CAPODIFERRO (De Cotiferinis, Codiferri, Codeferini, Capi Di Ferro)
Famiglia di artefici, originaria di Lovere (lago d'Iseo); a Bergamo si dedicò, nei secoli XV e XVI, prevalentemente all'arte dell'intaglio in legno e della silotarsia. Molto probabilmente, attraverso la modellazione artigianale di cornici, di mobili, di tavolette e di oggetti casalinghi d'uso comune, questi lavoratori del legno si perfezionarono sempre più fino a giungere ai fastigi dell'intarsio artistico copiando da modelli pittorici vieppiù elaborati e complicati, improvvisando veri mosaici con tessere lignee di diversi legni e di vari formati, architettando e inventando quasi un nuovo genere di pittura, colorita senza pennello e senza colori, di grande effetto impressionistico e scenografico i cui segreti vennero passati di padre in figlio. Se autonomi, locali e progressivi furono i perfezionamenti in questa nuova e singolare arte, è da ritenersi, in gran parte, svuotata di contenuto e di interesse la polemica, accesa tra gli studiosi, circa l'individuazione della radice di tale tecnica e di simili apprendimenti, ritenuti attinti da scuole e da maestri di Venezia, di Padova e di Verona, città in cui l'arte del "commesso", già emigrata dalla Toscana, si era insediata mirabilmente dagli inizi del Quattrocento. Non è improbabile che anche i C., come altri artefici della lavorazione del legno, si siano recati a Venezia a perfezionare il loro avito mestiere. L'impronta della loro arte è innegabilmente veneta, ma ciò deve essere riferito soprattutto ai modelli pittorici scelti da riprodurre in tarsie e non già alla tecnica della lavorazione che può aver avuto diversa origine.
Giovanni Francesco fu il primo della famiglia che raggiunse notorietà per le sue composizioni improntate ai canoni dell'arte rinascimentale con fattura di squisita eleganza e di sobria delicatezza; con lui l'arte della tarsia pittorica raggiunse tale perfezione da permettere di individuare nelle sue composizioni i caratteri artistici dei pittori da cui traeva i modelli. Figlio di un maestro Giovanni, del quale nulla sappiamo ma che possiamo intuire gli sia stato maestro, nacque probabilmente alla fine del sec. XV o nei primi anni del successivo dato che il 4 marzo 1521 sottoscrisse un atto notarile il quale stabiliva che si sarebbe recato a Bergamo, "ad addiscendum artem carpentariae et tarsiae" presso fra' Domenico Zambelli nel convento di S. Stefano (il documento reperito da A. Meli è citato parzialmente da P. V. Alce, O.P., IlCoro di S. Domenico in Bologna, Bologna 1969, p. 59).
Sembra certo che lo scolaro, il quale doveva presto raggiungere i meriti dell'illustre maestro, sia stato suo collaboratore nelle tarsie del coro di S. Stefano (poi trasportate in S. Bartolomeo) che risalgono allo stesso periodo. Comunque un anno dopo Giovanni Francesco è chiamato dai presidenti del Consorzio della Misericordia Maggiore, in Bergamo, ad eseguire "uno bello, honorifico et laudabile Choro, presbiterio, banchi, et ornamenti de la Capela grande nela giesa di S. Maria Magior, ben cornisato et lavorato de intalio et de commisso et prospetiva", come si esprime il contratto in data 7 ott. 1522 (Locatelli, pp. 13-18). Questo contratto e i diversi pagamenti, segnati nel Liber Fabrice Chori dell'archivio del Consorzio dalla data del 28 sett. 1522, da quando, cioè, venne delberata l'assunzione del maestro lignario qualificato "faber in lignaris scultura seu commissura non mediocris" (vol. 16º, f. 69v), restano le scarse fonti per studiare la sua vita e la sua opera.
