CARACCIOLO, Francesco, duca
Nacque a Napoli il 18 gennaio 1752 da Michele dei marchesi di Brienza, ch'era un ramo dei Caracciolo Rossi. Nel maggio del 1779 fu mandato dall'Acton ad addestrarsi sulle navi britanniche combattenti nella guerra di America; ma che abbia partecipato, come qualcuno vorrebbe, alla battaglia del Capo S. Vincenzo non sembra probabile. Fece ritotno in patria nel settembre del 1781, e d'allora, in lunghi anni d'ardite cacce contro i barbareschi d'Algeri e di Tunisi, acquistò fama di marinaio e di soldato a nessuno secondo nell'armata napoletana. Nel 1793 fu a Tolone. Il 14 marzo 1795, al Capo di Noli, il Tancredi, da lui comandato, combatté valorosamente fra le navi della avanguardia inglese. Il 23 dicembre 1798 accompagnò col Sannite a Palermo la famiglia reale che, in preda al terrore dopo la spavalda impresa di Roma, aveva preferito imbarcarsi sul vascello del Nelson. Di questa mancanza di fiducia legittimamente s'offese il C.; e la corte lo seppe. Ma più dovette addolorarlo e indignarlo la distruzione di quasi tutta l'armata, troppo affrettatamente compiuta nel porto di Napoli, dietro gli ordini condizionati del Nelson, dal commodoro portoghese Campbell (28 dicembre 1798 e 8 gennaio 1799). Il 4 febbraio, passata ormai anche la sua nave in disarmo a Messina, chiese licenza al re di recarsi a sistemare i proprî affari a Napoli, dove intanto era stata proclamata la repubblica (25 gennaio 1799). Questa domanda produsse un'impressione penosa: duca e ammiraglio, egli non poteva esser confuso con la folla dei bassi ufficiali e dei marinai che in quei giorni chiedevano ugualmente il permesso di tornare alle proprie famiglie. Né s'ignorava del resto ch'egli era irritatissimo contro gl'Inglesi, onnipotenti allora alla corte palermitana. Tuttavia il permesso fu dato. Fu accolto a Napoli, il 3 marzo, con pubbliche dimostrazioni d'onore, sia che si mirasse a comprometterlo, sia che veramente lo si credesse venuto per porsi al servizio della repubblica. Ma si tenne invece in disparte, e anzi, a un certo momento, parve voler tornare a Messina. Allora parenti ed amici, repubblicani non per convinzione, ma per disgusto contro un sovrano che li aveva ignominiosamente abbandonati al furore della plebaglia, gli si fecero attorno e, prospettandogli anche il pericolo della confisca dei beni, lo indussero a rimanere e ad assumere il comando della piccola flotta della repubblica. Così, il 17 maggio, a Procida, fece fuoco sulla fregata siciliana Minerva, comandata dal conte Thurn, e il 13 giugno appoggiò con le sue cannoniere i difensori del ponte della Maddalena. Datosi poi alla fuga dopo l'ingresso in Napoli delle bande del Ruffo, fu arrestato a tradimento da un tal Scipione La Marra, il 25 giugno. Il giorno innanzi era giunta dalla Sicilia la flotta del Nelson. Si dice, ed è molto verosimile, che il Ruffo desiderasse di salvarlo; ma egli non aveva più autorità alcuna quando, il 28 giugno, il C. fu rinchiuso ai Granili. La mattina del 29 lo condussero sulla Foudroyant, nave ammiraglia inglese. Subito, per ordine del Nelson, si raccolse un consiglio di guerra presieduto dal Thurn, che il C. riteneva suo personale nemico. Ma erano soltanto formalità. Sin dal 17 maggio Maria Carolina aveva scritto al Ruffo: "Lo dico con pena: ha da essere punito di morte chi, avendo servito il re, come Caracciolo, Moliterno, ecc., si trova con le armi alla mano combattendo contro di lui". Cercò di difendersi affermando che aveva dovuto servire la repubblica per salvare il proprio patrimonio. E secondo il Parson, che assistette al processo, avrebbe aggiunto: "Sono accusato di avere abbandonato il mio re e di essermi unito ai suoi nemici. L'accusa è falsa: il re abbandonò me e i suoi sudditi". Fu condannato a morte e alle 5 pomeridiane di quel medesimo giorno 29 giugno, mentre a bordo della Foudroyant il Nelson pranzava con gli Hamilton e con altri suoi ospiti, fu impiccato all'albero di trinchetto della Minerva. Così finì il più grande ammiraglio napoletano del sec. XVIII. Il suo corpo, abbandonato alle onde, fu raccolto qualche giorno più tardi e sepolto nella chiesa di S. Maria della Catena. Il C. era colpevole: non essendo repubblicano e avendo accompagnato il re in Sicilia, poteva forse spezzare la sua spada, non mai rivolgerla contro il principe dal quale, nei dì felici, aveva avuto gradi ed onori. Ma la morte crudele inflittagli da uno straniero, suo compagno d'armi, che poteva salvarlo con una sola parola, diede alla sua fronte l'aureola del martirio.
Bibl.: B. Maresca, La marina napoletana nel sec. XVIII, Napoli 1902 (e anche: Arch. stor. per le provincie napoletane, X, XI, XVII); F. Lemmi, Nelson e Caracciolo e la repubblica napoletana, Firenze 1898; e in genere, le storie della repubblica napoletana e le vite del Nelson.