Abstract
Nel processo vengono in rilievo diverse forme di capacità e di rappresentanza. Si illustrano i principali problemi che questi istituti pongono e si evidenziano gli stretti nessi con le norme di diritto sostanziale.
Le diverse tipologie di capacità e rappresentanza che vengono in rilievo nel processo trovano una corrispondenza, tendenzialmente biunivoca, con gli omologhi istituti di diritto sostanziale.
La capacità di essere parte del processo e la capacità processuale spettano, rispettivamente, a chi è dotato della capacità giuridica e della capacità di agire. Conseguentemente, le persone che non hanno il libero esercizio dei diritti che si fanno valere nel processo stanno in giudizio tramite chi le rappresenta o le assiste, ai sensi del codice civile. Gli enti stanno in giudizio per mezzo dell’organo che li rappresenta dal punto di vista sostanziale. La rappresentanza processuale volontaria può essere conferita solo a chi è già procuratore generale, o speciale, del rappresentato sul terreno sostanziale e si presume attribuita all’institore ed al procuratore generale di chi non è residente o domiciliato in Italia.
Il codice di rito regola dunque l’esercizio del potere rappresentativo nel processo essenzialmente rinviando alle norme sostanziali per l’individuazione delle fonti di tale potere.
La capacità di essere parte del processo è la capacità di un soggetto di essere destinatario degli effetti degli atti processuali.
Tale capacità (la cui sussistenza costituisce un presupposto processuale) non è espressamente definita né dall’art. 75 c.p.c. (che, al co. 1, regola soltanto la capacità di stare in giudizio), né da altra norma all’interno del codice di rito, probabilmente per la sua pressoché piena corrispondenza con la capacità giuridica sostanziale, che costituisce l’idoneità di un soggetto di essere titolare di diritti e di obblighi, ossia un centro di imputazione giuridica. Tutti i soggetti di diritto, avendo la capacità giuridica, sono, per ciò solo, dotati anche della capacità di essere parte del processo.
Ai sensi dell’art. 1, co. 1, c.c., le persone fisiche acquistano la capacità giuridica (e quindi la capacità di essere parte del processo) al momento della nascita. Il concepito, in forza dell’art. 1, co. 2, c.c., eccezionalmente può essere titolare di alcuni diritti (e quindi della capacità di essere parte dei processi che riguardano tali diritti), che sono subordinati alla nascita (cfr. artt. 462, co. 1, e 784, co. 1, c.c.).
Le persone giuridiche (sia private che pubbliche), essendo dotate di capacità giuridica, sono capaci di essere parte del processo, a decorrere dalla data della loro costituzione, ai sensi delle applicabili norme sostanziali. Così, ad esempio, le società di capitali acquistano la capacità (giuridica e di essere parte del processo), mediante l’iscrizione dell’atto costitutivo nel registro delle imprese.
L’art. 75, co. 4, c.p.c. chiarisce che, oltre alle persone fisiche ed a quelle giuridiche, hanno capacità processuale e quindi, prima ancora ed implicitamente, hanno la capacità di essere parte del processo, le associazioni ed i comitati. Trattasi di un’indicazione palesemente non esaustiva, dal momento che vi sono altri enti non menzionati da tale norma (come le società di persone), i quali, pur sprovvisti di personalità giuridica, sono egualmente capaci di essere parti del processo, poiché sono dotati di soggettività e quindi costituiscono centri di imputazione di rapporti giuridici. Questo è il solo elemento che deve essere preso in considerazione, per stabilire se vi sia o meno capacità di essere parte del processo.
Da ciò consegue che i patrimoni separati (cfr., ad esempio, gli artt. 167, 1707, 2447 bis c.c.), pur costituendo fenomeni assai eterogenei tra loro e quindi essendo arduo generalizzare, sono, in linea di principio, sprovvisti di soggettività giuridica e dunque della capacità di essere parte del processo. Una simile conclusione deve essere raggiunta anche con riferimento alla comunione legale tra coniugi (art. 180 c.c.).
Analogamente, non è possibile considerare parte del processo l’eredità giacente, sia pure nelle sole controversie che la riguardano o relative ai beni in essa inclusi, poiché essa non ha autonoma soggettività; parte del processo è sempre il curatore (artt. 528 ss. c.c.).
