CAPPADOCIA (A. T., 88-89)
Regione interna dell'Asia Minore, confinante a E. con l'Armenia, a S. con l'Antitauro e col Tauro di Cilicia, a O. con la Licaonia e a N. con la Galazia e col Ponto. k regione elevata, in massima parte montuosa, scarsa di precipitazioni, e perciò a carattere prevalentemente steppico, eccettuata la zona sufficientemente piovosa dell'Argeo. È attraversata dal Kïzïlïrmak, l'antico Halys, che, nato sul versante occidentale dei monti dell'Armenia, descrive un ampio cerchio nella Cappadocia da cui riceve il Delic e va a sboccare nel Mar Nero. Gli altri corsi d'acqua della regione sono di poca importanza, e finiscono quasi tutti nei laghi interni dei quali il principale è il Tusgöl, l'antico Tatta. Solo nella parte nord-orientale, in quella adiacente alla regione del Ponto e specialmente sui versanti montuosi settentrionali si tiovano dei bei boschi di querce e di pini, e, nelle zone più elevate, si trovano dei buoni pascoli estivi, mentre ai margini delle catene, nelle valli meglio irrigabili, in questi ultimi decennî si sono venuti sviluppando anche diversi villaggi agricoli, fra aree coltivate a cereali, a tabacco e a cotone. Proseguendo verso O. e verso S., ai boschi e alle aree agricole subentrano le zone steppose, frequentate da tribù nomadi di Turchi e di Curdi che vivono dell'allevamento delle capre, dei cavalli e dei cammelli, fabbricando tappeti ed esportando lana. In questa zona è Yozgat, mercato di esportazione del frumento e dell'oppio, del bestiame e della lana; maggiore importanza ha la città di Sïvas, mercato sul Kïzïlïrmak, nel punto d'incrocio di strade commerciali di prim'ordine, fiorente città industriale. Più umido e più fertile si fa il terreno nella zona dell'Argeo, la cui sezione orientale rappresenta la regione più popolata e più ricca di tutta la Cappadocia. Mentre le cime sono selvagge e pressoché deserte e i fianchi coperti di magri pascoli con poche macchie di querce e di betulle, in basso, nel fondo delle valli, le copiose acque affioranti favoriscono lo sviluppo di giardini, di campi e di prati. Per la pianura di Cesarea, dove prosperano il grano, il cotone, la vite e la frutta, si può anzi parlare di sovrapopolazione; difatti forte è l'emigrazione verso Costantinopoli da parte degli uomini delle cittadine della zona, quali Tanas e Kermir. Cesarea, situata ai piedi di gigantesche montagne vulcaniche incoronate di nevi, sul punto d'incrocio d'importanti strade che da Angora e dalla regione dell'alto Halys portano a MaraŞ e ai porti della Cilicia, è il centro principale della Cappadocia. Meno fertile è invece la sezione occidentale, caratteristica per i suoi grandiosi fenomeni di erosione delle acque che hanno dato origine a una serie di valli e di bacini ricchi d' imponenti piramidi e torri di terra. Fra i centri di questa regione sono da ricordare Ürgüb, circondato di frutteti e di vigneti, e NevŞehir. Completamente steppica è la parte nord-occidentale della Cappadocia e povera di abitanti. Di qualche importanza sono HacïbektaŞ e KïrŞehir, dove è fiorente l'industria dei tappeti. Più a S., Akserai, pur in una zona malsana, è importante per la sua posizione sull'orlo del deserto, quale stazione estrema sulla strada carovaniera Cesarea-Conia.
La Cappadocia pregreca. - Notizie storiche sulle vicende della Cappadocia (ant. pers. Katpatuka; gr. Καππαδοκία), vale a dire della parte centrale della penisola anatolica, in tempi anteriori a quelli degli Hittiti (v.), ci sono fornite dalle numerose tavolette in caratteri cuneiformi trovate nella collina detta in turco Kül Tepe, vicino all'antica città di Cesarea, oggi Kayseri, e in qualche altra collina della regione. Dei tempi anteriori non abbiamo nessun documento scritto, ma da quanto sappiamo dei tempi posteriori e da ritrovamenti di oggetti e vasi possiamo dedurre qualche notizia scarsa e malsicura sulle condizioni anteriori del paese. Esso era abitato da una popolazione anatolica, ed era diviso in piccoli stati, più o meno indipendenti, retti da re e principi diversi. La maggior parte dei luoghi abitati deve essere stata fondata durante l'epoca della pietra ed essi si svilupparono ulteriormente durante il III millennio a. C., all'epoca della penetrazione commerciale, culturale e anche politica degli Assiri, la cui vita commerciale nel paese ci è documentata dalle tavolette surriferite. Nell'epoca prehittita i villaggi erano situati per la maggior parte nelle valli. Non pochi elementi della civiltà cappadocia anteriore all'azione esercitata dagli Assiri continuarono a sussistere ancora durante tutto il periodo hittita e anche durante le epoche più recenti: le scarpe a punte curvate e la ruota piena dei carri sono elementi dell'antichissima civiltà anatolica, povera e molto primitiva quando gli Assiri penetrarono nel paese.
Sembra che gli Assiri si siano stanziati nel paese, o più precisamente nelle città più adatte agli scambî commerciali, soltanto allo scopo di attivare il commercio fra l'Asia Minore e l'Assiria e specialmente la capitale del loro paese, Assur. Che i coloni commerciali fossero veramente Assiri e non Babilonesi è attestato dalla lingua in cui sono scritte le tavolette, lingua che è il dialetto parlato anticamente, vale a dire nel terzo millennio, nella città di Assur. È poco probabile invece che si tratti delle propaggini più settentrionali di un supposto impero assiro del terzo millennio. I rapporti che correvano fra i coloni assiri e i re o principi autoctoni, anatolici, della regione, devono esser stati molto simili a quelli che intercedevano fra i Veneziani o Genovesi che durante il Medioevo si erano stabiliti sulle coste del vicino Oriente e i potentati di quelle regioni. Gli Assiri godevano di completa autonomia e amministravano da sé le loro colonie, chiamate kārum, vale a dire porto o banchina, per reminiscenza delle grandi città commerciali della valle dell'Eufrate e del Tigri. Gli Assiri erano completamente separati e divisi dalla popolazione indigena, la quale era sottomessa al dominio diretto dei principi o re del paese e sottostava alle leggi dei proprî re, mentre gli Assiri saranno stati obbligati a osservare le leggi del paese soltanto per quei rapporti che avevano con gl'indigeni. In quale rapporto stessero precisamente i coloni con l'autorità statale indigena non risulta finora dalle tavolette. Non si sa ancora in quale stato anatolico fossero situate allora le colonie e se varcassero i confini della Cappadocia. La colonia più importante era Kanish, la quale esercitava una specie di egemonia sopra le altre. Le sue rovine si sono conservate probabilmente nella collina Kül Tepe. La sede dei principi autoctoni era la città di Burushkhanda, contro la quale, secondo un'antica leggenda accada, il re Sargon di Agade intraprese una campagna militare. Gli Assiri fondarono colonie ancora a Zalpa, Wakhshushana, Shamukha e ancora in altre città di minore importanza. I coloni vivevano completamente da Assiri e la civiltà che traspira dalle tavolette è del tutto assira. È difficile stabilire se in qualche punto la cultura della popolazione indigena sia riuscita a modificare quella dei colonizzatori. Non c'è il minimo dubbio invece che già in questo periodo antico l'Asia Minore ebbe ad assorbire elementi importanti della civiltà mesopotamica. Anche la popolazione indigena faceva uso della scrittura cuneiforme per sbrigare i proprî affari, e scriveva altresì i documenti giuridici in lingua assira. Non è possibile stabilire finora la nazionalità della popolazione anatolica. I nomi di persona e di città sono identici a quelli che troviamo nei documenti hittiti. La lingua sarà stata forse il protohattio.
