimerizzazione di quel composto; e d'altra parte occorre tener presente che si è riusciti ad ottenere la formazione di amido somministrando ai plastidî, posti nell'oscurità, alcune combinazioni facilmente dissociabili della formaldeide, quali l'ossimetilsolfonato sodico, l'esametilenamina, il metilal, ecc., e che a risultati analoghi si è pervenuti con l'aldeide formica in soluzione acquosa diluitissima.
Ipotesi di Erlenmayer e di Bach. - Deriva dall'ipotesi del Baeyer, ma a differenza di questa ammette che l'ossigeno prima di passare allo stato libero dia luogo a perossidi, suscettibili in un secondo tempo di decomposizione: l'acido carbonico cioè darebbe luogo ad aldeide e ad acido percarbonico: questo si scinderebbe in anidride carbonica ed acqua ossigenata e quest'ultima finalmente, in presenza di un enzima speciale, la catalasi, fornirebbe l'ossigeno libero:
Ipotesi di Fischer. - Anche il Fischer (1889) considera la formaldeide come primo prodotto dell'attività clorofillica. Ma prima della trasformazione dell'aldeide in amido egli preferisce ammettere la formazione di un triosio, il glicerosio, che condurrebbe al glucosio e finalmente all'amido:
Ipotesi di Crato e di Curtius. - Si allontana dalle precedenti e trova appoggio soltanto nella frequenza dell'inosite nelle piante.
Da CO2 ed H2O si formerebbe acido orto-carbonico C(OH)4 e da questo un carboidrato ciclico esaossidrilato ed affine all'inosite, che condurrebbe al glucosio.
L'ipotesi è espressa da questo schema:
Ipotesi di Maquenne. - Vedute del tutto originali hanno condotto Maquenne (1923) alla seguente ipotesi, che da lui prende nome e che si fonda sulle seguenti osservazioni: l'aldeide formica, per quanti tentativi siano stati fatti, non è mai stata riscontrata nelle piante ed in realtà i pochi risultati positivi o sono messi in dubbio o sono stati smentiti. Ma, se anche si riuscisse a dimostrarne la presenza, non sarebbe per questo dimostrata la sua provenienza dall'acido carbonico, in quanto la sua origine potrebbe ricercarsi nella degradazione di idrati di carbonio superiori o nella combustione incompleta di molte sostanze organiche. D'altra parte non appare ammissibile un'immediata polimerizzazione dell'aldeide formica in un ambiente acido quale è quello delle foglie. Si ricordi che il Würtz tentò invano di condensare l'aldeide formica in ambiente acido, seguendo cioè la stessa via che lo aveva condotto alla scoperta dell'aldolo. Stando così le cose il Maquenne considera la possibilità che i due processi di riduzione e polimerizzazione si compiano simultaneamente; cioè la clorofilla agirebbe da catalizzatore chimico per la presenza del gruppo magnesiaco
capace di addizionare acqua ed anidride carbonica: ma questo composto di addizione assumerebbe una forma ossidrica instabile, che, rigenerando il prodotto di partenza, metterebbe in libertà ossigeno e aldeide formica:
Da acqua ed anidride carbonica si arriverebbe ad ossigeno e ad aldeide formica.
Ma poiché la clorofilla si trova sotto forma colloidale ed è presumibilmente costituita da aggregati di molecole semplici legate da valenze secondarie, non è ardito ammettere che da questi aggregati di molecole, capaci ciascuna di reagire come sopra, piuttosto che all'aldeide formica, si passi direttamente ad idrati di carbonio policarbonici nel tempo stesso che si ripristina la clorofilla colloidale. Così, p. es., se si considera un aggregato di tre molecole di clorofilla e si ripete per esso quanto si è visto per una sola molecola, si perviene a tre gruppi non stabili, i quali, invece di dare ciascuno una molecola di aldeide formica, daranno una catena triatomica, cioè di tanti atomi di carbonio quanti sono gli atomi di magnesio che hanno partecipato alla reazione:
Nell'esempio citato dai tre gruppi non saturi HO. CH è presumibile la formazione del glicerosio o del diossiacetone:
Secondo il Maquenne la formazione della catena carbonica avverrebbe nel momento stesso del distacco dei gruppi non saturi come conseguenza immediata dello stato colloidale della clorofilla e della sua preventiva polimerizzazione. Gl'idrati di carbonio si produrrebbero dunque nel protoplasma e ne uscirebbero senza subire ulteriori modificazioni, né occorrerebbe invocare la formazione di prodotti intermedî, quali l'aldeide formica, per rendersi conto della loro genesi. S'intende che, a seconda del grado di polimerizzazione della clorofilla, si debba pervenire a catene più o meno ricche di atomi di carbonio e che in ogni caso si otterranno sempre catene policarboniche, mai la monocarbonica propria dell'aldeide formica. Tuttavia secondo Maquenne questa deduzione non va presa in senso assoluto; ché, se nella micella clorofilliana si riscontrasse qualche molecola errante non condensata, l'aldeide formica si dovrebbe formare, il qual fatto spiegherebbe l'eventuale presenza nelle piante di quantità estremamente piccole di questo prodotto.
