GUELFUCCI, Capoleone
Nacque a Città di Castello il 23 nov. 1541 da Brancaleone e da una Margherita di Giovanni Paolo del quale è ignoto il cognome.
I Guelfucci erano un'antica famiglia di parte guelfa insignita di varie signorie nel territorio tifernate; il dominio su Città di Castello, rimasto stabile per tutto il Medioevo, venne interrotto dall'intervento della famiglia Vitelli, tanto che la famiglia fu costretta a prendere il nome dei Capoleoni.
Nel 1558 il G. si trasferì a Roma per iniziare gli studi di diritto. Tornato nella città natale, nel maggio 1564 sposò Tarquinia de Lili, che gli avrebbe dato otto figli, di cui tre avrebbero intrapreso la vita sacerdotale, divenendo uno gesuita e due frati cappuccini. Tutta la famiglia era molto religiosa; Tarquinia, in particolare, aveva una profonda devozione mariana: il G., in una delle terzine rimaste inedite e indirizzate alla poetessa tifernate Francesca Turina Bufalini (nota anche con il cognome Turrini, 1554-1641), la descrive come una fervente devota del Rosario. Inoltre, il G. ricorda nei suoi versi le numerose opere di beneficenza per cui si era distinta la propria famiglia: in particolare le somme destinate alla fondazione e al sostentamento del convento di Buonriposo a Città di Castello.
Intorno ai trent'anni il G. si ammalò di una malattia "che gli addolorava i nervi" (Muzi, 1844, p. 183) e che lo avrebbe afflitto tutta la vita, inducendolo più volte a lamentarsi anche nei suoi versi. La serietà del male non ostacolò, comunque, la carriera pubblica che il G. doveva avere già avviato nel 1582. In quell'anno, infatti, prestò giuramento come consigliere dei Quaranta di Città di Castello, carica elettiva di durata quadriennale e che gli venne rinnovata nel 1588.
Il Consiglio dei quaranta era un organo dell'amministrazione locale istituito dalla riforma varata nel 1559 da monsignor Giovanni Battista Castagna, governatore di Perugia e commissario di Paolo IV che sarebbe poi salito al soglio pontificio con il nome di Urbano VII.
Fin dal primo mandato, gli sforzi del G. si indirizzarono a favorire varie iniziative a beneficio di enti ecclesiastici, con ciò proseguendo la tradizione familiare. Nel 1582 egli caldeggiò un insediamento di teatini, rendendo disponibile una grossa somma di denaro da investire nell'opera; il progetto sfumò insieme con un altro caldeggiato dal G. che prevedeva la costruzione di un collegio di gesuiti. Il 3 giugno 1589 provvide, insieme con Alessandro Bernardini, a reperire il terreno su cui edificare il nuovo convento dei cappuccini, nelle vicinanze della sua abitazione, fuori porta S. Egidio, e fu tra i sovrintendenti alla fabbrica.
L'attività pubblica del G. si distinse anche per la soluzione di controversie tra privati. Si adoperò per ricomporre le discordie tra le famiglie Fucci e Alcrigi da una parte e Muzi e Cerboni dall'altra: la sua intercessione andò a buon fine, tanto che si giunse alla proclamazione ufficiale dell'avvenuta pacificazione, siglata nella cattedrale da tutte e quattro le famiglie, alla presenza del cardinale Alessandro Riario, legato di Perugia e della provincia dell'Umbria. Nel settembre-ottobre 1584 il G. ricoprì la carica di gonfaloniere; fu priore del Popolo numerose volte (settembre-ottobre 1585, luglio-agosto 1586, marzo-aprile, novembre-dicembre 1590, luglio-agosto 1596 e 1598). Varie altre cariche si succedettero nel corso degli anni Ottanta e Novanta: fu sindaco del convento di S. Domenico nel 1582 e nel 1596, deputato dell'Annona nel 1582 e nel 1586, riformatore delle scuole nel 1582 e revisore delle stesse nel 1582, nel 1596 e nel 1598, officiale del Collegio della mercanzia nel 1584, deputato ai ponti e alle strade nel 1585. Per sua iniziativa furono erette le scuole di filosofia e di legge.
Nel 1584 ebbe inizio l'attività storiografica: su richiesta dell'agostiniano Taddeo Guidelli da Gioiello il G. fu incaricato di scrivere le memorie storiche di Città di Castello, che avrebbero dovuto servire all'opera che appunto il Guidelli stava scrivendo sulle città d'Italia. Il Comune di Città di Castello aveva in realtà già ricevuto tale richiesta nel luglio 1580, da parte di Aldo Manuzio, che però dovette poi abbandonare l'impresa storiografica.
La vocazione all'otium letterario, che il G. coltivò assiduamente producendo numerose rime d'occasione rimaste tutte inedite, si tradusse, sul finire degli anni Novanta, in un'impresa poetica tale da assicurare al suo autore un'immediata celebrità. Allo sviluppo dell'esercizio accademico contribuì in modo decisivo l'amicizia con la Turina Bufalini, coltivata nel corso del 1585. Durante una prima fase, il loro legame si materializzò in un fitto scambio di versi, dai quali emerge la comune devozione religiosa. I sonetti, le odi e i madrigali composti dal G., tutti dedicati alla poetessa, sono raccolti in un manoscritto anonimo conservato nella biblioteca di Arezzo, quasi certamente non autografo (Gamurrini, p. 322). Proprio al Gamurrini, nei primissimi anni del Novecento, si deve l'attribuzione al G. del corpus poetico, fino ad allora ritenuto opera di Francesco Redi.