L'autorità suprema delle colonie era il kārum, il quale sembra esser stato indipendente dal potere del principe di Assur. Il principe emanava leggi e ordinanze che valevano per gli Assiri che ne facevano parte, imponeva imposte e balzelli ed esercitava la giurisdizione. La città aveva il proprio eponimo, chiamato limmu. Il calendario assiro-cappadocio aveva una settimana di soltanto cinque giorni, khamushtum, e il sistema decimale puro vigeva in luogo di quello sessagesimale in uso nella Mesopotamia. Per quanto concerne la religione, il dio principale delle colonie era il dio nazionale assiro Assur, che al suo lato aveva una moglie, Istar. Egli era il dio supremo dei coloni e il suo emblema per il quale si giurava era la spada. Nel kārum era accentrata tutta l'amministrazione autonoma della colonia. La sua sede era nel bīt kārim, il palazzo municipale, che fungeva altresì da iianca con conti correnti in denaro e merci per i commercianti e da istituto di commercio centrale per il rame. Tutti gli affari dei coloni assiri si svolgevano davanti al kārum, ma non era infrequente il caso che qualche Assiro, respinto nelle sue pretese dalla sua suprema autorità si rivolgesse per la decisione al principe del paese. Questi decideva nei casi di processi fra indigeni e Assiri.
Il commercio era esercitato per la maggior parte da società commerciali, ellatum, le quali stavano sotto un capo, chiamato "il nostro padre". Gli affari consistevano nella compera di materie prime che venivano esportate dall'Asia Minore in Assiria. Il commercio riguardava quindi anzitutto il rame, il piombo, anakum, varie stoffe, pelli, vasi, olio fino, oggetti da ornamento. I mezzi di pagamento erano soltanto l'oro e l'argento. Sembra che fra le colonie e la città di Assur fosse organizzato un servizio regolare postale. Gli affari commerciali delle colonie si basavano largamente sul credito, che era tanto credito in denaro quanto in merci.
Non sappiamo quando e come le colonie assire della Cappadocia siano sparite, poiché le tavolette cessano ad un tratto di darci notizia della loro attività e la storia del paese precipita di nuovo nell'oscurità completa. Cominciamo ad avere qualche notizia appena con l'anno 1800 circa, quando troviamo installati nella Cappadocia, nel Paese Alto, gli Hittiti, i quali ne fecero il centro del loro dominio e del loro vasto impero (v. hittiti). La monarchia hittita precipita circa nel 1200 a. C. per l'invasione di popoli provenienti dal nord, e la storia della Cappadocia resta di nuovo per qualche secolo ignota. Nel sec. VI la troviamo incorporata al regno di Lidia, alla caduta del quale passa sotto il dominio persiano. Il Gran Re nel sec. IV vi era rappresentato da satrapi, prima Abrocomas e poi Ariarate (dal 350 circa a C.) dal quale ebbe origine la dinastia che poi vi regnò. Pare che allora sia avvenuta la divisione in Cappadocia del Tauro e Cappadocia pontica.
Bibl.: G. Contenau, Trente tablettes cappadociennes, Parigi 1924; B. Landsberger, Assyrische Handelskolonien in Kleinasien aus dem dritten Jahrtausend, in Der Alte Orient, XXIV (1925), fasc. 4.
Il regno ellenistico di Cappadocia.
Il primo personaggio storicamente sicuro della dinastia che regnò in Cappadocia è Ariarate I, nato verso il 403 a. C., il quale contribuì alla spedizione di Artaserse III Ochos (357-337 a. C.) in Egitto e che durante la spedizione di Alessandro Magno in Asia può aver partecipato alla guerra al servizio di Dario. Alessandro, dopo la battaglia del Granicn (334 a. C.), toccata appena la Cappadocia, affidò l'incarico di sottometterla a un suo luogotenente nominato satrapo, Cabictas (primavera 333 a. C.). Tuttavia Ariarate riuscì non soltanto a conservarsi indipendente nell'ambito della monarchia di Alessandro, ma poté anche allargare il suo territorio; pare che siano rimaste in suo potere le città greche della costa asiatica del Ponto Eussino da Trapezunte a Sinope. Ci sono pervenute delle monete di Gaziura con l'inscrizione in lingua e scrittura aramaica, assai diffusa durante l'età persiana nell'Asia Minore, le quali provano il dominio di Ariarate su tutta la Cappadocia settentrionale. Dopo la morte di Alessandro (323 a. C.) nella divisione delle satrapie fatta a Babilonia da Perdicca, la Cappadocia insieme con la Paflagonia e con i territorî rivieraschi del Ponto Eussino fu assegnata a Eumene di Cardia come stratego; ma Eumene non riuscì a sottomettere Ariarate, che disponeva di un esercito di 9000 fanti e 15.000 cavalieri. Però quando Perdicca assunse personalmente il comando della guerra contro il vecchio dinasta ormai ottantaduenne, questi fu vinto, preso prigioniero e crocifisso insieme ai suoi parenti come ribelle. Nella divisione di Triparadiso (321 a. C.), la Cappadocia essendo stata assegnata a Nicanore, Antigono ebbe il compito di scacciarne Eumene, che fu sconfitto a Orcinia e costretto a rifugiarsi nella fortezza di Nora. Così nel ventennio fra la morte di Ariarate I e la sconfitta e morte di Antigono Monoftalmo (301 a. C.) la Cappadocia fu governata da satrapi macedoni, prima Eumene (morto nel 316) in nome di Perdicca, poi Nicanore (morto nel 312) e infine Aminta (morto nel 301) in luogo di Antigono, che prese la Cappadocia nel 315 a. C. e la tenne fino alla sua morte nella battaglia d'Isso (301 a. C.).
