CANZONE
. Letteratura. - È la più antica forma metrica della lirica d'arte nella letteratura italiana e la più alta, vulgarium poematum supremum, come dice Dante, che primo espose le leggi che regolano la sua costruzione e la proclamò la più atta a cantare argomenti d'armi, d'amore e morali. Non è chiara la sua origine; pur riconoscendosi nelle successive modificazioni della forma primitiva l'imitazione della chanso provenzale, non è da tutti accolta l'opinione che la fa derivare da essa; e molto meno si può credere che sia derivata dallo strambotto. È più probabile che sia nata dalla ballata, se s'immagini questa priva della ripresa e si consideri che la bipartizione metrica e melodica è comune alla stanza dell'una e dell'altra forma poetica; poiché anche la canzone, come tutte le poesie liriche medievali, era accompagnata dalla musica, il che risulta, oltre che dalla testimonianza di Dante (De Vulg. Eloq., II, 1x; Purg., II, 112) e del Boccaccio (Decameron, X, 7), da alcune didascalie del Canzoniere Vaticano 3214 (ed. Pelaez, Bologna 1895). La struttura della stanza si trova già fissata, negli elementi essenziali, nei poeti più antichi, né quelli che vennero dopo v'introdussero modificazioni che ne alterassero sostanzialmente l'organismo. La stanza nel suo pieno sviluppo si compone di due parti metriche: fronte e sirma (o coda), corrispondenti a due motivi melodici. Ma poiché ciascun motivo si può ripetere (e nella prima parte si trova sempre ripetuto), si ha in questo caso una duplicazione metrica nella prima e nella seconda parte, per cui in luogo della fronte e della sirma si hanno rispettivamente due piedi e due volte, a ciascuno dei quali e delle quali corrisponde di solito un periodo logico. Da ciò risultano due tipi fondamentali di stanze: 1° due piedi e sirma; 2° due piedi e due volte.
Il passaggio del canto dalla prima parte (piedi) alla seconda (sirma o volte) si chiama diesi ed è, ma non sempre, metricamente rappresentato dal primo verso della seconda parte, che rima con l'ultimo della prima. Quanto al numero e alla qualità dei versi e alla disposizione delle rime si riscontra fin dalle origini grande libertà, non senza tuttavia l'osservanza di certe leggi, richieste dalla eguaglianza melodica così dei piedi come delle volte; principale quella che piedi e volte avessero rispettivamente lo stesso numero e qualità di versi, sì che ne risultasse in ambedue i piedi un egual numero di sillabe, e così nelle volte.
Nel periodo più antico anche le stanze erano fra loro allacciate in varî modi, sia con la ripetizione in ciascuna di tutte o di parte delle rime o anche d'una sola, sia con un verso che rimane slegato nell'interno d'ogni stanza, ma trova la sua consonanza nelle altre; verso che, come riferisce Dante, il rimatore Gotto mantovano (di cui nulla ci è rimasto) chiamava chiave. Altri modi di collegamento sono piuttosto di natura stilistica e consistono o nel riprendere al principio di ogni stanza l'ultima parola o frase della precedente, o nel cominciare ogni stanza con la stessa parola, o in altri artifici di simil genere. Il collegamento delle due parti principali della stanza, non frequente nei poeti più antichi, divenne in seguito norma in quelli dello stil nuovo, in Dante, nel Petrarca e suoi seguaci; invece il collegamento delle stanze fra loro, in cui si sbizzarrì con infiniti modi artificiosi la poesia provenzale, finì con l'essere abbandonato dai poeti italiani che tutta l'arte loro raccolsero nell'ambito della stanza, in cui le melodie trovavano il loro naturale assetto.
La rima è, si può dire, sempre perfetta, ché rari sono gli esempî di assonanza e solo nei più antichi poeti e in componimenti di tono, in qualche modo, popolare. Più frequenti invece sono le rime artificiose, spezzate o composte, equivoche, care o difficili, sdrucciole, con trasposizioni di accenti, ecc., imitate dai provenzali; ma le troviamo soprattutto nei poeti del periodo guittoniano, in cui si ebbe il massimo dell'influenza straniera.