Il contratto con i presidenti della Misericordia Maggiore è ad personam, e non alla bottega, onde Giovanni Francesco si obbliga "bene, fedelmente, diligentemente et cum ogni cura, diligentia, sollecitudine, peritia et ingegno" a lavorare "de intalio et Comisso et prospetiva, presentando el modello sui modelli et disegni che saranno consegnati a ditto M.ro Io. Francisco per li spettabili domini Deputati". Né d'altra parte egli doveva avere una bottega propria in città se il Consorzio mise a disposizione locali propri, dove attese all'opera con l'aiuto di un garzone permanente (Angelo Ferri da Romanengo) e con altri maestri scelti sotto la sua responsabilità e consigliati al Consorzio come "apti a tal opera et in quali usare quella diligenza et fedeltà come facessi in causa sua propria rimosso ogni amor e amor proprio". A Giovanni Francesco incombeva l'obbligo di ripartire gli onorari tra aiuti maggiori e minori in proporzione dell'aiuto ricevuto, mentre il Consorzio si obbligava a dare e consegnare "tutte le materie e legname, framenti, colore di qualunque altra sorte bisogneranno in detta opera". All'artista spettava ancora la fornitura di "tuti gli instrumenti... per lavorare".
Oltre all'alloggio, la Misericordia Maggiore forniva ai lavoratori viveri (bevande, farina, pane, carne e vino: "bocali 106 per brenta"), legna e carbone per riscaldarsi "honestamente" al tempo dell'inverno, olio, sale, candele, lenzuoli, tovaglioli, e tutto quanto altro potesse occorrere per un decoroso sostentamento, inventariando gli oggetti d'uso e rendendo buon conto a levare dal salario di mese in mese. La mercede era fissata in "soldi ventidoy et denari sey de imperiali per cadauno zorno lavorativo". Il Consorzio si assumeva anche il rimborso delle spese di viaggio "a qualche cita de Lombardia per vedere simile opera per milior instrutione".
Avvalendosi di tale facoltà Giovanni Francesco si recava, il 13 nov.1522, a Brescia per provvedersi di legname ed iniziare i lavori. Il 17 luglio 1523andò a Treviglio da Bernardino Zenale "a causa consulendi sub modulo chori" (Locatelli, p. 190) e nell'anno 1525, fuori dalla Lombardia, si recò a Venezia e Padova "in die 27octobris usque diem 7 nov.", probabilmente per esaminare opere di tarsia e meglio istruirsi circa i lavori che stava compiendo. I disegni per il coro erano stati affidati, su incarico diretto dei presidenti del Consorzio, ad insigni pittori, tra i quali Andrea Previtali, Alessandro Buonvicino detto il Moretto da Brescia, e soprattutto Lorenzo Lotto. Giovanni Francesco doveva uniformarsi alle dettagliate istruzioni che i singoli pittori gli inviavano al fine di tradurre nel legno non puramente i tratti disegnativi, ma anche la concezione artistica dei soggetti trattati.
Singolare ed illuminante è stata la scoperta del Meli delle lettere (pubblicate dal Chiodi) intercorse tra il Lotto ed i presidenti della Misericordia Maggiore circa l'esecuzione dei lavori d'intarsio affidati a Giovanni Francesco. Da esse si apprendono non soltanto le preoccupazioni artistiche del Lotto affinché fossero rispettati e ben riprodotti i cartoni, che inviava di volta in volta da Venezia, ma altresì l'affettuosa e rispettosa amicizia che univa nella reciproca stima i due grandi artisti.
Senza entrare nel merito delle indicazioni tecniche fornite a più riprese dal Lotto (Chiodi, pp. 32, 38, 39, 50, 61, 65), dalla lettera indirizzata a Gerolamo da San Pellegrino, notaio della Misericordia Maggiore, datata da Venezia il 18 luglio 1526 (ibid., lett. IX, p. 36), quasi sfogo spontaneo dell'animo sensibilissimo del Lotto, si può arguire che Giovanni Francesco venne appoggiato dal Lotto nell'assunzione del lavoro per la Misericordia Maggiore, a danno di fra' Damiano. Non è improbabile, anzi, che il Lotto sia stato chiamato a giudicare, con altri pittori, i modelli presentati dai numerosi concorrenti ed abbia contribuito con il suo autorevole parere a dare la palma della vittoria per l'allogazione a Giovanni Francesco, non già per amicizia, ma per merito. Ed è troppo naturale che fra' Damiano Zambelli si fosse sentito toccare nell'amor proprio di maestro dello stesso Giovanni Francesco e abbia contribuito a diffondere calunnie sui rapporti intercorrenti tra i due artisti. La calunnia doveva essere assai grave, considerate le dure parole di riprovazione del Lotto. Per mancanza di documenti non ci è dato di precisarne la natura, ma il fatto che il Lotto l'abbia sopportata in nome dell'amicizia che lo univa a Giovanni Francesco dimostra che lo stesso era degno di tanta prova.