I rivolgimenti che precedettero e accompagnarono questa battaglia fornirono pure l'occasione alla restaurazione di alcuni dinasti indigeni nell'Asia Minore. Mitridate, figlio di un dinasta di Chio, ucciso da Antigono, s'impadronì della fortezza di Kimiata nella Paflagonia e dei territorî della foce dell'Halys, fondando il regno della Cappadocia del Ponto. D'altra parte Ariarate II s'impossessò della Cappadocia taurica. Egli era figlio di Oroferne ed era stato adottato da Ariarate I che non aveva figli proprî. Quando fu sconfitto e ucciso Ariarate I, egli, rinunziando per il momento al dominio, riuscì a salvarsi in Armenia, ed ora, approfittando della contesa fra Seleuco e Antigono, ritornò con aiuti del dinasta armeno Ardoate nella Cappadocia, vi sconfisse Aminta, stratego di Antigono, e poté affermare la sua signoria su una parte del dominio della sua famiglia. Con la morte di Antigono la Cappadocia passò sotto Lisimaco, il quale però dovette lasciarvi sussistere i varî dinasti indigeni. Quando Lisimaco fu sconfitto e ucciso a Corupedio (282 a. C.), i suoi domini asiatici per diritto di guerra passarono sotto Seleuco I, il quale volle esigere la sottomissione di quelle popolazioni che non avevano in realtà riconosciuto la sovranità di Alessandro, né quella di Antigono e di Lisimaco. È probabile che la lega formata da Eraclea con Calcedone e Bisanzio da una parte e con Mitridate del Ponto dall'altra, abbia spinto questo a un'intesa anche con Ariarate di Cappadocia; ma è dubbio se egli si sia impadronito della Cataonia, il cui acquisto deve spettare al tempó di Ariaramnes. Tuttavia una parte della Cappadocia meridionale, detta Σελευκίς, rimase sotto il dominio dei Seleucidi. Antioco I di Siria, al principio del suo regno, non poté occuparsi della Cappadocia, sicché Ariarate poté occuparsi stabilmente del territorio a sud del corso superiore dell'Halys e allargare il suo dominio fino al Tauro, anche se non lo estese allora oltre l'Eufrate, per quanto la fortezza di Tamisa sulla sinistra di questo fiume di fronte alla Melitene abbia appartenuto al regno di Cappadocia.
Il vero fondatore dell'indipendenza della Cappadocia fu Ariaramne o Ariamne, figlio di Ariarate II, che ottenne il riconoscimento formale dell'indipendenza del suo dominio da parte di Antioco II di Siria (256 a. C.). Ariaramnes associò al trono il figlio Ariarate, al quale cinse il diadema, simbolo della regalità; ma è incerto se ciò sia avvenuto al momento del riconoscimento dell'indipendenza della Cappadocia o più tardi, e se Ariarate abbia sposato StratoniLa, figlia di Antioco, allora o durante la terza guerra siriaca, quando i Seleucidi stabilirono vincoli di parentela anche con lxitridate del Ponto. Forse va qui riferita l'unione della Cataonia alla Cappadocia come dote di Stratonica. Ariaramne primo della dinastia fece riprodurre la sua immagine sulle monete, e sostituì all'aramaica la scrittura greca, il che prova che nella Cappadocia cominciava a farsi sentire l'influsso della civiltà greca. Alla morte di Ariaramne (circa il 230 a. C.) succedette il figlio già associato al potere, Ariarate iii, il primo della dinastia che portò il titolo di re.
Morendo circa il 220 a. C. Ariarate III lasciava il regno a un figlio ancora minorenne, Ariarate iv (220-163 a. C.), il sovrano più importante della dinastia. Data l'origine della sua indipendenza e i vincoli dinastici, la Cappadocia era naturalmente legata a una politica di amicizia verso i Seleucidi, con i quali Ariarate IV rinsaldò i vincoli di parentela sposando Antiochide figlia di Antioco III il Grande (circa il 192 a. C.). Così il regno di Cappadocia fu alleato della Siria nella guerra contro i Romani, e Ariarate combatté a fianco di Antioco nella battaglia di Magnesia (190 a. C.). L'anno dopo, insieme con i Galli e Morzio re della Paflagonia, combatté infelicemente nella battaglia del monte Magaba contro il console Cn. Manlio Vulsone e nell'inverno del 189-188 mandò i suoi legati a chiedere la pace al console. Questi, in attesa dei legati per la definizione della pace con Antioco III e i suoi alleati, impose ad Ariarate una contribuzione di guerra di 600 talenti. Dopo la conclusione della pace di Apamea, Ariarate, servendosi della mediazione di Eumene di Pergamo (che aveva sposato la figlia di lui Stratonica), ottenne che gli venisse condonata la metà del contributo impostogli da Vulsone. Ariarate strinse allora per sé e in nome del popolo di Cappadocia amicizia ed alleanza coi Romani, e ad essa e all'alleanza col re di Pergamo la dinastia di Cappadocia rimase poi costantemente fedele. Del resto questi piccoli stati dell'Asia Minore, sul confine fra il mondo civile e quello barbaro, trovarono nella civiltà greca e nella protezione romana la sola forza per sostenere il loro dominio contro la minacciosa barbarie orientale, cioè contro i re d'Armenia e i sovrani Arsacidi di Parzia.