Questa conclusione vale anche per il trust, che è un mero rapporto giuridico: la capacità di essere parte spetta al trustee (v. Cass., 27.1.2017, n. 2043, in Foro it., 2017, I, 2014). Ad una diversa soluzione pare invece doversi giungere con riferimento ai fondi comuni di investimento i quali, sulla base delle norme sostanziali di settore, sembrano dotati di soggettività giuridica (v. Trib. Milano, 10.6.2016, in Foro it., 2017, I, 730; in senso contrario cfr. Cass., 15.7.2010, n. 16605, in Società, 2011, 46) e quindi sono capaci di essere parte del processo.
Maggiore incertezza sussiste in merito alla capacità del condominio di essere parte del processo, costituendo questo problema un inevitabile riflesso del dibattito sorto circa la natura del condominio. La soluzione negativa pare preferibile: l’amministratore deve considerarsi un rappresentante volontario (o, tutt’al più, legale) dei condomini ai sensi dell’art. 1131, co. 1, c.c. il quale, in modo assai chiaro, conferisce all’amministratore la rappresentanza «dei partecipanti» (non dunque la rappresentanza del condominio) ed il potere di agire in giudizio sia contro i condomini, che contro i terzi.
Con riferimento alle associazioni temporanee di imprese, pur essendo difficile generalizzare in considerazione dell’estrema versatilità del fenomeno, ci pare che esse, in linea di principio, siano prive di una propria soggettività giuridica, così come di un proprio patrimonio, esaurendosi su di un piano meramente contrattuale. Esse sono quindi prive di un’autonoma capacità di essere parte del processo, dovendo invece agire, od essere convenute in giudizio, tutte le imprese che costituiscono l’associazione, ancorché ad una sola di queste sia conferita la rappresentanza sostanziale per rappresentare le altre, salvo quanto eventualmente prescritto da norme di settore, come quelle in materia di appalti pubblici.
Le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (d.lgs. 4.12.1997, n. 460) non costituiscono un’autonoma tipologia giuridica di ente, ma solo un’attribuzione particolare di un ente rilevante ai fini tributari. Esse dunque sono prive, in quanto tali, della capacità di essere parte del processo, potendo esserne dotati solo gli enti cui fa capo tale qualificazione.
La capacità processuale, espressione con cui è rubricato l’art. 75 c.p.c., coincide con la capacità di stare in giudizio e si risolve nella capacità di porre in essere all’interno del processo un’attività vincolante; essa, cioè, designa la capacità di un soggetto di compiere e ricevere gli atti del processo.
È evidente la corrispondenza con la capacità di agire sostanziale di cui all’art. 2 c.c. Tale corrispondenza, però, è solo tendenzialmente biunivoca. L’art. 75, co. 1, c.p.c., infatti, afferma che la capacità di stare in giudizio spetta a coloro che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere, concetto che non coincide in toto con la capacità di agire.
Da ciò consegue che possano esservi soggetti che, pur essendo capaci di agire, sono privi della capacità processuale, giacché non possono esercitare liberamente i propri diritti nel processo. È il caso, ad esempio, del fallito, il quale, come si evince argomentando a contrario dall’art. 43 l.fall., a seguito della dichiarazione di insolvenza perde la capacità di stare in giudizio (rectius, la legittimazione processuale) nelle controversie relative a rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, nelle quali sta in giudizio il curatore (cfr. l’art. 200 l.fall. per la liquidazione coatta amministrativa). Il fallito ha soltanto il diritto di intervenire nei giudizi che coinvolgono questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico, oltre che nei casi stabiliti dalla legge; egli, inoltre, mantiene la piena capacità processuale per far valere diritti personali.
L’esistenza della capacità processuale non deve essere valutata in astratto (con riferimento cioè a tutti i possibili diritti azionabili da un soggetto), ma in concreto, in relazione allo specifico diritto oggetto della domanda. Nella prospettiva del convenuto, la sussistenza o meno della sua capacità processuale deve essere verificata in considerazione del diritto fatto valere dall’attore e, nel caso di domanda riconvenzionale, anche con riferimento al diritto del quale il convenuto chiede la tutela.
