CANTU Cesare
CANTÙ Cesare. -Nacque a Brivio, in Brianza, il 5 dic. 1804 da Celso e da Rachele Gallavresi.
I suoi primi ricordi sono legati alla figura del nonno Ignazio, che, dopo aver fatto il soldato in giovinezza, era rientrato a Brivio aprendo "un piccolo negozio di pizzicaruolo e caffettiere". Divenuto notabile di paese e sindaco, il nipote lo ricorda vestito "in gran pompa con la ciarpa tricolore fra i gendarmi, andar a cantare il Tedeum per le vittorie di Napoleone". Ma la piccola prosperità di Ignazio non si trasmise al figlio Celso ("ecco un uomo che per diventare qualcosa di più del poco che era, divenne men che nulla" - diceva di lui, lapidariamente, il Cantù). Posto dal padre in un negozio di confetteria, ma datosi presto a commerciare in proprio nella febbre speculativa della Milano napoleonica, Celso fallì sia come negoziante di legname sia come conduttore di due grosse tenute della Bassa: "tutte le sue proprietà non erano che giri e cambiali"; il piccolo merciaio di provincia che aveva cercato fortuna nella capitale sprofondava nella bancarotta. Nella sua ormai benestante vecchiaia, il C. ricordava l'anno cruciale del dissesto paterno, il 1816: "Ogni momento spaventi di uscieri, di trombette, di appignoramenti; il padre cercato per essere arrestato da una furia di creditori, e vedemmo portati via tutti i mobili fuorché i letti onde neppur avevamo da sedere". (Famiglia Cantù).
Dopo il fallimento la famiglia ritornò a Brivio, ove Celso assolse alle umili mansioni di censore comunale e di maestro; il C., invece, rimase a Milano per studiare al ginnasio di S. Alessandro. "Fin dal 1815 egli si era vestito da chierico per avere i benefizi di famiglia... Ora, non sentendosi chiamato a fare il prete, stato poco conveniente al carattere suo franco e nemico della schiavitù, depose presto l'abito" e la carriera ecclesiastica fu percorsa dal fratello terzogenito, Luigi.
Il vecchio collegio barnabita di S. Alessandro a Milano era stato laicizzato e disponeva di un ottimo corpo docente, in parte orientato in senso liberale. L'istituto, che fu frequentato nei medesimi anni da Carlo Cattaneo, aveva il suo miglior professore in Giambattista De Cristoforis, ex funzionario napoleonico, amico del gruppo dei romantici, recensore sul Conciliatore (ove collaborava di frequente) degli Inni sacri di Manzoni, che insegnava storia e rimase stabilmente legato al C. ("solo da De Cristoforis seppi cos'era la storia" scriverà nella Seconda informazione del '59); non sembra invece che questi avesse modo di seguire le lezioni temporaneamente tenute a S. Alessandro dal grande filologo e lessicologo Giovanni Gherardini. Ma benché il C. non si stancasse, allora e più tardi, di negare ogni efficacia ai corsi scolastici da lui seguiti a Milano ("da giovinetto fui studioso, ma sfortunatissimo di maestri, dai quali posso dire che proprio nulla appresi"), certo egli aveva frequentato il migliore e più vivo degli istituti educativi lombardi. Il correttivo delle letture personali, alimentate dai molti libri che il nonno aveva raccolto nelle sue scorribande militari, e che il padre, tra un dissesto e l'altro aveva continuato a riunire ("avea molta coltura e libri n'avea letti assai"), fece il resto.
Respinto, con suo cocente dolore, dall'ammissione al collegio Ghislieri di Pavia per non essere "figlio d'impiegato", com'egli più tardi scriveva, o assai più probabilmente, per una reprimenda subita nel '22 a S. Alessandro, con altri due compagni "corifei d'opinioni proscritte", ebbe così chiusa la via degli studi universitari: e non doveva né allora né più tardi percorrerli e conseguire la laurea. Gli ordinamenti scolastici austriaci non richiedevano però titoli legali per l'insegnamento nei ginnasi, e a soli diciassette anni, nel 1821, il C. ottenne il posto di supplente di grammatica a Sondrio e poi nel '24, risultando primo di otto concorrenti e attirando su di sé l'intelligente attenzione di Carlo Giuseppe Londonio, direttore generale dei ginnasi, il conferimento organico di quella cattedra. A Sondrio egli rimase sino al 1827, trattenendo presso di sé il fratello secondogenito Ignazio che poté così studiare, nonostante il gravissimo dissesto della famiglia: fu in questo periodo di solitarie e intense letture che il C. compì la sua vera formazione.