Intanto Farnace, re del Ponto, con la conquista di Sinope e con l'invasione della Galazia (183 a. C.) cominciò a impensierire il re di Cappadocia non meno di Eumene e di Prusia re di Bitinia. Ma Ariarate preferì non cimentarsi in una guerra difficile e di esito incerto col Ponto e sperò che Roma avrebbe imposto anche a Farnace la sua volontà. I Romani però si limitarono a mandare solo delle ambascerie che non ottennero nessun risultato. Aggravatosi il pericolo di Farnace con l'intervento di Mitridate, signore dell'Armenia occidentale e di altri alleati, Ariarate si preparò con Eumene alla guerra (180-179 a. C.), in cui Ariarate ed Eumene invasero il regno del Ponto obbligando il re ad abbandonare le conquiste fatte, a restituire i tesori regi predati di Morzio e Ariarate e a promettere il pagamento di 9000 talenti ad Ariarate e a Morzio e 300 ad Eumene. Nell'anno 172 Ariarate mandò a Roma uno dei suoi figli perché vi ricevesse educazione romana, e promise aiuto per la guerra contro Perseo, nella quale rimase alleato d'Eumene. Tuttavia dopo la battaglia di Pidna, essendo Eumene caduto in sospetto ai Romani, anche Ariarate rimase coinvolto negli stessi sospetti perché fedele amico del re di Pergamo e solo più tardi le prove di fedeltà di Ariarate e le sue buone disposizioni verso i Romani nelle complicate condizioni dell'Asia Minore favorirono la riconciliazione. La Cappadocia sotto la dinastia degli Ariaratidi era divisa in dieci provincie o strategie, governate da ἡγεμόνες: Melitene, Cataonia, Cilicia, Tianitide, Garsauritide, Laviansene, Sargarausene, Saravene, Chalnanene, Morimene.
Ariarate IV è il primo dei sovrani di Cappadocia che abbia portato un soprannome. Sulle monete egli è detto εὐσεβής "pio", titolo che non si riferisce ad avvenimenti storici, ma indica la pietà filiale o religiosa, un sentimento o uno stato d'animo. Questo titolo non era ancora stato assunto dai sovrani ellenistici, e fu portato successivamente da altri quattro re di Cappadocia e da alcuni re di Siria e di Pergamo. Con Ariarate IV venne anche fissato il tipo delle monete di Cappadocia rimasto invariato fino al termine della dinastia, con la testa del re cinta dal diadema sempre rivolta a destra, e al rovescio l'immagine di Pallade Niceforo in piedi rivolta a sinistra.
Ariarate IV dal suo secondo matrimonio con Antiochide di Siria ebbe quattro figli. La cronaca ufficiale degli Ariaratidi raccontava che Antiochide, rimasta per qualche tempo sterile, a insaputa del marito suppose due figli, Ariarate e Oroferne. Avendo poi avuto essa stessa due figlie e un figlio, Mitridate, svelò ogni cosa al marito per assicurare il trono al figlio legittimo. È probabile che fossero tutti figli legittimi, nati dalle seconde nozze. Il primo fu mandato a Roma a compiervi la sua educazione, e nessun dubbio appare nella tradizione romana sulla sua nascita legittima; Oroferne fu mandato nella Ionia, forse a Priene. Il primogenito premorì al padre, il quale per ragioni politiche a noi ignote avrebbe deciso di lasciare la successione al terzogenito Mittidate contro i diritti del secondogenito Oroferne, violando il diritto di successione in linea di primogenitura maschile. Forse Oroferne con la sua educazione greca rappresentava a corte insieme con la madre Antiochide il partito seleucizzante e antiromano, mentre Ariarate IV voleva che si mantenesse fede all'amicizia romana nell'interesse dello stato. In tale condizione di cose, quando Ariarate IV morì, il figlio Mitridate, probabilmente favorito dai Romani, salì al trono e assunse il nome dinastico di Ariarate V (163 a. C.). La madre di lui si ritirò allora ad Antiochia, dove poco dopo fu messa a morte da Lisia, tutore di Antioco V.
Quando Ariarate V salì al potere, il suo regno da parte di Roma non correva alcun pericolo; ma egli sî assicurò l'amicizia dei Romani rinnovando con loro l'alleanza già conclusa col padre, e mostrando la sua deferenza verso Roma con la scorta fornita all'ambasceria romana presieduta da Cneo Ottavio, diretta ad Antiochia e in Egitto. D'altra parte dimostrò la sua pietà filiale reclamando dal re di Siria la consegna delle ossa di sua madre e di sua sorella cui diede onorata sepoltura. Intanto Demetrio I, salito sul trono di Siria contro il volere del Senato, cercò l'amicizia di Ariarate cui offerse sua sorella in matrimonio; ma Ariarate rifiutò la parentela offertagli, spezzando così la tradizione che univa le due dinastie di Siria e di Cappadocia. Né tardò la vendetta da parte di Demetrio. Infatti Oroferne protestò contro la violazione dei suoi diritti alla successione e trovò aiuto presso il re di Siria, il quale suscitò nella Cappadocia la guerra civile, scacciò Ariarate dal regno e vi restaurò il fratello Oroferne, facendosi promettere 1000 talenti (158 a. C.). Ariarate si rifugiò presso Eumene di Pergamo il quale contrappose in Siria a Demetrio un altro pretendente, Alessandro Bala; ma morto Eumene, non potendo Attalo II aiutare subito Alessandro, le recriminazioni e le lamentele derivanti da queste condizioni dell'Asia furono portate davanti al senato romano, il quale deliberò che i due fratelli tenessero insieme il regno di Cappadocia. Quest'assurda deliberazione poteva essere eseguita solo con la forza; in realtà per il momento Oroferne rimaneva padrone del regno e poteva disporre a sua volontà del tesoro regio. Ariarate rimase presso Attalo II. Intanto il sistema tirannico inaugurato da Oroferne e la confisca dei beni dei più ricchi Cappadoci a profitto del tesoro suscitarono il malumore contro di lui; d'altra parte lo scempio delle ricchezze e il diminuire delle entrate indussero Oroferne a impossessarsi delle ricchezze del tempio di Zeus sul monte Ariadne per pagare i suoi mercenarî. Profittando dell'odio sollevato dalle oppressioni in Cappadocia, Attalo II ripose sul trono Ariarate e obbligò Oroferne a riparare alla corte di Antiochia (156 a. C.). Il senato romano riconobbe allora Ariarate come unico sovrano della Cappadocia. Il regno di Ariarate V rappresenta un momento assai importante nella storia della Cappadocia. Per opera di questo colto sovrano la Cappadocia fu pienamente aperta all'influsso della civilta ellenica, e nuovo segno della ellenizzazione della regione è la fondazione di Ariaratea, città di carattere ellenico, una fra le due maggiori città della regione. Mazaca e Tiana furono ripopolate ed ebbero una costituzione cittadina ellenica in questo tempo, e cambiando il loro nome antico indigeno presero la prima il nome di Eusebeia dell'Argeo, Tiana quello di Eusebeia del Tauro. A Mazaca furono introdotte le leggi di Caronda. Inoltre Ariarate V come Attalo conseguì la cittadinanza ateniese e fu inscritto come lui nel demo di Sipaletto; fu anche in corrispondenza col filosofo Carneade, in onore del quale innalzò una statua ad Atene. Sulle monete è detto Eusebe e Filopatore. L'ultimo fatto del regno di Ariarate è la sua partecipazione alla guerra contro Aristonico, nella quale egli trovò la morte (130 a. C.).