Questa attestazione di stima e di lode del Lotto è più che sufficiente a dimostrare il valore dell'ingegno artistico di Giovanni Francesco che, da parte sua, tanto si applicò al lavoro da riuscire ad infondere nelle sue tarsie lignee l'arte sovrana del Lotto, superando le non piccole difficoltà dell'impresa. È impossibile, ancor oggi, stabilire con sicurezza quali e quante siano le tarsie da lui eseguite. Però dal contesto delle lettere dell'artista alla Misericordia Maggiore e dalle prove dei pagamenti registrati sui libri contabili del Consorzio si può tranquillamente affermare che sono opera sua quasi tutte le tarsie sul presbiterio e sui postergali del coro di S. Maria Maggiore, dal lato della sagrestia, con le Storie bibliche, disegnate quasi tutte dal Lotto, e le quattro grandiose e più imponenti, davanti alla balaustra del presbiterio e i relativi coperchi. La controprova, per queste ultime, è data da un cartello nella tarsia raffigurante la Fine di Sansone tradito da Dalila che reca la seguente firma: "Opus Io: Francisci De Capite Ferreo B'gomesis". Anche nel quadretto del coro, dove è raffigurato il Sacrificio di Enos o la preghiera senza vittime èscolpita in anagramma la stessa firma: "Opus Io. Fran D Cap. Ferr. Berg.", ciò che prova come anche le tarsie del coro nell'abside, riflettenti gli stessi caratteri stilistici, siano da attribuire a Giovanni Francesco. Questi in precedenza aveva dato prova della sua abilità di intarsiatore presentando alla Misericordia Maggiore, per l'allogazione, un'Annunciazione, quella stessa conservata sulla spalla di sinistra all'inizio del coro semicircolare (Chiodi, p. 17), dove sembra che il disegno sia stato attinto dal Previtali o dal Giambellino.
Iniziato il lavoro per il coro di S. Maria Maggiore, appena dopo la firma del contratto, all'incirca verso la fine del 1522, Giovanni Francesco lo continuò quasi ininterrottamente fino all'ottobre del 1533, cioè per oltre dieci anni, con una perizia grandissima, così da meritarsi le lodi unanimi dei presidenti della Misericordia Maggiore e degli stessi pittori autori dei disegni che ritrovavano immutato il loro stile riprodotto magistralmente nelle tarsie. L'opera di Giovanni Francesco è stata, a tale proposito, acutamente paragonata a quella di un traduttore, che rende in altra lingua, interi e perfetti, i versi ed i concetti di un poeta (Locatelli, p. 25).
Benché il lavoro assunto da Giovanni Francesco per il coro fosse assai impegnativo, ciò non di meno egli poté, ottenendone il prescritto permesso dai presidenti della Misericordia Maggiore, dedicarsi ad altre commissioni. Così il 6 febbr. 1526 intagliò e scolpì "unum tabularium de commisso M. Domino tunc Potestati Bergomi" ed il 28 marzo 1531 fece un oratorio o inginocchiatoio intarsiato a figure ed ornato, proprio per ordine dei presidenti del Consorzio, di cui si è perduta ogni traccia (Liber Fabrice Chori, f. 103).
Di lui non si sa né dove, né quando, né come morisse. Il Tassi (I, p. 67), notando che nel Liber Fabrice Chori dopo l'ottobre del 1533 non sono più segnati pagamenti a suo favore - gli ultimi due quadri furono dedicati alle Storie di Sansone -, ritiene di poter dedurre che in quel tempo sia morto, tanto più che i lavori del coro rimasero sospesi per parecchi anni. Sembra, però, incredibile, se egli fosse morto durante i lavori, che i presidenti della Misericordia Maggiore non si fossero preoccupati di tumularne la spoglia proprio nella chiesa che aveva arricchito del suo lavoro.