La serie delle stanze, che è di numero indeterminato, ma in generale oscilla fra cinque e sette, si chiude con un commiato (la tornada dei provenzali), nel quale il poeta si rivolge alla canzone o per darle qualche ammonimento in relazione al soggetto in essa trattato, o per inviarla alla sua donna o a qualche personaggio. Raro nei poeti più antichi e metricamente non distinto dalle stanze, divenne comune, per la più intensa imitazione provenzale, da Guittone in poi, e pur essendo in alcuni casi uguale alle stanze, altre volte corrisponde alla seconda parte o a parte di essa.
Tale la struttura della canzone, di cui diedero esempî insigni, nell'espressione dell'amore, i poeti del dolce stil nuovo da Guido Guinizelli a Cino da Pistoia, e, nell'analisi psicologica delle passioni umane o nelle grandi figurazioni morali e storico-politiche, Dante e il Petrarca, che ne fissò la forma classica, donde l'appellativo di petrarchesca. Essa rimase immutata nella tradizione poetica dei secoli XV e XVI, quando gl'innumerevoli imitatori del Petrarca ne fecero largo uso. Nel Seicento, pur sopravvivendo gli schemi primitivi, si ebbero anche canzoni libere, in cui, come in quella di Alessandro Guidi, le stanze sono per il numero, la qualità dei versi e la disposizione delle rime, indipendenti l'una dall'altra. Ma già fin d'allora furono introdotti nuovi congegni strofici, per i quali alla canzone si sostituì la canzonetta anacreontica e l'ode pindarica. L'ode (v.), di struttura semplice o nelle sue molteplici varietà, fu la nuova forma della lirica che prevalse nel secolo XVIII e continuò nel seguente. Canzoni di tipo petrarchesco composero tuttavia l'Alfieri, il Monti, il Foscolo, il Manzoni e più recentemente il Carducci e il D'Annunzio. La forma della canzone libera fu ripresa dal Leopardi, il quale nelle sue prime poesie di soggetto patriottico o civile, pur conservando in ciascuna stanza lo stesso numero di versi, talvolta ne variò la qualità e la disposizione in tutte le strofe, talvolta costruì uguali alternativamente le pari e le dispari. E come il Leopardi negli altri Canti, così più tardi l'Aleardi si valse della libertà di comporre stanze del tutto indipendenti l'una dall'altra.
Bibl.: D. Alighieri, De vulgari eloquentia (ed. Rajna), II, v, viii-xiv; F. da Barberino, De variis inveniendi et rimandi modis, in Giornale di filologia romanza, IV, p. 78; F. D'Ovidio, La metrica della canzone secondo Dante, nel volume Versificazione italiana e arte poetica medievale, Milano 1910; G. Lisio, Studio sulal forma metrica della canzone italiana nel sec. XIII, Imola 1895; H. Wilkins, The derivation of the Canzone, in Modern Philology, XII, 9; E.F. Langley, The extant repertory of early Sicilian poets, in Publications of the Modern Language Association, n. s., XXI (1913), p. 454; F. Flamini, Notizia storica dei versi e dei metri italiani dal Medioevo ai tempi nostri, Livorno 1919; L. Biadene, Il collegamento delle due parti principali della stanza per mezzo della rima nella canzone italiana dei secoli XIII e XIV, in Scritti varii di filologia dedicati a Ernesto Monaci, Roma 1901; id., Il collegamento delle stanze mediante la rima nella canzone italiana dei secoli XIII e XIV, Firenze 1885; E. Monaci, Sul collegamento delle stanze nella canzone, in Atti della R. Accademia dei Lincei, s. 4ª, Rendic., I, xii (1885); L. Biadene, La forma metrica del commiato nella canzone, in Miscellanea Caix-Canello, Firenze 1886; id., La rima nella canzone italiana dei secoli XIII e XIV, in Raccolta di studi critici dedicati ad Alessandro D'Ancona, Firenze 1901; Th. Labande-Jeanroy, La technique de la chanson dans Pétrarque, in Mélanges de littérature et d'histoire publiés par l'Union intellectuelle Franco-Italienne, Parigi 1928. Nei lavori del Lisio e del Langley è dato lo schema metrico di tutte le canzoni del secolo XIII, e un elenco di esse è anche in L. Biadene, Indice delle canzoni italiane del sec. XIII, Asolo 1886. Di scarso valore è C. Carlo Corso, La metrica della canzone, Palermo 1904. G. Carducci, Le tre canzoni patriottiche di G. Leopardi, in Opere, XVI, p. 224 segg.; Dello svolgimento dell'ode ecc., ibid., p. 365 segg.