Dopo la guerra di Aristonico i Romani, in compenso della fedeltà di Ariarate V, assegnarono ai figli di lui parte della regione e dei territorî della Cilicia confinanti con la Cappadocia, probabilmente la parte occidentale della Garsauritide e della Tianitide. Ariarate V aveva sposato verso il 116 a. C. Nisa e lasciava morendo sei figli minorenni. Forse il primogenito Demetrio era premorto al padre, gli altri furono fatti avvelenare per ambizione di potere dalla madre, eccetto l'ultimo, Ariarate VI, in nome del quale Nisa tenne la reggenza e coniò monete. Un'insurrezione di popolo tolse presto di mezzo Nisa, e Ariarate rimase solo re effettivo (fra il 130 e il 125 a. C.). Egli sposò Laodice sorella di Mitridate VI Eupatore re del Ponto e regnò oscuramente col titolo di Epifane. Forse per istigazione di Mitridate VI nel iii a. C. Ariarate fu assassinato da Gordio, un nobile di Cappadocia che si rifugiò poi nel Ponto. Dei due figli, tutti e due di nome Ariarate, che il sovrano ucciso aveva avuto da Laodice, gli succedette il primogenito Ariarate VII Filometore, sotto la reggenza della madre Laodice, assalita improvvisamente da Nicomede II di Bitinia, si rivolse a suo fratello Mitridate del Ponto; ma poi sposò Nicomede che occupò il regno di Cappadocia. Mitridate tuttavia intervenne, e respinte le milizie di Nicomede ristabilì Ariarate sul trono di Mazaca, mentre Laodice si ritirava col secondo marito in Bitinia e l'altro figlio Ariarate era mandato a compiere la sua educazione nella provincia romana di Asia. Restaurato Ariarate VII, Mitridate volle che il giovane re richiamasse in patria Gordio, l'assassino di suo padre, e avutone un rifiuto cercò di ricondurre Gordio in Cappadocia con la forza. Ariarate poté opporre all'esercito di Mitridate un esercito non minore; ma Mitridate, invasa la Cappadocia, giocò di astuzia con suo nipote, lo invitò ad un colloquio e lo uccise a tradimento. Mitridate, rimasto padrone della Cappadocia, vi impose come sovrano un suo figlio di otto anni, che proclamò erede legittimo del trono presentandolo come uno dei figli di Ariarate V sfuggito al veleno di Nisa. Il governo fu però tenuto da Gordio, le cui violenze provocarono contro l'usurpatore una sollevazione generale dei Cappadoci, i quali richiamarono dalla provincia d'Asia il secondo figlio di Ariarate VI, fratello dell'ultimo loro sovrano legittimo. Ma Ariarate VIII assalito da Mitridate fu scacciato dalla Cappadocia e morì poco dopo (circa 96 a. C.). Con lui si estinse la discendenza maschile degli Ariaratidi. Eccone la tavola genealogica:
Nella lista dei re di Cappadocia tramandata da Diodoro-Sincello si parla di sette re di Cappadocia che complessivamente avrebbero segnato 160 anni; la notizia deve riferirsi alla dinastia degli Ariaratidi (circa 256-96 a. C.) e nella lista vanno compresi Ariaramne e i sei Ariarate da Ariarate III (che a rigore sarebbe Ariarate I) ad Ariarate VIII.
Contro Mitridate del Ponto Nicomede re di Bitinia provocò l'intervento romano. La regina Laodice si recò a Roma e presentò al senato un bambino che essa diceva essere il terzo figlio del suo primo marito e quindi solo re legittimo di Cappadocia; ma Mitridate mandò Gordio a sostenere presso il senato che il sovrano che egli aveva restaurato a Mazaea, Ariarate IX Eusebe Filopatore, era realmente un figlio di Ariarate V e perciò re legittimo. Il senato ordinò a Mitridate di evacuare la Cappadocia, e decretò che la Cappadocia e la Paflagonia dichiarate libere si governassero a repubblica; ma i nobili della Cappadocia chiesero a Roma il permesso di nominarsi un re. La richiesta fu accolta, e fu eletto un nobile di origine persiana, Ariobarzane I, il quale prese il titolo di Filoromano non ancora portato da altri sovrani (95 a. C.). La nuova dinastia regnò nella Cappadocia per tre generazioni (95-36 a. C.).
Mitridate non si rassegnò alla perdita della Cappadocia e fu sostenuto da Tigrane re d'Armenia; Ariobarzane passò il lungo periodo del suo regno fra le espulsioni per opera di quei due re e le successive restaurazioni per opera dei Romani. Assalito improvvisamente da Tigrane, Ariobarzane dovette fuggire a Roma, mentre nella Cappadocia era posto Gordio come reggente (93 a. C.). I Romani affidarono la restaurazione di Ariobarzane a L. Cornelio Silla, il quale disfece l'esercito di Gordio e un corpo armeno venuto in suo soccorso. Entriamo così nel periodo delle guerre mitridatiche. Partito Silla, Mitridate e Tigrane rinnovarono l'alleanza e mandarono a conquistare la Cappadocia due generali, Bagoas e Mitraas, i quali espulsero Ariobarzane restaurando Ariarate IX, mentre anche Nicomede era scacciato dalla Bitinia. I due sovrani espulsi ottennero l'intervento di Roma, che incaricò M. Aquilio di restaurarli valendosi dell'esercito del proconsole d'Asia Lucio Cassio. Mitridate si sottomise, richiamò il figlio dalla Cappadocia e fece uccidere il suo protetto Socrate in Bitinia. Così era restaurato nel regno di Cappadocia Ariobarzane. Ma, rinnovata la guerra, Mitridate scacciò Ariobarzane e s'impadronì di gran parte dell'Asia Minore. La rivincita romana fu suggellata dalla pace di Dardano conclusa fra Silla e Mitridate (85 a. C.), e la Cappadocia fu occupata da Murena, luogotenente di Silla, che vi restaurò Ariobarzane. Scacciati di nuovo i Romani dalla Cappadocia da Mitridate (82 a. C.), Silla mandò in Asia Gabinio, che riuscì a riconciliare Mitridate con Ariobarzane, il cui figlio sposò una figlia di Mitridate. Poco dopo la Cappadocia fu assalita di nuovo dal re d'Amenia che occupò Mazaca, la cui popolazione fu deportata per popolare la nuova capitale armena Tigranoceria (77 a. C.). Rinnovata la guerra (74 a. C.), Mitridate fu sconfitto da Lucullo che si spinse con Ariobarzane nell'Armenia, e occupò la fortezza di Tamisa che fu restituita alla Cappadocia (69 a. C.). Ripartito Lucullo, Tigrane saccheggiò di nuovo la Cappadocia obbligando Ariobarzane ad abbandonare di nuovo il regno (67 a. C.). L'anno seguente Ariobarzane veniva richiamato sul trono da Pompeo vincitore di Mitridate nella battaglia di Nicopoli. Il regno di Cappadocia ebbe allora qualche ingrandimento, cioè parte della Cilicia con Castabala e Cibistra, la Sofene e la Gordiene.