L'intensità del fenomeno ha un indice immediato nella quantità di ossigeno che si sviluppa in un punto determinato od anche nella quantità di anidride carbonica che viene assorbita. Essa è però notevolmente influenzata dalla temperatura, dall'intensità luminosa, dalla natura delle radiazioni luminose e dalla concentrazione dell'anidride carbonica.
a) Influenza della temperatura. - L'optimum di temperatura per la maggiore intensità del processo va dai 30 ai 35°. Per le comuni piante europee la temperatura minima è di O°, la massima di 45°; al disopra e al disotto rispettivamente di queste temperature il processo si arresta.
b) Influenza dell'intensità luminosa. - Esiste entro certi limiti una proporzionalità diretta fra intensità luminosa e attività clorofilliana; ma oltre i limiti segnati da intensità luminose non molto elevate, questa proporzionalità scompare e da un certo momento in poi lo sviluppo di ossigeno rimane costante.
c) Influenza delle diverse radiazioni luminose. - Dalle esperienze di Timiriazeff, Reinke, Engelmann ed altri risulta che l'intensità del processo clorofilliano è notevolmente influenzata dalla lunghezza d'onda delle radiazioni luminose; essa infatti presenta un massimo in corrispondenza della zona rossa dello spettro, decresce fino a raggiungere un minimo nel verde, poi raggiunge un nuovo massimo nell'azzurro e torna a degradare verso il violetto.
d) Influenza della concentrazione dell'anidride carbonica. - La concentrazione normale dell'anidride carbonica è di o,3‰. Ad un aumento graduale di questa concentrazione corrisponde un certo incremento nell'attività clorofilliana, ma fino ad un certo limite, oltre il quale si manifesta un abbassamento. Sull'optimum di concentrazione non si hanno però dati sicuri, variando esso da pianta a pianta, soprattutto col variare delle altre condizioni. Tutto ciò non è senza importanza dal punto di vista pratico e ha difatti suggerita la cosiddetta concimazione carbonica, sulla cui efficacia non è ancora detta l'ultima parola. È superfluo aggiungere che nelle condizioni ordinarie la fotosintesi clorofilliana non subisce variazioni d'intensità, che possano attribuirsi al fattore concentrazione. L'aria atmosferica mantiene quasi costante la sua composizione e la percentuale di anidride carbonica ha oscillazioni lievissime, pur essendo enorme la quantità di questo gas che annualmente si riversa nell'atmosfera e che si valuta in miliardi di metri cubi.
A mantenere l'equilibrio concorrono: 1. la formazione sui continenti o nelle profondità dei mari di strati calcarei o l'accumulo di carbonato calcico negli organismi animali (conchiglie, scheletri, ecc.); 2. l'assorbimento dell'acido carbonico da parte delle piante; 3. il particolare funzionamento del bicarbonato di calcio disciolto nelle acque marine, che si dissocia cedendo CO2 quando questa difetta nell'atmosfera; intanto le piogge sciolgono l'anidride carbonica dell'aria e agiscono sul calcare trasformandolo in bicarbonato solubile che torna al mare.
Bibl.: E. Stahl, Zur Biologie des Chlorophylls, Iena 1909; R. Willstätter e A. Stoll, Untersuchungen über Chlorophyll, Berlino 1913; L. Maquenne e E. Demoussy, Nouvelles recherches sur les échanges gazeaux des plantes vertes avec l'atmosphère, Parigi 1913; H. Schröder, Die Hypothesen über d. chem. Vorgänge bei d. Kohlensäure-Assimilation, Iena 1917; R. Willstätter e A. Stoll, Untersuchungen über d. Assimilation der Kohlensäure, Berlino 1918; H. Schröder, Die Stellung der grünen Pflanzen im irdischen Kosmos, Iena 1920; F. Czapek, Biochemie der Pflanzen, Iena 1922-25; R. Stoppel, Pflanzenphysiolog. Studien, Iena 1926; C. Ravenna, Chimica vegetale, Bologna 1926.