CARAFA, Antonio, detto Malizia
Della nobile famiglia napoletana, nacque nella seconda metà del XIV sec. da Giovannello e da Mariella Mariscalchi. Ebbe tre fratelli: Niccolò, Tommaso e Gurrello. Insieme con quest'ultimo era nell'aprile del 1384 ai servizi di Carlo III d'Angiò Durazzo, allora impegnato a respingere le pretese sul Regno di Luigi I d'Angiò, sul quale avrebbe trionfato alla fine di quello stesso anno. Il 20 dic. 1392, quando una nuova spedizione francese, guidata da Luigi II d'Angiò - erano morti i due primi contendenti e Margherita governava come tutrice del figlio Ladislao - sembrava avere la meglio nella lotta per il possesso del Regno, la regina convocò il Consiglio regio, di cui il C. faceva parte, per annunciare la maggiore età del figlio, al quale infatti nel luglio seguente avrebbe ceduto l'effettivo potere. Il 15 ott. 1394, quando sul soglio avignonese era appena salito l'antipapa Benedetto XIII, il C. partecipò al Consiglio generale convocato dal re Ladislao, nel quale fu deciso di continuare a prestare aiuto a Bonifacio IX e di insistere decisamente nella lotta contro l'Angiò, che aveva perso con la morte dell'antipapa Clemente VII il capo del partito che lo sosteneva. Nel 1400 Ladislao, ormai vittorioso sul suo rivale, compensò il C. per la sua fedeltà, concedendogli una pensione annua sulla dogana di Bari e nominandolo giustiziere per la stessa provincia. Nello stesso anno il C. acquistò la terra di Mercurio in Calabria da Covella Gesualdo, contessa di Lauria. Dieci anni più tardi impetrò il consenso del re per acquistare, insieme con un cugino, i feudi di Pescolanciano, Boccalino e Vignali. Morto Ladislao, il C. ottenne nel 1415 da Giovanna II la conferma della rendita sulla dogana di Bari e divenne capitano delle terre di Montecassino. Due anni dopo la regina lo nominò giustiziere di Valle di Crati e Terra Giordana. Nel 1419 egli continuò l'opera di rafforzamento della propria potenza comperando con l'assenso regio i casali di Cupuli e Casacellola, vicino ad Aversa, da Pietro Origlia, conte di Caiazzo.
Nell'aprile del 1420 il C., assieme a Francesco de Riccardis, Ugo di Moliterno e Pasquale di Campli, fu inviato da Giovanna II presso Martino V, che, diretto a Roma provenendo da Costanza, soggiornava allora in Firenze. Il C. e gli altri ambasciatori regi avevano l'incarico di chiedere al papa sostegno, aiuto, benevolenza per la regina, poiché l'irrequietezza dei baroni napoletani si stava allora concretizzando in complotti di ispirazione filoangioina. Non era certo però una missione facile dato che Martino V era il più accanito ed il più autorevole fautore di Luigi III, succeduto al padre nella rivendicazione del Regno. Gli oratori, sbarcati a Pisa e direttisi a Firenze, ricevettero dal papa un'accoglienza dura, e che, soprattutto, non lasciava speranza di comprensione e di aiuto. Francesco de Riccardis tornò allora a Napoli per riferire alla regina sulle difficoltà incontrate e sugli scarsi progressi della missione. Gli altri ambasciatori rimasero a Firenze forse più per cercare altre alleanze, che per ottenere un cambiamento di atteggiamento da parte del papa. Il C., antiangioino e consapevole che a Napoli la situazione stava per precipitare, era pressato dall'urgenza di trovare un potente alleato, o meglio un protettore per la regina Giovanna II. Abboccatosi con Garcia Aznar de Añon, ambasciatore di Alfonso V d'Aragona presso il pontefice, capì di aver trovato l'appoggio che cercava. Partì allora alla volta di Napoli, senza neanche chieder licenza al papa, e, riferite alla regina le nuove prospettive aperte dai colloqui