Nell'anno 63 Ariobarzane abdicò in presenza di Pompeo a favore di suo figlio Ariobarzane II Filopatore, che perì assassinato (52 o 51 a. C.). Il regno di Cappadocia passò al suo primogenito Ariobarzane III Eusebe Filoromano, nato da Atenaide Filostorgo figlia di Mitridate. Cicerone, proconsole della Cilicia, lo riconobbe come re in nome del senato romano. La Cappadocia era tuttavia turbata da gravi agitazioni interne, e cospirò Lontro Ariobarzane lo stesso sacerdote di Comana, Archelao, il personaggio più importante del regno dopo il sovrano. Ma Cicerone scongiurò il pericolo e consolidò il potere di Ariobarzane, inducendo anche Ariarate a riconoscere in pieno i diritti del fratello. In questo tempo la Cappadocia subì ancora degli attacchi da parte di Farnace re del Ponto. Nel periodo delle guerre civili Ariobarzane parteggiò per Pompe0, e diede aiuti anche a Domizio Calvino; ma Cesare gli perdonò e anzi ne accrebbe il territorio assegnandogli una parte della Piccola Armenia. Quando Cesare passò per l'Asia Minore per combattere Farnace (47 a. C.), ristabilì l'accordo fra i due fratelli Anobarzane ed Ariarate. Ariobarzane III fece segnare gli ultimi anni del suo regno sul rovescio delle monete e il suo esempio fu seguito dai suoi successori Ariarate e Archelao. Ariobarzane dopo la morte di Cesare non si mostrò favorevole a Bruto e a Cassio; questi fece saccheggiare il suo regno e poi lo fece uccidere (43 a. C.). Dopo la battaglia di Filippi (41 a. C.) Antonio pose sul trono di Cappadocia Ariarate X ma lo fece mettere a morte dopo sei anni di regno. Con lui si estinse la dinastia di Ariobarzane (36 a. C.). Ormai la sorte della Cappadocia era decisa. Antonio pose sul trono Archelao, figlio del famoso generale omonimo segnalatosi al servizio di Mitridate. Per quanto rimasto fedele ad Antonio nella nuova guerra civile, Archelao fu mantenuto nel regno di Cappadocia da Augusto, il quale tuttavia pose un procuratore romano a fianco del debole sovrano, e ingrandì un'altra volta il regno di Cappadocia con la Piccola Armenia e la Cilicia aspera (20 a. C.). Caduto in sospetto di Tiberio, l'ultimo re di Cappadocia fu chiamato a Roma e accusato davanti al senato; evitò la condanna solo perché vecchio e debole di mente. Colpito da malattia morì poco dopo (17 d. C.). Archelao sulle monete e nelle iscrizioni portò il titolo di Philopatris; sulle monete ha anche il titolo di Ktistes, forse dovuto alla fondazione di Eleussa-Sebaste in Cilicia. Morto Archelao, la Cappadocia divenne provincia romana.
Bibl.: Oltre le opere di carattere generale del Droysen, Niese, Beloch, Bevan, Bouché-Leclercq, Mommsen, Drumann-Gröbe, si veda H.F. Clinton, Fasti Hellenici, III, Oxford 1851, p. 439 segg.; E. Meyer, s. v. Kappadokien, in Ersch-Gruber, Encyklopädie, XXXII, Lipsia 1882, p. 383 segg.; id., Geschichte des Königreichs Pontos, Lipsia 1879; Th. Reinach, Trois Royaumes de l'Asie Mineure, Parigi 1888; id., Mithridate Eupator, Roi de Pont, Parigi 1890; Dittemberg, or. Gr. Inscr., I, Lipsia 1903, nn. 350-364; Catalogue of the Greek coins in the British Museum, Galatia, Cappadocia and Syria, edizione Wroth, Londra 1899; E. Babelon, Traité des monnaies grecques et romaines, II, ii, Parigi 1910, p. 431 segg.; Macdonald, Catalogue of Greek coins in the hunterian collection, II, Glasgow 1901, p. 573 segg.; Ramsay, The historical geography of Asia Minor, Londra 1890, p. 281 segg.; Tscherikower, Die hellen. Städtegründungen, in Philologus, Suppl. XIX, i (1927), p. 41 segg.
La Cappadocia provincia romana.