La canzone nella musica strumentale. - Costituisce un tipo a sé, analogo al ricercare, riconoscibile, meglio che dall'impianto fugato (a imitazioni più o meno strette, ma in generale più nette che nel ricercare), dal carattere vivace e dal tema spesso a note ribattute: l'incisività del tema produce, a sua volta, una maggiore nettezza nell'impianto contrappuntistico.
L'elemento ritmico û ♩ ♩ è frequente come spunto dei temi, ma non esclusivo. Alla fine della composizione si può avere un ritorno del tema iniziale che da alcuni viene considerato come tipico ma può mancare anche nelle più antiche canzoni. Il ritmo è duttile e ciò spinge spesso i compositori ad alternare, nei varî episodî, i tempi pari coi dispari.
Vi sono canzoni da camera e canzoni da chiesa: queste ultime più elaborate e, di frequente, suddivise da pause in varî periodi (cinque, per lo più). L'epiteto di francese, che spesso le accompagna (canzone alla francese), probabilmente riguarda soprattutto il carattere arioso - secondo il significato del tempo - e gioioso del tema, e la spontanea leggerezza e chiarezza del contrappunto che ne discende. Infatti un'opera del Banchieri s'intitola: Ecclesiastiche Sinfonie dette Canzoni in aria francese a l voci per sonare et cantare (1607).
Per questa sua ultima qualità la canzone prepara, più direttamente del ricercare, la fuga. Nel Tabulaturbuch del liutista Bernardo Schmid iunior (1607) si hanno dodici fughe italiane (di Cristoforo Malvezzi, Florentio Maschera, Andrea Gabrieli, tutti cinquecentisti, Antonio Mortaro, Adriano Banchieri, Francesco Soriano, Giacomo Brignoli e Orfeo Vecchi e una di autore incerto) con questo titolo: Fugen (oder wie es die Italiener nennen) Canzoni alla francese (a) 4 (voci).
Il nome di canzone (strumentale) appare per la prima volta già nelle opere di Marcantonio Cavazzoni, detto di Bologna: Recerchar, Motetti, Canzoni... apud Bern. Vercelensem (Venezia 1523). Soltanto in seguito (1530) appare a Parigi (Chansons musicales reduictes en Tablature des orgues, espinettes, ecc., Parigi 1530).
Da principio essa è destinata all'organo. Le prime canzoni composte per un insieme di più strumenti e pubblicate in parti staccate sono quelle di Florentio Maschera (morto nel 1584?); seguono quelle di C. Antegnati, S. Bernardi, A. Banchieri e di altri.
Dalla canzone si fa derivare la sonata (Canzone da sonar, Canzon sonata, Sonata). Ma alla dimostrazione di questa origine manca la documentazione della forma intermedia, Canzon sonata, e, del resto, essa contrasta con testimonianze importanti.
Il Praetorius, nel suo Syntagma musicum (II, p. 21), ci chiarisce quale fosse la pratica italiana. Egli dice, in sostanza, che la sonata o sonada è un pezzo strumentale che procede con gravità e dignità a modo di motetto, contrariamente alla canzone, la quale procede leggiera, gioiosa e spedita con le sue molte piccole note.
Se ne dovrebbe dedurre che la sonata deriva non dalla canzone ma dalla suite, come altri vorrebbero, ma è bene ripetere che gli alberi genealogici delle forme sono illusorî, anche perché i nomi delle cosiddette forme variano spesso di significato. Canzone è l'espressione d'una tempra dello spirito musicale e, come tale, non è nettamente isolabile né definibile in termini ristretti e precisi, ma si può dire che essa non sia che l'Allegro dell'antica musica, e che così essa sia stata intesa lo prova il fatto che la ritroviamo in sonate cembalistiche (a 2 voci) e in quartetti del primo Settecento, quale primo Allegro, preceduto da un Lento.
Autori di canzoni strumentali furono, oltre i nominati, G. Gabrieli, B. Sperindio, L. Luzzaschi, C. Merulo, J.J. Froberger, K. Kerl, Antonio Valente (il cieco), il Trabaci, il Frescobaldi, Vincenzo Pellegrini, Ercole Pasquini, Domenico Zipoli, A. Della Ciaj a e altri minori.