In alcune evenienze, ad esempio, un soggetto – per solito capace di agire – è incapace di compiere taluni atti ed è privo della capacità processuale in relazione alle controversie che possono derivare dagli stessi. È il caso del beneficiario dell’amministrazione di sostegno, cui difetta la capacità di agire (e quindi la capacità processuale) unicamente in relazione a quegli atti, individuati nel provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno, che richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria di costui (artt. 405, co. 3, nn. 3 e 4, ed art. 409 c.c.).
Per converso, sussistono fattispecie nelle quali un soggetto – di regola incapace di agire – è per taluni atti eccezionalmente capace, come nell’evenienza del minore che stipula un contratto di lavoro; in questo caso, al minore è riconosciuta pure la capacita processuale, al fine di esercitare le azioni derivanti da tale contratto (art. 2, co. 2, c.c.; cfr. anche l’art. 108 l. 22.4.1941, n. 633, sulla protezione del diritto di autore).
La giurisprudenza ha stabilito che il minore ultra sedicenne, che abbia riconosciuto il proprio figlio naturale, acquista, fin dalla nascita di quest’ultimo, tutti i diritti sostanziali e processuali afferenti allo status di genitore, e quindi anche la capacità processuale passiva in riferimento alle relative controversie (App. Napoli, 11.3.2004, in Fam. dir., 2005, 73). Egualmente si ritiene che il minore cha abbia contratto matrimonio abbia la capacità di stare in giudizio nelle azioni di nullità del matrimonio, di separazione e di divorzio (Mandrioli, C., Art. 75 c.p.c., in Comm. Allorio, I, 2, Torino, 1973, 892).
L’esistenza della capacità processuale costituisce un presupposto processuale. Il suo difetto è rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del giudizio, dal momento che il vizio incide sulla regolarità del contraddittorio, tenuto conto anche della circostanza per cui le norme, le quali subordinano il potere di stare in giudizio all’esistenza di determinate condizioni od autorizzazioni, rispondono ad interessi di natura pubblicistica, la cui tutela non può essere affidata esclusivamente alle parti. L’accertamento officioso del difetto di capacità deve essere compiuto allo stato degli atti, salvo che non sorgano contestazioni.
Il difetto di capacità può essere oggetto di sanatoria, ai sensi dell’art. 182 c.p.c.; la sanatoria può anche verificarsi indirettamente, tramite la costituzione spontanea del rappresentante, ovvero a seguito del passaggio in giudicato della sentenza pronunciata nei confronti dell’incapace.
Le vicende relative alla capacità di agire, o comunque alla libera disponibilità dei diritti che si fanno valere nel processo, inevitabilmente si ripercuotono sulla capacità processuale della parte. È così possibile che un soggetto, capace al momento della proposizione della domanda, divenga, lite pendente, incapace (cfr., ad esempio, quanto si desume dagli artt. 299 e 300 c.p.c.). Viceversa, non è da escludere che un soggetto, originariamente incapace, acquisti la capacità nel corso del processo, ad esempio per il raggiungimento della maggiore età da parte del minore, ovvero per la revoca dell’interdizione.
L’incapacità naturale (ossia il fenomeno per cui chi, pur essendo capace di agire, è, anche solo in via transitoria, incapace di intendere e di volere) è irrilevante ai fini processuali, dal momento che la capacità processuale dipende semplicemente dall’esistenza della capacità di agire e quindi è collegata ad una situazione giuridica obiettiva e non ad una condizione psicofisica (v. Cass., 14.12.2015, n. 25098, in Foro it. Rep., 2015, voce Procedimento civile, n. 133). Per altro, è opportuno rilevare come, eccezionalmente, l’art. 4, co. 5, l. 1.12.1970, n. 898 disponga che, nel giudizio di divorzio, il presidente del tribunale nomina un curatore speciale non solo quando il convenuto è legalmente incapace, ma anche nel caso in cui sia «malato di mente», conferendo così rilevanza all’incapacità naturale.
La semplice scomparsa di una persona non produce, di per sé, conseguenze sulla capacità processuale, per cui, se non è stato nominato un curatore e questi non ha comunicato la nomina a colui che agisce, la citazione deve essere diretta e notificata allo scomparso. È soltanto dopo che sono stati assunti i provvedimenti di cui all’art. 48 c.c., che si verifica una menomazione della capacità di agire e quindi della capacità processuale.