L'ordinamento della Cappadocia a provincia romana fu da Tiberio affidato a Germanico, allora incaricato della condotta delle cose in Oriente (Tac., Ann., II, 42; Dio. Cass., LVII, 17; Suet., Tib., 37, ecc.). La provincia non fu organizzata secondo l'amministrazione romana, ma mantenne la vecchia divisione in dieci strategie, ognuna delle quali era retta da uno stratego, specie di capo locale. ll governo di tutta la provincia fu infine affidato non a un legato, ma a un procuratore imperiale, il quale come tale non disponeva di un esercito: in caso di necessità egli doveva far ricorso all'esercito stanziato in Siria. Ma la posizione della provincia ai confini dell'impero, e ai confini così delicati, militarmente e politicamente, con il regno dei Parti (v. armenia), non poteva non richiedere in breve tempo un aumento del prestigio e della forza del governatore della Cappadocia: ciò avvenne sotto Vespasiano nell'anno 70 d. C.: prima una legione (la XII Fulminata), poi un'altra (la XV Apollinaris) furono inviate nella regione, e il governo di questa venne affidato a un legato di rango consolare, che riunì tuttavia nelle sue mani anche il governo della vicina Galazia (v.). Traiano, nel riordinamento generale delle estreme provincie orientali, staccò la Cappadocia dalla Galazia, mantenendo alla prima il governo di un legato consolare e riunendo con essa alcune regioni del Ponto (Ponto Galatico, Polemoniaco e Cappadocico) e l'Armenia minore, che prima non ne facevano parte. Anche l'Armenia maggiore, per il breve periodo in cui fu provincia romana, stette unita alla Cappadocia; a questa fu più tardi aggregata anche la Licaonia (Tolem., V, 6). La provincia aveva pertanto per confini a ponente la Galazia, a mezzogiorno il Tauro, che la divideva dalla Cilicia e dalla Siria, a levante l'Eufrate, a settentrione la provincia del Ponto e il mare; è tuttavia da notare che subito dietro la linea della costa, su cui erano varie fortezze presidiate da guarnigioni romane, fra cui Trapezunte (Trebisonda) e Dioscuriade o Sebastopoli, si stendeva una zona impervia e selvaggia, il cui governo i Romani stessi avevano preferito lasciare, pur sotto la loro sovranità, nelle mani di capi indigeni; su questo cî informa Flavio Arriano (Per., 26), lo scrittore del tempo di Adriano, che fu governatore della Cappadocia fra il 131 e il 137. L'importanza della provincia fu sempre prevalentemente militare: ché, oltre le due legioni già dette, la presidiavano corpi ausiliarî regolari e truppe indigene irregolari. Dal punto di vista civile la regione, come per la stessa sua natura geografica, eminentemente continentale, montuosa e poco popolata, era rimasta sempre piuttosto chiusa alla penetrazione dell'ellenismo, così si dimostrò del pari refrattaria alla romanizzazione. L'ordinamento cittadino, ristretto al momento della costituzione della provincia a quattro città, fra cui Mazaca e Tiana, non aveva fatto nel quarto sec. a. C. grandi progressi: oltre Mazaca, ribattezzata, forse da Augusto, col nome di Cesarea e divenuta la capitale della provincia, si possono ricordare Tiana e Archelaide, divenute colonie la prima sotto Caracalla, la seconda sotto Claudio, Faustinopolis, così chiamata da M. Aurelio in ricordo della moglie sua che ivi morì, e poche altre.
La gran parte del territorio della provincia era occupata da villaggi (κῶμαι) di contadini e di pastori, che coltivavano la terra per conto dei grandi proprietarî, fra cui tenevano il primo posto gli imperatori (Not. dign. per or., 10, 2), e dai venerati templi delle divinità locali (Rostovtzeff, Social and economic history of the Rom. Empire, p. 237). Ciò spiega anche la scarsezza di rovine nella regione, nella quale tuttavia i Romani circondarono con speciali cure, come sempre, la viabilità, destinata a facilitare insieme il commercio e la difesa. L'amministrazione delle proprietà imperiali era, come di solito, nelle mani di procuratori.
Con l'ordinamento dioclezianeo la provincia fu frazionata in sette provincie minori: il Diosponto o Ellenoponto, con Amasia, Amiso e Sinope; il Ponto Polemoniaco con Neocesarea, Comana e Trapezunte; la Cappadocia prima con Cesarea; la Cappadocia seconda con Tiana; la Licaonia con Iconio; l'Armenia prima con Satala; l'Armenia seconda con Melitene; mentre le prime sei dipendevano dalla dioecesis pontica, l'ultima rilevava dalla dioecesis Asiana.
Bibl.: J. Marquardt, Organisation de l'empire romain, II, Parigi 1892, p. 289 segg.; E. De Ruggiero, Diz. epigr., II, Roma 1900, p. 95 segg.
Arte.
I monumenti cristiani della Cappadocia sono importanti così per la loro architettura come per la loro decorazione. I più noti sono certamente le chiese e i monasteri rupestri, ma anche gli edifizî in muratura, benché meno numerosi, meritano attenzione. Le chiese mostrano una grande varietà di tipi, che si succedettero dal sec. IV-V al XII o XIII. La forma più antica sembra esser stata la basilicale, a tre navate, come nelle chiese più notevoli (Andaval presso Nigde), o a due (Tilköy presso Soǧanle, per lo meno nello stato più recente di questo monumento), o anche a una sola navata nelle cappelle più piccole (Ağkilise a Soǧanle). Quasi altrettanto antica è la forma ottagonale, quale è descritta da S. Gregorio Nażianzeno: ottagono con cupola su due ordini di colonne circondato da ambulacro; oppure come la descrive S. Gregorio Nisseno, con quattro braccia così da combinare la pianta ottagonale con la cruciforme. Nelle rovine esistenti, la forma ottagona si trova particolarmente a Suvasa, a occidente di NevŞehir. Un po' più recenti sono le chiese a croce latina: si trovano soprattutto nella parte orientale della Cappadocia (Tomarza e la chiesa presso Kavak Kilise a Buzluk; Skupi, ecc.). Queste costruzioni rivelano una forte influenza armena, tanto nell'alto tiburio a tetto conico sull'incrocio del transetto, quanto nella decorazione esterna delle pareti. A Kezel Kilise, più ad occidente, nella regione di Hasan Daǧ, la pianta si complica con una navata laterale a sinistra della principale; ma la decorazione esterna è più semplice, le pareti sono nude e all'influenza armena si unisce la bizantina, anche più visibile a Çanle Kilise, nella stessa regione. La pianta di questa chiesa è una croce iscritta in un quadrato, con cupola sorretta da quattro pilastri; nelle pareti di conci risaltano i mattoni che segnano arcatura, chiavi d'arco, cornici. Oltre a queste chiese isolate vi è un gruppo notevole di edifizî religiosi sul fianco meridionale del monte Argeo non lontano da Everek, nei quali, benché la pianta sia basilicale, l'architettura si avvicina a quella della Cappadocia orientale sotto influenze prevalentemente armene. In tutte queste costruzioni la muratura esteriore è severa, ma accurata. I muri sono fatti di grossi blocchi tagliati con