Il giovane professore ottenne che la biblioteca del suo istituto si rifornisse dell'intera collezione milanese dei "Classici italiani" di cui si fece "pascolo, molto annotando ed estraendo"; ma già allora il nesso tra storia e letteratura si risolveva per lui nella prevalenza della prima. Da Milano aveva portato con sé le Antiquitates del Muratori e l'opera che, anche se proibita negli Stati austriaci, tutti gli intellettuali lombardo-veneti leggevano più avidamente, l'Histoire des républiques italiennes del Sismondi, che alimentava in lui quel tema delle piccole patrie municipali e repubblicane poi rimasto dominante nella sua concezione civile. A Sondrio lesse Bossuet, Méhégan, Müller, Fleury, Gibbon: maggior gusto, sin dall'inizio, per il grande disegno storico, per l'interpretazione generale delle cose umane, che non per la ricerca ben definita, volta a esplorare singole circostanze e persone. Ma in questi anni la vocazione del C. è in prevalenza poetica: già nel 1820 e nel '21, quando era al collegio di S. Alessandro, e poi negli anni seguenti, aveva composto poemetti epici, come Alarico sulle Alpi e Scanderberg, e un dramma, Corradino. E poetico è il primo numero della sua sterminata bibliografia, l'Algiso, una novella pubblicata nel giugno del 1828 a Como.
Il tema del poemetto in ottave, diviso in quattro canti, è la lotta dei Comuni lombardi contro Federico I: il medesimo che, proprio allora, ispirava nell'esilio inglese la più celebre tra le Fantasie del Berchet. Istruttivo è - al di là del ben diverso livello letterario - il confronto, poiché il C. appare meno preso dal furore unitario che la lega di Pontida suscita nel Berchet, e più animato invece a celebrare la libertà dei singoli piccoli Comuni, più avverso alla tirannide dell'imperatore tedesco che ha trovato degli intellettuali italiani disponibili, dei giuristi "ligi sillogizzando un tirannesco vero / nel popol conculcato alzar l'impero"; e, soprattutto, sensibilissimo al ruolo che in quella rinascita dello spirito italiano ha avuto la Chiesa che, mentre combatte gli Svevi in Lombardia, sconfigge gli infedeli sotto le mura di Gerusalemme. Nel 1829 (anche se l'avrebbe pubblicato a Como solo nel '32) scriveva un sermone Giuditta Pasta a Como in cui gli onori trionfali resi alla cantante sono contrapposti all'abbandono che circonda il ricordo dei migliori cittadini, come Melchiorre Gioia e Alessandro Volta: "a che l'oltraggio / inulto vendicar? Pianger i tempi? / Colpa ai tempi? Agli estranei? È colpa nostra".
La vena patriottica ed esortatoria pervade anche la produzione storica degli anni giovanili. La Storia della città e diocesi di Como (Como 1829-31), in due volumi, è il frutto maggiore del periodo comasco.
Sebbene nell'introduzione egli dichiari di aver fatto "tutt'altro che un compendio" dell'opera del vescovo Carlo Revelli, in effetti la sua informazione è tutta ricalcata su quella fornita dal dottissimo predecessore, e non vi aggiunge alcuna diretta ricerca documentaria. L'ambito territoriale è però più esteso perché include tutta la diocesi comasca e quindi anche la Valtellina e il Ticino: i moniti moralistici, e l'interesse per le strutture ecclesiastiche che assurgono a unico vero elemento unificatore delle tradizioni dei paesi siti tra il Bernina, i laghi e il Gottardo, rappresentano i tratti salienti nella prima opera storica del Cantù.