Giovanni Pietro, fratello di Giovanni Francesco, venne chiamato da Lovere a Bergamo da quest'ultimo e impegnato nei lavori del coro di S. Maria Maggiore. Infatti, nel Liber Fabrice Chori (f. 63) sotto l'anno 1530 è segnato un pagamento per aver lavorato due piedistalli e tre tarsie. Il suo nome scompare fino al 29 maggio 1553, quando è chiamato dai presidenti della Misericordia Maggiore per ultimare i lavori del coro, lasciati interrotti dalla presumibile morte del fratello. Si può ammettere che egli fosse subentrato in loco et iure defuncti, e cioè che fossero demandati a lui anche i compiti di sovraintendenza e direzione di tutti i lavori. In tale data è segnata nei pagamenti la spesa di "un nolo di cavallo et sua mercede per venire... a Bergamo" da Lodi, dove si era, evidentemente, da poco trasferito. Gli è concessa una dilazione di tre mesi per riprendere i lavori del fratello; e quasi ininterrottamente, da questa data fino al febbr. 1555, si applica al compimento del coro. In tale arco di tempo, nel maggio 1554, è inviato a Milano per la provvista di legname a nome e per conto del Consorzio.
Non è insignificante che nei pagamenti sia sempre qualificato come "intagliatore" forse per sottolineare la sua specialità nella scultura del legno piuttosto che nella commettitura degli intarsi (il Finocchietti, p. 116, dice che "egli eseguì in Lodi molte cornici e piedestalli per i pittori Piazza"). Ebbe alle sue dipendenze, come garzoni, oltre a Zinino, figlio di Giovanni Francesco, Giorgio e Rocco di Lodi, che aveva portato con sé a Bergamo, ma che lavoravano anche da soli in opere fabbrili.
L'ultima partita ed il relativo pagamento in Bergamo da parte del Consorzio della Misericordia Maggiore è in data 21 marzo 1556 per somme piuttosto esigue (Liber Fabrice Chori, ff. 122 s.). Dopo questa data Giovanni Pietro ritornò a Lodi, non avendo più avuto alcuna occasione di eseguire a Bergamo altri lavori.
Anche se l'incarico ricevuto può essere attribuito a stima e considerazione per la sua opera, in realtà egli fu artista assai inferiore al fratello. Ciò è dimostrato dalla sua opera maggiore, gli stalli del coro della cattedrale di Lodi (distrutti nel 1765), che già il Finocchietti giudicava "brutto e gretto lavoro", eseguito dopo il soggiorno bergamasco tra il 1560 e il 1573.
Giovanni Donato, detto Zinino, figlio di Giovanni Francesco, educato alla scuola del padre, ne continuò l'opera, soprattutto per quanto riguarda il lavoro delle tarsie nel coro di S. Maria Maggiore. Le stesse mercedi a lui riconosciute dal Consorzio nei pagamenti sono talmente cospicue che il Locatelli ritiene siano state a lui elargite dai presidenti della Misericordia Maggiore per considerazioni ispirate alla memoria del padre e non per merito del suo lavoro. Ma il lavoro cui l'artista si applicò, anche se non risulta essere continuo, fu tuttavia molteplice ed impegnativo. Le notazioni dei pagamenti a lui intestati iniziano nel 1541 e l'ultima segna l'anno 1558 (Liber Fabrice Chori, f.124); riguardano, oltre che i lavori d'intarsio del coro, anche ben diciassette lavori per far "il cimer de l'organo" della chiesa di S. Maria Maggiore. Certo è che iniziò i lavori prima sotto la direzione del padre e, lui morto, sotto quella dello zio Giovanni Pietro, e poi, partito anche quest'ultimo, restò solo a continuare il lavoro. Egli, oltre che intagliatore, fu e divenne sempre più abile intarsiatore, tanto da rendere difficile la differenziazione, nello stile, delle sue opere da quelle paterne. È vero che trovò emuli degni di lui nei componenti della famiglia Belli che con i C. divide la gloria di aver innalzato, con il coro di S. Maria Maggiore in Bergamo, un monumento insuperato nel suo genere, di classico stile rinascimentale.