con l'ambasciatore aragonese, la trovò pronta ad accettare e a sollecitare anzi l'aiuto di Alfonso. Questi era allora in Sardegna, ove si era recato coll'intento di passare ad operare poi contro la Corsica, per soffocare la ribellione di Sassari e di altre terre. Lì fu inviato dalla regina il C., insieme con Giovanni Bozzuto, Caraffello Carafa, Bonifacio di Bonifacio e Pasquale di Campli. Costoro dovevano offrire al re, in cambio del suo intervento contro l'Angiò, la promessa dell'adozione. Gli ambasciatori, vinta la diffidenza e la ostilità di una parte dei baroni aragonesi, convinsero il re a prendere su di sé l'impresa napoletana. In segno di gratitudine come riconoscimento dei suoi meriti, il sovrano concesse al C., con un diploma dato ad Alghero il 6 ag. 1420, una pensione annua sulle entrate pubbliche. Furono nominati quindi gli ambasciatori da inviare a Napoli ed approntate una ventina di galee. Mentre il Campli, che però fu preso prigioniero a Civitavecchia da Luigi III, venne rinviato direttamente a Giovanna II per annunciarle il prossimo arrivo degli aiuti aragonesi, il C. si imbarcò su una delle galee reali che si diressero verso la Sicilia allo scopo di farvi rifornimento, e che giunsero poi a Napoli il 4 settembre. Il giorno seguente, alla presenza di molti nobili napoletani, fra cui il C., gli ambasciatori aragonesi furono ricevuti dalla regina e lo stesso giorno fu perfezionata l'adozione.
Il 1º apr. 1422, quando già i contrasti e le incomprensioni fra la regina ed il suo figlio adottivo cominciavano a manifestarsi, Giovanna II concesse il castello di Vico di Pantano in feudo al C., il quale due anni prima aveva già ottenuto dalla sovrana il titolo di castellano e il pegno della città e dei casali di Torre del Greco.
Nello stesso anno il C., che aveva il titolo di milite familiare e siniscalco della regina, ottenne da Alfonso la gabella della bagliva dei casali del Manco a Cosenza e la dogana marittima di San Lucido in Val di Grati e Terra Giordana. Nel 1423 egli ottenne la conferma di queste concessioni e l'esazione delle tasse per il feudo di Vico di Pantano. Nell'aprile di quell'anno il C. presenziò alla spedizione del diploma con il quale la regina confermò ed ampliò l'autorità che aveva trasferito in Alfonso. Quando nell'autunno, dopo che i contrasti erano sfociati in guerra aperta e si era giunti alla revoca da parte della regina dell'adozione, Alfonso partì alla volta della Spagna, lasciando al fratello don Pietro il governo di Napoli, il C. mandò con il sovrano il figlio minore, Diomede ed il già citato nipote Caraffello. Il 9 luglio dell'anno successivo, quando venticinque galee catalane, inviate da Alfonso in aiuto del fratello che era ancora nel Castelnuovo di Napoli, entrarono nel porto della città campana, respinte però dai fedeli della regina, il C. si mise alla testa dei tumulti allora promossi nella città dai filoaragonesi. Partita sconfitta l'armata catalana, il C. fuggì e si rifugiò a Sessa Aurunca. Visse fino al 10 ott. 1437 e fu sepolto in S. Domenico a Napoli. Poco prima di morire fece testamento ed in esso egli, che aveva visto rifiorire le speranze del partito aragonese quando, alla morte di Giovanna (1435) Alfonso aveva cominciato la lotta contro Renato d'Angiò, per la successione al trono di Napoli, esortò i parenti a rimanere fedeli alla causa aragonese che egli aveva servito costantemente per diciassette anni.
Il C. aveva sposato Caterina Farafalla e ne aveva avuto Carlo, Francesco, Tommaso, Antonio, Gurrello, Giovanni Battista, Diomede, Caterina e Diana.
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