"Abbiate di mira il popolo e la nazione, non i soli re e i così detti eroi, e piacerete al popolo e alla nazione", scrive in Sul romanzo storico. Lettera di un romantico (Como 1831). E in realtà, trasferitosi sin dal giugno 1832 al ginnasio S. Alessandro di Milano, comincia ad organizzare un ampio quadro della storia lombarda. Il volume Sulla storia lombarda del secolo XVII. Ragionamenti per servire di commento ai Promessi Sposi (Milano 1832) e l'articolo Parini e il suo secolo, pubblicato nell'Indicatore del 1833, mettono chiaramente a fuoco due convincimenti che accompagneranno il C. per sessant'anni ancora: i Comuni lombardi han creato un'altissima civiltà che il malgoverno spagnolo, poi l'accentramento giuseppino e napoleonico hanno compromesso, ma che esprime la vocazione popolare all'autonomia dei suoi municipi, e continuamente rinasce dalle proprie ceneri; "la letteratura, abbracciandosi al progressivo incivilimento" dimostra la funzione rappresentativa ed educatrice dei letterati: e Parini n'è il maggiore esempio (Indicatore, s. 2, I, p. 13). Il contenuto politico di queste tesi si faceva sempre più aggressivo e trasparente. Recensendo nel Nuovo ricoglitore del 1833 la traduzione italiana dei Grundsätze del Sonnenfals, e cioè del testo più autorevole e ufficiale del diritto costituzionale e amministrativo asburgico, scriveva: "insomma, Sonnenfels vuol ridurre la città ad un reggimento di soldati, ove tutto pende dal cenno d'un ufficiale. Dottrina disastrosa; a cui si oppone tutta la scuola italiana, volendo che si lasci fare il più possibile, e non s'immischii l'autorità se non dove l'importi la necessità" (I, pp. 364-366).
Benché pubblico funzionario, il C. era dunque risolutamente schierato tra i letterati d'opposizione. Bastò che il suo nome affiorasse tra quello degli indiziati nel processo milanese del 1833-34 contro gli adepti della Giovine Italia perché egli fosse trattenuto in carcere senza condanna dal 15 nov. 1833 all'11 ott. 1834. Gli indizi a suo carico erano inconsistenti, ma la polizia riteneva necessario colpire un "professore destinato alla pubblica istruzione, che già da tempo ha somministrato, colle sue stampe e co' suoi discorsi, prove incontrastate del suo liberalismo". Nelle sue deposizioni, il C. ha soprattutto cura di proclamare la sua repulsione sia alle congiure ordite dai democratici sia all'accentramento autoritario del governo austriaco. La immotivata detenzione fu provocata da questa sua intransigenza, assai più che dall'ostilità manifestatagli dall'inquirente Paride Zaiotti, col quale aveva avuto una polemica letteraria. Non più riammesso all'insegnamento, venne giubilato con risoluzione imperiale del 7 ott. 1836 che, pur concedendogli una "pensione di grazia" (300 fiorini annui, anziché 200), stabiliva "che giammai possa essere reimpiegato in qualsiasi posto di pubblica istruzione".
Così, poco più che trentenne, il C., spinto dalla necessità ma anche esaudendo la sua più reale vocazione, si dava a quello che sarebbe rimasto il suo mestiere: il letterato d'opposizione, l'infaticabile servitore e consigliere dei librai. I filoni della sua attività sono molteplici. Al Ricoglitore italiano e straniero contribuisce soprattutto con articoli biografici (ad esempio sul Romagnosi) e letterari, ma rende conto di ogni sorta di libri, dando alle sue scelte e ai suoi giudizi un aspro tono polemico e moralistico. "Mi trovo incolpato non più di azioni ma di pensieri ... pensieri puramente speculativi" scrive in un esposto alla polizia del 16 maggio 1835 (Arch. di Stato di Milano, Autografi, busta 118). Se continua a rimanere indiziato, conduce però una fronda che sempre più lo differenzia dagli altri letterati sia moderati sia democratici; e risuona come una solitaria, arcaica protesta clericale e conservatrice. Tra il 1836 e il 1837 pubblica quattro volumetti di lettura per i fanciulli intuendo - con quel sicuro senso del mercato editoriale che lo accompagnerà sempre - la carenza di una letteratura infantile diversa da testi scolastici governativi. La sua fatica sarà fortunatissima e per oltre mezzo secolo quei suoi libretti saranno ristampati di continuo in tutta Italia e tradotti in lingue straniere.