Il soggetto privo della capacità di stare in giudizio può, nondimeno, eccezionalmente compiere taluni atti processuali (cfr. art. 79, 716 c.p.c.). L’art. 315 bis, co. 3, c.c., inoltre, dispone che il figlio minore che abbia compiuto dodici anni, oppure anche di età inferiore ove capace di discernimento, «ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano».
Al fine di permettere agli incapaci di agire di esercitare i propri diritti nel processo, il legislatore si è servito del medesimo strumento utilizzato sul terreno sostanziale, ossia la rappresentanza legale. Il rappresentante compie un determinato atto in nome del rappresentato e, proprio in conseguenza della contemplatio domini, l’atto non produce i suoi effetti nella sfera giuridica del rappresentante, ma in quella del rappresentato.
L’art. 75, c. 2, c.p.c. attribuisce la rappresentanza processuale al medesimo soggetto che è titolare, per legge, del potere di rappresentare l’incapace in ambito sostanziale.
La rappresentanza dei minori spetta congiuntamente ad entrambi i genitori, quando si tratta di un atto (e quindi di un’azione) di straordinaria amministrazione. Laddove invece l’atto (e la relativa azione) sia di ordinaria amministrazione, il potere rappresentativo fa capo, disgiuntamente, a ciascun genitore (art. 320, co. 1, c.c.). Ai sensi dell’art. 320, co. 3, c.c., i genitori non possono «promuovere, transigere o compromettere in arbitri giudizi» relativi ad atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, «se non per necessità o utilità evidente del figlio dopo l’autorizzazione del giudice tutelare».
In taluni casi, eccezionali e quindi tassativi, la rappresentanza processuale dei minori non spetta ai genitori, ma ad un curatore speciale. Ciò accade, in primo luogo, quando la rappresentanza sostanziale per compiere un atto eccedente l’ordinaria amministrazione, che i genitori non possono o non vogliono compiere, venga affidata ai sensi dell’art. 321 c.c. ad un curatore speciale su richiesta del figlio stesso, del pubblico ministero o di uno dei parenti che vi abbia interesse. In tal caso, il curatore speciale, autorizzato giudizialmente a porre in essere tale atto nell’interesse del minore, è anche dotato della rappresentanza processuale in relazione alle controversie relative a tale atto.
In altre evenienze, la rappresentanza processuale spetta ad un curatore speciale, poiché sussiste un conflitto di interessi tra il minore ed i genitori. In tutti questi casi, la legge detta prescrizioni speciali rispetto alla generale disciplina del conflitto di interessi nel processo contenuta degli artt. 78 e 79 c.p.c. (cfr. in particolare gli artt. 320, co. 6, 347, e 360 c.c.). Nei giudizi de potestate, la figura del curatore speciale è diffusamente utilizzata (cfr. gli artt. 244, co. 6, 247, co. 2, 248, co. 5, 264 c.c., 273, co. 1, 274, co. 4, e 279 c.c.).
Quando entrambi i genitori sono morti, ovvero per altre cause non possono esercitare la patria potestà, deve essere nominato un tutore ai sensi dell’art. 343 ss. c.c., che, diversamente dai genitori, ai sensi dell’art. 374, n. 5, c.c. necessita sempre dell’autorizzazione del giudice tutelare per promuovere un giudizio, quindi anche quando trattasi di procedimenti di ordinaria amministrazione, ad eccezione dei casi ivi tassativamente previsti.
L’art. 424 c.c. estende le disposizioni sulla tutela dei minori a quella degli interdetti.
Il minore emancipato e l’inabilitato sono relativamente incapaci di agire, dato che possono compiere da soli tutti gli atti sostanziali di ordinaria amministrazione, mentre per quelli che la eccedono necessitano dell’assistenza del curatore, unitamente, nella maggior parte dei casi, all’autorizzazione del giudice tutelare. In tema di capacità processuale, invece, l’assistenza del curatore è necessaria anche quando l’attività processuale inerisca ad un atto di ordinaria amministrazione, poiché l’art. 394, co. 2, c.c. (richiamato, quanto agli inabilitati, dall’art. 424 c.c.) stabilisce che il minore emancipato può stare in giudizio – sia come attore che come convenuto – con l’assistenza del curatore, senza distinguere a seconda del diritto oggetto del processo (v. Cass., 19.4.2010, n. 9217, in Riv. dir. proc., 2011, 748).