Certo è che il G. non si limitò a indirizzare versi alla sua amica; la assistette infatti durante la composizione del poema epico Il Florio rimasto inedito. A indicargli una nuova fase letteraria fu, tuttavia, un'altra opera della poetessa: le Rime spirituali sopra li misteri del Ss. Rosario (Roma 1595, con dedica a Clemente VIII). Il G., incoraggiato dai temi religiosi contenuti in quei versi, iniziò a concentrarsi in particolare proprio sul Rosario. Sul finire della vita pervenne così alla composizione di un poema eroico, in ottave, dedicato alla celebrazione dei quindici misteri del Rosario, che lasciò, morendo, ultimato, sebbene non rifinito dall'ultima mano. I figli provvidero alla pubblicazione del Rosario della Madonna, che uscì a Venezia nel 1601 presso l'editore N. Polo e sotto il cognome inspiegabilmente mutato in Ghelfucci. Nella terza ottava del poema si legge la dedica alla poetessa amica, cui il G. riconosce il merito di avergli ispirato l'idea di un poema religioso. Il figlio Lodovico aggiunse la dedica al cardinale Cinzio Aldobrandini.
La scelta del tema del Rosario è di per sé piuttosto significativa. Sulla spinta delle iniziative controriformistiche, la devozione al Rosario si era andata, infatti, sempre più discostando dall'ambito elitario delle confraternite, per dirigersi verso esiti più popolari. Negli anni di composizione del Rosario della Madonna, dunque, la pratica devozionale era uscita dall'ambito privato, individuale, e aveva iniziato a occupare un posto centrale nell'esperienza religiosa popolare.
Il poema è suddiviso in 34 canti scanditi in tre parti: a cominciare dalla disubbidienza di Adamo, la prima (I-X) ripercorre gli episodi evangelici salienti dall'annunciazione alla fuga in Egitto; la seconda (XI-XXIII) è dedicata alla vita di Gesù, dalla prima giovinezza al martirio e alla deposizione; nella terza parte (XXIV-XXXIV), tra vari altri episodi, è narrata la discesa di Gesù nel limbo e l'assunzione in cielo di Maria. Il canto XIV contiene l'elogio della politica di Clemente VIII, mentre nel canto XXX è contenuto un elogio della famiglia Vitelli, in particolare di Giulio Vitelli.
Il poema, che aveva avuto già una vasta circolazione manoscritta, conobbe un immediato successo editoriale: ne vennero stampate altre quattro edizioni a Venezia, nel 1603, 1606, 1610, 1616, e altre nell'Italia settentrionale (Genova 1602; Milano s.d.). Non mancarono espliciti apprezzamenti già a partire dai contemporanei. Scipione Francucci nel Trionfo celeste (Viterbo 1616, parte I, ott. 82) compose un elogio dell'opera. Ma il riconoscimento più clamoroso fu opera di Adriano Politi che, in una lettera al conte G. Pannocchieschi d'Elci, antepose il poema del G. addirittura alla Commedia di Dante, attirandosi, secondo la testimonianza del Crescimbeni, le accuse dell'Accademia della Crusca. Nel secolo successivo l'opera del G. fu elogiata da Saverio Beni e da Matteo Perchiè da Vigliano, secondo quanto riportato da Giusto Fontanini nell'Eloquenza italiana (Roma 1706). Dopo il silenzio di G. Tiraboschi, fu l'Ottocento a tributare all'opera del G. i riconoscimenti maggiori: nel 1820 il canonico Giulio Mancini, in un elogio letto nell'Accademia dei Liberi e rimasto inedito, lo giudicò pari ad Ariosto e a Tasso.
Di altre opere del G. non si hanno che sporadiche notizie: sembra che abbia composto un poema sulla beata Margherita e vari inni dedicati ad alcuni santi.
Il G. morì a Città di Castello ai primi di febbraio del 1600.
Fonti e Bibl.: L. Iacobilli, Bibliotheca Umbriae, Fulginiae 1658, p. 81; G. Muzi, Memorie ecclesiastiche e civili di Città di Castello, IV, Città di Castello 1843, p. 215; V, ibid. 1843, p. 228; Id., Memorie civili di Città di Castello, II, Città di Castello 1844, pp. 183-191; U. Cosmo, Le polemiche tassesche, la Crusca e Dante sullo scorcio del Cinque e il principio del Seicento, in Giorn. stor. della letteratura italiana, XLII (1903), p. 131; G.F. Gamurrini, Delle amorose poesie di C. G., in Boll. della Deputazione di storia patria per l'Umbria, XV (1909), pp. 321-333; U. Limentani, La fortuna di Dante nel Seicento, in Studi secenteschi, V (1964), p. 7; M. Rosa, Religione e società nel Mezzogiorno. Tra Cinque e Seicento, Bari 1976, pp. 223 s.; E. Ciferri, Tifernati illustri, II, Città di Castello 2001, pp. 148-151.