esattezza e la decorazione si compone di pilastri spesso disposti in due ordini e di cornici ricorrenti a diverse altezze e che s'incurvano per incorniciare porte e finestre. Particolarità notevole è la forma dell'arco a sesto rialzato già nei monumenti più antichi nelle absidi (Andaval) e poco dopo negli archi (Tomarza). La cupola s'innesta all'ottagono o al quadrato di bise mediante tre sistemi: aggetti di pietra (Suvasa, Tomarza), raccordi conici (Kezel Kinse) e pennacchi (Çanle Kilige). Un sistema di copertura che si riscontra ancora nelle costruzioni modeme della regione, come anche nelle zone vulcaniche della Siria, e che certamente dovette essere adoperato dagli antichi, consiste in lastroni di pietra collocati su archi trasversi paralleli assai accostati; per gli spazî più ampî la copertura normale è a volta di conci accurati. Le chiese rupestri non hanno pianta differente dalle altre, ma non ve ne sono di ottagone: sono basiliche a tre navate (Çauṣ In); a navate rettangolari semplici o doppie (Sant'Eustachio a Göreme); a croce libera; a croce inscritta in un quadrato alla foggia bizantina (ma solamente dopo la fine del sec. X: Karanlek Kilise a Göreme). Vi si trova pure una forma che negli edifici in muratura sembra propria della Mesopotamia superiore: una navata rettangolare, più larga che lunga, coperta in vòlta a botte con l'asse perpendicolare a quello della chiesa. L'esempio più bello di questo tipo trovasi a Göreme nella seconda parte di Tokale Kilise: la chiesa dapprima non aveva che una navata rettangolare con un'abside; sostituita poi da una navata trasversa a tre absidi. All'esterno le chiese rupestri hanno decorazioni assai semplici, al disopra della porta, con un arco a sesto rialzato e talvolta una serie di archi più piccoli e di egual forma; ma spesso non c'è che la porta e senza alcun ornamento. Eccezioni notevoli: la chiesa di Belli Kilise a Soǧanle, scavata in una roccia conica, la cui cima è stata scolpita a forma di torre con tetto a punta, indizio dell'influenza armena e la chiesa di Çauṣ In, nella quale il portico, formato d'archi a tutto sesto, e la decorazione della facciata a strisce ricordano, invece, la Siria. Quest'edificio nella sua architettura esterna presenta un tipo raro, e deve esser considerato come uno dei più antichi della regione. Le chiese e le cappelle rupestri sono numerosissime in tutta la parte vulcanica del monte Argeo e del Hasan Dağ, unite ad eremi o monasteri, parimenti scavati nelle rupi. Non è possibile citare qui tutti i luoghi dove se ne trovano, ma meritano di essere ricordati i gruppi di chiese decorate di pitture: a Göreme fra Urgub e NevŞehir, cui si possono unire le chiese di Maçan, Çauṣ In e Zilve; a Urgub e a Sinassos; a Soğanle e a Potamia, più al sud. Se si eccettua una decorazione a Mavrucan, presso Potamia, che sembra anteriore al periodo iconoclasta, e tre o quattro altre decorazioni, che forse appartengono allo stesso periodo, il complesso delle pitture di Cappadocia risale al periodo fra il sec. X e il XIII; alcune soltanto esistenti in santuarî rimasti in possesso dei cristiani dopo la conquista musulmana furono restaurate e forse anche eseguite in epoche più recenti. Durante l'epoca iconoclasta la decorazione fu principalmente, benché non esclusivamente, di tipo lineare e floreale; ma dopo, come prima, si compose soprattutto di scene della vita di Cristo e, più di rado, delle vite dei santi, nonché di figure isolate, dipinte in piedi o in medaglioni. Sono di due diversi periodi due modi diversi di decorazioni. Nel sec. X e al principio dell'XI le scene evangeliche formano fregi continuati, in cui le figure si susseguono ininterrottamente da sinistra a destra. I soggetti sono trattati in modo aneddotico, poiché una scena è spesso composta di parecchi episodî, con ricerca di particolari concreti e di gesti espressivi e vivi. Molti soggetti, soprattutto per la storia della Madonna e dell'infanzia, passione e risurrezione di Gesù, sono ricavati dai vangeli apocrifi. Nel sec. XI si fa sentire, così nella pittura come nell'architettura, l'influenza bizantina, conseguenza delle vittorie che sotto Niceforo Foca, Giovanni Zimisce e Basilio II ricacciarono gli Arabi al di là della Cilicia, ristabilendo la pace in tutta l'Asia Minore. Allora le relazioni con la capitale si moltiplicarono e le concezioni bizantine influirono sulla struttura e sulla decorazione delle chiese. Le scene non formano più un racconto continuato, ma rappresentano in altrettanti quadri separati i principali misteri di Cristo corrispondenti alle feste più solenni, raggruppate non in ordine cronologico, ma secondo l'aspetto teologico o liturgico. Il trattamento dei soggetti è diverso: meno concreto, ricorda maggiormente i grandi mosaici bizantini della stessa epoca (p. es. la Cena).
Il valore artistico delle pitture della Cappadocia è mediocre; esse occupano tuttavia un posto importante nella storia dell'arte cristiana, perché mostrano nei cicli arcaici un esempio di quell'arte monastica e popolare che, nata in Siria e in Palestina nei secoli V e VI, estese poi la propria influenza sull'Europa del Medioevo. Da una parte l'iconografia cappadocia presenta in punti importanti non poche analogie con quella delle ampolle, incensieri, braccialetti, eulogi ed altri oggetti provenienti dalla Palestina, o con i manoscritti, come i codici di Rabula o di Rossano, e il frammento di Sinope (questi due ultimi probabilmente originarî dell'Asia Minore), tutti del sec. VI o VII. D'altra parte la medesima iconografia si ritrova in Occidente nelle pitture e nei mosaici. di Roma dal sec. VIII al sec. XI e nell'arte romanica del secolo XII. Non si può certo sostenere che vi sia stata un'influenza diretta della Cappadocia sull'Europa occidentale; ma quest'influenza venne esercitata da tutto l'insieme dell'arte monastica orientale per mezzo delle miniature dei manoscritti o delle immagini che ornavano i piceoli oggetti d'uso comune (placchette d'avorio, cofanetti di metallo), che pare abbiano spesso ispirato gli artisti occidentali. Talvolta anche, specie a Roma, le pitture furono eseguite da artisti orientali. I centri della produzione monastica orientale sono scomparsi lasciando solo in Cappadocia un insieme così completo, coerente e datato con esattezza e perciò questa regione ci si presenta come l'intermediaria che mancava nella serie dello svolgimento iconografico dell'arte cristiana. (V. tavv. CCIX e CCX).
Bibl.: J. Strzygowski, Kleinasien, ein Neuland der Kunstgeschichte, Lipsia 1903; H. Rott, Kleinasiatische Denkmäler aus Pisidien, Pamphylien, Kappadokien und Lykien, Lipsia 1908; W. M. Ramsay e G. Bell, The thousand and one churches, Londra 1909; G. de Jerphanion, Une nouvelle province de l'art byzantin. Les églises rupestres de Cappadoce, Parigi 1925 segg.