Nella musica polifonica vocale. - Termine generico, con il quale si è spesso denominata, nella musica vocale polifonica, una composizione di forma non determinata, svolta tanto sopra un testo profano quanto sopra uno sacro, sia nella lingua nazionale, sia nella latina. Tali furono, per esempio, le Chansons baladées del 1300 in Francia, sotto il quale nome venivano compresi il Rondò e il Virelai a più voci del tempo di G. de Machaut, e le canzoni sacre del nostro Cinque e Seicento, che non erano di fatto altro che motetti (Sacrae cantiones quae vulgo motecta appellantur). Ebbero invece un'impronta ben definita le chansons di scuola franco-fiamminga nel sec. XV-XVI; le canzoni alla villanesca e le canzonette profane o spirituali del Cinquecento italiano, e i Lieder tedeschi; tutte forme nelle quali i maestri maggiori e minori del polifonismo vocale non hanno sdegnato di comporre al tempo in cui la polifonia sacra dominava il campo della produzione musicale. In tali casi, il nome di canzone prese un significato meno generico, che permette di fare una certa distinzione fra la canzone vera e propria e le forme affini delle frottole e dei madrigali.
La caratteristica più spiccata della canzone polifonica consiste nei rapporti che questa ebbe con la canzone popolare. Seguendo quel particolare metodo di comporre in contrappunto che prende un cantus prius factus per base della costruzione polifonica, la canzone si valse spesso delle melodie di canzoni popolari per farne l'asse della composizione, collocato nella parte del tenore. Questo metodo, pur essendo tipico dell'antico comporre a più voci in genere e della composizione di scuola franco-fiamminga in specie, fu in questo caso specialmente usato dai Tedeschi nel loro Lied polifonico. Tuttavia anche la canzone francese, in generale più libera della tedesca, vi si attenne, e i maestri che le diedero il suono si servirono in essa di temi popolari nello stesso modo che, per ragioni più tecniche che estetiche, era loro consuetudine di tenere nella Messa. Ai compositori franco-fiamminghi riuscì poi anche di creare nella parte soprana una linea di bellezza superiore a quella del tema popolare affidato alla voce del tenore, mentre in altri casi lo spunto, passando da voce a voce, divenne mezzo della loro fantasia per comporre nello stile dell'imitazione canonica.
L'evoluzione della canzone di testo francese, nei secoli decimoquinto e decimosesto riproduce le fasi dello stile musicale, detto a cappella, le quali distinguono il succedersi delle varie scuole franco-fiamminghe.
Dapprima si compone di preferenza a tre parti, poi a quattro. Dunstaple, Dufay, Binchois, e i maestri che occupano la prima metà del 1400, presentati in Dufay and his contemporaries di J. Stainer (Londra, 1898), preferiscono comporre a tre in quello stile che si usa chiamare omofono, in cui il concorso degli strumenti ha richiamato le f0rme della balade e del mottetto del'300 francese. L'inglese John of Dunstaple (morto 1453) compone sopra testi francesi in questo stile:
ma raggiunge la maggiore notorietà scrivendo la canzone O rosa bella sopra testo di Leonardo Giustiniani. Gilles Binchois (morto 1460) è il compositore per eccellenza di canzoni, chiamato, per tal titolo, "padre dell'allegrezza".
Lo stile severo a 4 parti impronta la canzone della seguente scuola fiamminga dominata da Okeghem; tuttavia non si cessa di comporre a tre e così si fa pure durante il successivo periodo di Josquin (morto nel 1521). Malgrado che il costume del tempo favorisse il soggiorno dei compositori franco-fiamminghi nelle cappelle delle corti italiane, le canzoni da essi composte sono in grande maggioranza di testo francese. Furono tenute in gran conto da Ottaviano de' Petrucci di Fossombrone e comprese nelle sue prime stampe (Odhecaton, del 1501); alcune altre, invero non numerose, dimostrano che anche la canzone popolare italiana non era trascurata dagli stessi maestri stranieri, che la presero talvolta a tema. Tali, per es., La tortorella di Obrecht, La Alfonsina di Ghiselin, Donna di dentro combinata contrappuntisticamente da Isaac con il motivo di Dammene un poco, e Scaramella va alla guerra, una fra le più fortunate canzoni popolari italiane, svolta da Josquin alla fiamminga, col porre cioè il motivo popolare nel tenore mentre le altre parti attaccano il tema successivamente in strette imitazioni:
La canzone francese, privata dal madrigale italiano del primato nell'arte profana, continuò in Francia divulgata dalle stampe dell'Attaignant di Parigi e del Moderne di Lione (1525-1536), rappresentata da C. Jannequin, Claudin de Sermisy, Dulot, ecc., le musiche dei quali reagiscono al più severo stile polifonico precedente. Tipica della canzone francese di questo periodo è la tendenza alla descrizione (Le chant de l'alouette, du rossignol, ecc.), ereditaria nei compositori di Francia tanto di musiche vocali quanto di strumentali.