A differenza del rappresentante legale dei soggetti totalmente incapaci, sul terreno sostanziale il curatore degli incapaci relativi non si sostituisce agli stessi nel compimento degli atti, ma semplicemente deve prestare il proprio consenso a tale compimento; consenso che si configura come una sorta di autorizzazione privata. Dal punto di vista della tecnica processuale, però, l’attività del curatore non consiste in una mera prestazione di consenso, essendo assai più penetrante in quanto egli deve agire od essere convenuto in giudizio insieme all’incapace relativo, trattandosi di una legittimazione processuale complessa o congiunta (v. Tommaseo F., Rappresentanza processuale: I - Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, 5). È inoltre richiesta l’autorizzazione del giudice tutelare, quando trattasi di una controversia che riguarda un atto eccedente l’ordinaria amministrazione.
Quanto alla (in)capacità processuale del soggetto beneficiario di un provvedimento di nomina di un amministratore di sostegno, è opportuno rilevare come il ruolo dell’amministratore possa essere duplice; egli si atteggerà come un rappresentante legale, agendo in nome e per conto del beneficiario, analogamente al genitore con il minore od al tutore con l’interdetto, nelle controversie derivanti dagli atti identificati nel decreto ex art. 405, co. 5, n. 3, c.c. Diversamente, l’amministratore di sostegno agirà quale curatore, esattamente come quello degli inabilitati, per le liti aventi ad oggetto gli atti menzionati nel decreto di nomina ai sensi dell’art. 405, co. 5, n. 4, c.c., configurandosi una legittimazione necessariamente congiunta tra l’amministratore di sostegno ed il beneficiario.
Le persone giuridiche stanno in giudizio tramite chi le rappresenta ai sensi della legge o dello statuto (art. 75, co. 3, c.p.c.). Trattasi della cosiddetta rappresentanza organica, che ha peculiari modalità di funzionamento, poiché l’organo non agisce in nome e per conto della persona giuridica; l’attività posta in essere dall’organo deve considerarsi, direttamente ed immediatamente, come attività dell’ente e non come un’attività dell’organo che produce i suoi effetti nella sfera giuridica dell’ente. L’organo non ha dunque una propria autonomia rispetto all’ente, ma ne costituisce solo un’articolazione; l’identità dell’organo non muta con il variare delle persone che lo compongono.
Da ciò discendono certuni importanti corollari a livello processuale. La persona fisica titolare dell’organo non è parte, né processuale né tantomeno sostanziale, del giudizio; il suo mutamento, dunque, non pregiudica la regolarità del procedimento iniziato in forza di procura rilasciata dal precedente rappresentante. Analogamente, nel caso in cui la persona fisica titolare dell’organo muoia, o perda la propria capacità, il processo non si interrompe, ma prosegue e subentra il successore nella carica.
Al fine di individuare chi, in concreto, sia fornito del potere di rappresentare l’ente è necessario applicare le previsioni di legge o di statuto, secondo quanto dispone l’art. 75, co. 3, c.p.c.
A livello generale, per le persone giuridiche private diverse dalle società di capitali, la legge è assai lacunosa; si prevede unicamente che nel registro delle persone giuridiche devono essere iscritti i nomi degli amministratori dotati di rappresentanza (art. 4 d.P.R. 10.2.2000, n. 361). Ai sensi dell’art. 19 c.c., le limitazioni al potere rappresentativo non risultanti dal registro sono inopponibili ai terzi, salvo non dimostrare che essi ne erano a conoscenza.
Soltanto per le società di capitali si rinviene una più articolata disciplina in materia di rappresentanza, benché non esaustiva. Per quanto riguarda le società per azioni, si vedano gli artt. 2328 e 2384 c.c., i quali hanno dato adito ad una copiosa messe di decisioni giurisprudenziali, non sempre coerenti tra loro, soprattutto in materia di conferimento della procura alle liti al difensore (v. Corsini, F, Delle parti, in Commentario al codice di procedura civile, a cura di S. Chiarloni, art. 75-81, Bologna, 2016, 149 ss.).