"Nel mondo c'è meno elefanti che formiche ... il numero dei servitori sorpassa di lunga mano quello dei padroni"; "amate la patria, il vostro governo, vivete d'accordo e lavorate: qui consiste tutta la vostra politica". Questi sono i precetti preferiti di Carlambrogio da Montevecchia (Milano 1836), l'immaginario merciaio brianzolo cui si intitola il più famoso di quei volumetti. Morale della sottomissione, del rispetto ai governi e ai castelli dei signori che non ha più nulla di comune con quella del Parini, il maestro ideale, e sempre richiamato, del Cantù. Il carattere di questa pedagogia non è solo conservatore ma, più specificamente, clericale. Gli ecclesiastici - spiega Il galantuomo (Milano 1837) - "intimano ai potenti la verità in nome di Dio, istruiscono gli ignoranti, proteggono gli oppressi, riconciliano i nemici", sono il vero cemento della società; ed è tema che Il giovanetto drizzato alla bontà (Milano 1837) e Il buon fanciullo (Milano 1837) non cessano di ribadire. Quando nel 1836 i moderati toscani che animano la Società per l'insegnamento mutuo di Firenze bandiscono il premio per un libro di lettura popolare, il C. viene sconfitto dal Giannetto del Parravicini; e il vincitore di questo concorso prevale ancora su di lui nel '37 ottenendo dal governo liberale del Ticino il compito di riformare le scuole elementari. Se il futuro dimostrerà che il Parravicini è destinato a servire l'Austria con zelo repressivo mentre il C. resterà tenacemente ostile a quello come ad ogni altro governo, non c'è da stupire che la dura morale autoritaria, da lui predicata, abbia male impressionato quegli educatori liberali.
La fama di questo scrittore scontroso, che spiace a tutti, ma sente il pubblico e sa che libri offrirgli e che linguaggio parlargli, si impone con un romanzo storico, Margherita Pusterla, scritto tra il '35 e il '36 e pubblicato a Milano - per le lunghe remore della censura - solo nel settembre 1838.
"Lettor mio, hai tu spasimato? No. Questo libro non è per te". In questa apostrofe che apre il romanzo (e che suscitò, tra le altre, la spiritosa ironia di Giovanni Raiberti) è già racchiuso il gusto dell'esasperazione drammatica e dell'orrore. Antitedesca e guelfa, l'opera ha una crudezza e un compiacimento per i temi terrificanti, che la allontanano dal modello manzoniano; ma è anche pervasa da un'attenzione per la plebe lombarda e le sue consuetudini, che costituisce una sicura origine del suo successo.
Il C., con questi suoi scritti e con la tambureggiante attività critica svolta sulle riviste milanesi, diveniva un letterato di successo; e si dimostrava anche un efficace organizzatore di cultura. A lui il Pomba e il Vieusseux, che di comune intesa coordinavano una campagna d'opinione per sospingere i governi della penisola a stipulare un trattato di difesa del diritto d'autore, richiesero un saggio sul mercato librario e sul "mestiere del letterato" in Italia. Ne nacque una delle cose più intelligenti e sentite del C., un ampio scritto pubblicato nella Rivista europea dell'aprile e maggio 1838. Il convincimento che gli intellettuali siano la coscienza delle nazioni, e che ad essi incomba il dovere di parlare mentre gli altri non ne hanno il coraggio, conduce alla conclusione che i governi italiani han paura della loro voce, li vogliono poveri, privi di diritto, e il più possibile silenziosi.
Apparentemente convulsa e dispersa, l'attività del C. costituiva ai suoi occhi il lavoro preparatorio ad un'opera in cui presentare "l'umanità, come una persona che vive e progredisce continuamente", intesa cioè "come storia universale ben diversa da una raccolta di storie parziali" (Seconda informazione, p. 43). Egli dichiarerà più tardi che sul suo scrittoio erano ammucchiate "le cartelle dove stava ordinando il raccolto materiale" quando ricevette la visita di Giuseppe Pomba che, dopo aver parlato con altri "letterati" milanesi, veniva a proporgli di redigere una grande Storia universale. Dopo i primi accordi orali (primavera 1837) il contratto fu steso il 26 giugno 1838; e, preceduta e accompagnata da un'abile campagna pubblicitaria, tra il 1838 e il 1846 usciva a Torino quella che fu forse la più fortunata speculazione editoriale dell'Ottocento italiano, e l'opera storica certo più letta e consultata per un cinquantennio in Italia.