Mentre in Italia, nei primi decennî del '500, il madrigale uscendo dalla frottola attrasse a sé i maestri di scuola franco-fiamminga, il nome di canzone si vede spuntare nelle ultime collezioni di musiche popolaresche accanto ai soliti titoli di Frottole, Strambotti, Capitoli, ecc.; ma senza dubbio la sua presenza è da mettere in relazione con le forme poetiche a piccole strofe sulle quali la musica della prima strofa si ritornellava, piuttosto che con qualche particolarità dello stile omofono, comune a tutte quelle forme. Continuazione di questa specie di canzone furono le canzonette e canzoni alla villanesca, che ebbero in Italia e fuori, lungo il '500, sviluppo parallelo a quello del madrigale, col nome anche di villanelle o villotte alla napoletana, romana, veneziana, mantovana, finché venne il giorno che lo stile monodico le portò fuori dal terreno della polifonia vocale. Nella canzonetta l'imitazione popolaresca permetteva l'uso di alcune licenze meno tollerate dallo stile madrigalesco. Il teorico Cerone, nel Melopeo, le giustifica come espressioni caratteristiche del genere, e Claudio Monteverdi se ne vale come altri, disponendo una serie di quinte per moto retto in una delle canzonette (Corse alla morte, il povero Narciso) composte in gioventù ed edite dall'Amadino di Venezia nel 1854:
La più antica collana di Lieder, o canzoni tedesche, a più voci è contenuta nel ms. di Lochheim (Lochheimer Liederbuch) della metà del sec. XV. L'introduzione della stampa musicale in Germania favorì, fin dai primi del '500, la diffusione del Lied per le stampe dell'Öglin di Augusta (1512), dello Schöffer dì Magonza (1513) e del Forster di Norimberga. In questo periodo che abbraccia un secolo il Lied crebbe e prosperò, mentre verso la metà del '500 fu travolto dalla corrente madrigalesca italiana. Esso si stacca dalla canzone franco-fiamminga per una sua semplicità popolaresca, derivatagli dalla schietta canzone del popolo tedesco. Le melodie non entrano nel Lied per necessità tecniche; se vi sostengono la parte di Cantus prius factus è perché tali melodie rappresentano lo spirito della composizione diffuso in tutte le sue parti vocali che fanno loro eco. Anche sotto la veste contrappuntistica il Lied conserva i caratteri tipici dell'antico canto popolare a voce sola; ne può fornire un esempio questo celebre canto d'addio di Isaac, dell'ultimo Quattrocento:
La riforma protestante, con a capo Lutero che fu un amatore appassionato della musica, favorì il Lied e se ne valse per arricchire il repertorio dei suoi corali. Ma favorì anche lo sviluppo del Lied polifonico profano fino a fornirgli talvolta come tema i suoi stessi corali. In questa atmosfera creata dalla Riforma compongono i loro Lieder: H. Fink, P. Hofheimer, S. Dietrich, B. Ducis e altri, finché i numerosi compositori fiamminghi e italiani entrati in Germania a occupare i posti direttivi delle cappelle musicali influiscono decisamente sulla mutazione dello stile del Lied, che, abbandonate le vecchie forme poetico-musicali, assume gli atteggiamenti madrigaleschi trasmessigli da Antonio Scandelli maestro di cappella alla corte di Dresda, le cui raccolte, dal 1556, iniziano la naturalizzazione del madrigalismo italiano in Germania.
Canzone popolare: v. canto popolare; musica popolare.