Nelle società a responsabilità limitata e nelle società in accomandita per azioni si applicano i medesimi principi vigenti per la rappresentanza delle società per azioni, per effetto, rispettivamente, da un lato degli artt. 2463, co. 2, n. 7, c.c. e 2475 bis c.c., e, dall’altro lato, dell’art. 2454 c.c., con l’avvertenza che tutti i soci accomandatari sono, di diritto, amministratori. Le stesse regole valgono per le società cooperative, in virtù degli artt. 2519 e 2521, co. 3, n. 10, c.c.
Anche il direttore generale di una società di capitali può assumere la rappresentanza processuale della società medesima, in forza di disposizione statutaria o per delega (se ammessa dallo statuto sociale) da parte degli amministratori.
La rappresentanza di una società in liquidazione, a partire dall’iscrizione della nomina dei liquidatori nel registro delle imprese, spetta, anche in giudizio, agli stessi in via esclusiva, salve eventuali limitazioni risultanti dallo statuto o dall’atto di nomina; i liquidatori, infatti, ai sensi degli artt. 2487 ss. c.c. assumono la gestione della società in luogo degli amministratori.
L’art. 75, co. 4, c.p.c. dispone che le associazioni ed i comitati, che non sono persone giuridiche, stanno in giudizio tramite le persone indicate negli artt. 36 ss. c.c. (ossia nella persona di coloro ai quali, secondo gli accordi tra gli associati, è conferita la presidenza o la direzione). L’art. 75, co. 4, c.p.c., quantunque faccia espresso riferimento unicamente alle associazioni ed ai comitati, deve intendersi come disposizione di chiusura, espressiva di un principio generale e, come tale, applicabile a qualsiasi ente dotato di soggettività, ancorché sfornito di personalità giuridica.
Generalmente si ritiene che, in mancanza di precise indicazioni nello statuto e nelle deliberazioni dell’ente non riconosciuto, le qualifiche indicate dalla legge debbano essere riferite alla più alta carica associativa (v. Cass., 13.11.1970, n. 2410, in Foro it., 1971, I, 136).
I partiti politici devono essere compresi tra le associazioni non riconosciute e, dunque, la rappresentanza processuale spetta a coloro a quali è conferita la presidenza o la direzione, secondo gli accordi degli associati, come disposto dall’art. 36 c.c.
Le società di persone (società semplice, società in nome collettivo e società in accomandita semplice) sono enti dotati di un’autonoma soggettività, distinta da quella dei loro associati, seppur privi di personalità giuridica. Esse stanno in giudizio attraverso gli organi dotati di rappresentanza nel campo sostanziale (v. Cass., 6.12.2011, n. 26245, in Foro it. Rep., 2011, voce Società, n. 544; cfr., per la società semplice, l’art. 2266 c.c.).
Lo Stato sta in giudizio tramite il ministro pro tempore competente. Le regioni, le province ed i comuni stanno in giudizio attraverso, rispettivamente, il presidente della giunta regionale, il presidente della provincia ed il sindaco. Gli stati stranieri stanno in giudizio per mezzo del proprio ambasciatore in Italia, ovvero del competente agente diplomatico. Gli enti pubblici, diversi dallo Stato e dagli enti territoriali, stanno in giudizio attraverso chi li rappresenta ai sensi delle norme di diritto pubblico.
La rappresentanza volontaria può essere conferita solo a chi è già procuratore generale o speciale dell’interessato e si presume attribuita all’institore ed al procuratore generale di chi non è residente o domiciliato in Italia (art. 77 c.p.c.).
È perciò esclusa una rappresentanza volontaria puramente processuale (v. Cass., 3.1.2017, n. 43, in Foro it. Rep., 2017, voce Procedimento civile, n. 109), ad eccezione di quanto disposto dall’art. 317 c.p.c., per i procedimenti dinnanzi al giudice di pace.