Alfonso era figlio anche lui di Giovanni Francesco e come tale è ricordato in un atto del notaio Pellegrino da San Pellegrino del 2 nov. 1568, ma come pittore e non come intarsiatore, originario di Lovere. Che esercitò l'arte della pittura lo dimostra un altro rogito, in data 5 luglio 1556, del notaio Giovanni Antonio Castoldi, con il quale gli venne commesso di affrescare, con l'aiuto del pittore Gerolamo Colleoni, la cappella detta "della Scala" nella chiesa di S. Agata di Martinengo (Bergamo), con alcune storie sacre e figure di Sibille e Profeti; queste pitture sono andate perdute nei rifacimenti posteriori. A lui ed al suo collaboratore il Comune di Bergamo pagava, il 28 ag. 1556, per le pitture da lui eseguite nella sala o "camera nova" dell'abitazione del podestà, o "domus Suardortum", in piazza Vecchia, la somma di scudi 21 e di lire 6 ciascuno (anche questi dipinti sono ora scomparsi). Il Liber Fabrice Chori del Consorzio della Misericordia Maggiore annota due pagamenti a lui fatti: il primo, negli anni 1554 e 1555, per "diversas designationes, perfilaturas, et alia negotia", di lire imperiali 68; il secondo, nell'anno 1558, di 5 scudi imperiali d'oro per l'acquisto di 31 libre d'oro al fine di "decorare organum et cimerium organi ex bono auri ducati et teneatur ipse M. Alfonsus ponere aurum et illud totum perficere suis expensis". Da quest'ultimo pagamento si può dedurre che Alfonso più che un vero pittore sia stato un decoratore che si dedicava alla pittura sporadicamente. Il Tassi (I, p. 67) ci dà notizia di un acquisto, nel 1568, di alcune pertiche di terra da Alberto Mozzi, nel comune di Scano, sopra le quali Alfonso assicurò la dote di sua moglie Margarita Ceresoli.
Nelle Memorie di quadri… esistenti nelle chiese del territorio di Bergamo (Bergamo, Bibl. civica, ms. ψ, 2, 4-8v) è citata, in S. Maurizio dei Riformati, all'altare di S. Maria Maddalena, una tavola "molto stimata", con la Sepoltura del Christo. Suquesta era scritto: "1568 M., Alfonso fig.o del qui Giô. Francesco de Codeferri di Lover, pittore, et abitante in Bergamo". Il Fornoni (p. 211) riferisce la stessa notizia trascrivendo la data del 1541. Tale tavola non è più reperibile nella chiesa. Se il Fornoni ha letto esattamente, si può affermare che l'attività di Alfonso, piuttosto modesta e poco intensa, è documentata dal 1541 al 1556.
Fonti e Bibl.:Bergamo, Bibl. civica, Azioni del Comune di Bergamo, anno 1556, f.236 (Alfonso); Ibid., Arch. del Consorzio della Misericordia Maggiore,LiberFabrice Chori, ff.17, 15, 23, 38, 69, 75, 78, 110 (Giovanni Francesco); ff. 132, 223 (Giovanni Pietro); f.124 (Giovanni Donato); L. Chiodi, Lettere inedite di L. Lotto su le tarsie di S. Maria Maggiore in Bergamo, Bergamo 1962, passim; F. M.Tassi, Vite de' pittori,scultori e archit. bergamaschi (1793), I-II, Milano 1969-70, ad Indicem; D. C. Finocchietti, Della scultura e tarsia in legno..., Firenze 1873, pp. 115-117; P. Locatelli, Illustri bergamaschi, III, Bergamo 1879, pp. 11-28, 190(Giovanni Francesco); pp. 29-31 (Giovanni Pietro); pp. 31 s. (Giovanni Donato); pp. 32-34 (Alfonso); E. Fornoni, Le arti dell'intaglio e della tarsia a Bergamo, Bergamo 1896, passim; Bergamo, Curia vescovile, E.Fornoni, Artisti Bergamaschi, ms. (s.d.), II, p. 211; A. Pinetti, Cronistoria artistica di S. Maria Maggiore, in Bergomum, XX (1928), pp. 130-147 (passim); p. 148 (Giovanni Pietro, Giovanni Donato); G. Fiocco, Lorenzo e Cristoforo da Lendinara e la loro scuola, in L'Arte, XVI (1913), pp. 321-340; B. Berenson, Lotto, Milano1955, pp. 89-92; L. Angelini, Le tarsie di S. Maria Maggiore in Bergamo, Bergamo 1957; Id., S. Maria Maggiore, Bergamo 1959, pp. 95-117; B. Belotti, Storia di Bergamo e dei Bergamaschi, Bergamo 1959, III, pp. 487, 542 (per la famiglia); pp. 540, 542 (Giovanni Francesco); p. 540 (Giovanni Pietro); p. 542 (Alfonso); p. 540 (Giovanni Donato); P. Voit, Una bottega in via dei Servi, in Acta hist. Artium, VII (1960-1961), pp. 187-228 (passim: per rarte della tarsia alle origini); U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, V, p. 543; Enciclopedia Italiana, VIII, p. 872.