Il codice di rito disciplina l’esercizio del potere rappresentativo volontario nel processo demandando alle norme – sostanziali – l’individuazione delle fonti di tale potere, esattamente come accade per la rappresentanza legale e per quella organica. È però opposta la regola; mentre in queste due ultime evenienze la rappresentanza processuale spetta, in via automatica, a coloro i quali, dal punto di vista sostanziale, rappresentano l’incapace o l’ente, l’art. 77 c.p.c. richiede che, per poter ricorrere alla rappresentanza volontaria nel processo, debba sussistere un’autonoma e specifica attribuzione in via negoziale della rappresentanza da parte dell’interessato.
In altri termini, chi è dotato di procura per rappresentare un soggetto nel compimento di un atto sostanziale non può agire come suo rappresentante volontario nell’eventuale processo instaurato in relazione a quell’atto, salvo che la procura non permetta ciò «espressamente e per iscritto». Peraltro, l’art. 77 c.p.c. non richiede ulteriori requisiti oltre alla forma scritta, quali l’adozione dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, né particolari strumenti di pubblicità. La necessità che la rappresentanza processuale sia conferita espressamente ed in forma scritta è derogata per gli «atti urgenti e le misure cautelari».
Esistono alcune ipotesi, tassative e quindi eccezionali, nelle quali, in deroga all’art. 77 c.p.c., la rappresentanza nel campo sostanziale implica ex lege anche la rappresentanza processuale, indipendentemente da un’espressa previsione della procura (cfr., ad esempio, gli artt. 1745, co. 2, 1903, co. 2, 2212, co. 2, 2418, co. 2, c.c. e l’art. 288 c. nav.).
Altre disposizioni del codice di rito, sempre in via eccezionale, prevedono la possibilità che la parte conferisca ad un soggetto la procura per compiere specifici atti; benché non sia espressamente previsto, non sussistono dubbi che tale soggetto possa anche non essere rappresentante della parte in relazione alla fattispecie sostanziale controversa (cfr. gli artt. 185, 221, co. 2, 306, co. 2, 390, co. 2, e 420, co. 2, c.p.c.).
Il potere rappresentativo ha carattere secondario ed è equivalente al potere primario che spetta al rappresentato (v. Mandrioli, C., Art. 77 c.p.c., cit., 911). Da ciò consegue che il procuratore generale ad negotia, ma anche quello speciale, cui siano conferiti poteri di rappresentanza processuale, sono titolari di una legittimazione processuale coesistente con quella del rappresentato, che può subentrargli nel processo e sostituirlo in qualsiasi momento, perché il rappresentante non agisce in concorrenza con il rappresentato, ma in sua sostituzione e per suo conto (cfr. Cass., 11.1.2002, n. 314, in Foro it. Rep., 2002, voce Procedimento civile, n. 62).
Si deve escludere la possibilità di utilizzare la rappresentanza processuale per fare valere in giudizio diritti relativi alle situazioni giuridiche cosiddette personalissime, i quali non possono essere esercitati se non dal proprio titolare. Ad esempio, nelle controversie di stato, come quelle inerenti alla dichiarazione giudiziale della paternità o maternità naturale, i soggetti attivamente e passivamente legittimati non possono conferire ad altri il potere di stare in giudizio in loro nome e conto (cfr. Cass., 1.8.2003, n. 11727, in Foro it. Rep., 2003, voce Filiazione, n. 55).
Fonti normative
Artt. 75 e 77 c.p.c.
Bibliografia essenziale
Corsini, F., Delle parti, in Commentario al codice di procedura civile, a cura di S. Chiarloni, art. 75-81, Bologna, 2016; Costa, S., Parti (diritto processuale civile), in Nss. D.I., XII, Torino, 1957, 499 ss.; Garbagnati, E., La sostituzione processuale, Milano, 1942; Mandrioli, C., Artt. 75-77, in Comm. Allorio, I, 2, Torino, 1973; Mandrioli, C., La rappresentanza nel processo civile, Torino, 1959, 120 ss.; Mandrioli, C., Premesse generali allo studio della rappresentanza nel processo civile, Milano, 1957; Proto Pisani, A., Parte nel processo: a) Diritto processuale, in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, 917 ss.; Murra, R., Parti e difensori, in Dig. civ., XIII, Torino, 1995, 262 ss.; Tommaseo, F., Rappresentanza processuale: I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, 1 ss.; Tommaseo, F., Capacità processuale: I) Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 1 ss.