Il "racconto" si distende in diciotto volumi e tratta cioè la storia politica dalla creazione al presente; i documenti e le note ne occupano altri sedici e contengono compendi sulla legislazione, la cronologia, l'arte della guerra, l'archeologia, la geografia, la letteratura, la filosofia, le religioni, biografie, schiarimenti e divagazioni su problemi particolari; il trentacinquesimo volume, infine, comprende tavole ed indici. L'occhietto dei volumi ha un titolo diverso da quello dei frontespizi: Enciclopedia storica, ed è una variazione, o aggiunta, voluta da Pomba. In effetti, per intendere la struttura di questa gigantesca opera, occorre ricordare che essa fu scritta per commissione dell'editore che aveva idee assai precise ("è un pensiero mio" scrive a Viesseux il 14 giugno 1838:Firenze, Biblioteca nazionale, Carte Vieusseux, 83/145-146), e che il C. accettò di realizzare. Al trentaquattrenne autore non si chiedeva una rielaborazione bibliografica di prima mano della sterminata materia, che né lui né studiosi di lui più anziani ed esperti avrebbero saputo offrire, ma piuttosto il collage tra i testi e le opere italiane e straniere più accreditate: si doveva tradurre, compendiare, riassumere; fare insomma un'"enciclopedia" in senso preilluministico, effettuando una grossa penetrazione divulgativa in un mercato librario ancora poco sviluppato.
Il C. aveva molte delle qualità necessarie all'impresa: enormi energie di lavoro e (con la giubilazione) disponibilità piena di tempo; un nome reso ben noto dai manualetti pedagogici e dalla Pusterla; notevoli capacità stilistiche e, quel che più conta, la netta percezione di ciò che il pubblico poteva desiderare da lui. Limiti gravi erano però, e specie per lo studio del mondo antico, la mancanza di ogni preparazione filologica e la poca conoscenza delle lingue straniere: largamente citate, le opere inglesi e, specie, tedesche, risultano o non utilizzate o spesso fraintese; e la fretta introduce errori frequenti anche nell'uso e nella traduzione testuale di fonti francesi. D'altronde, intieri capitoli sono riportati da libri che l'autore non menziona, o cita di sfuggita in altre sedi: e l'oscillazione tra un'antologia di opere storiche e l'elaborazione originale è continua; e la seconda tende a coprire e dissimulare la prima.
All'enorme successo di pubblico non corrispose quello della critica. Aurelio Bianchi Giovini il più aspro, ma fors'anche il più colto e intelligente tra i suoi censori, dopo avergli rimproverato "la frequenza dei plagi" (elencati con spietata precisione), gli dava del reazionario: "malgrado il suo patriottico sentimentalismo... la sua storia è assolutamente antitaliana: essa è fondata sopra principi retrogradi, riprovati da tutti i sommi geni di cui si onora l'Italia, da Dante fino al secolo XIX"(Sulla Storia universale di C. C., Milano 1846, pp. 11-12).
"Anch'io trovo che Cantù andò a sciabolate", doveva concedere lo stesso Pomba alle obiezioni del Vieusseux, e ammetteva ancora: "vi confesso che non lo credevo così ortodosso". In effetti, quel che disturbava i lettori liberali erano le confessioni di fede non neoguelfa ma clericale-conservatrice che il C. faceva nei proemi, dove era meno imprigionato dall'andamento cronologico e di riporto del suo discorso. Da un canto, la polemica contro la storiografia illuministica e liberale: nell'ultimo secolo "La Storia, ai fatti, eterno linguaggio di Dio, sostituì le opinioni, efimero linguaggio de' mortali"; d'altro canto, negazione dello Stato moderno qual è uscito dalle riforme settecentesche e napoleoniche, ed elogio del clero, della Chiesa, della nobiltà. Opera moralistica ed arcaica, la Storia universale diede sì enorme fama e cospicua agiatezza al C., ma costituisce il frutto forse più scadente della sua produzione; e va meglio intesa come impresa editoriale che non come lavoro storico.
Nonostante le persecuzioni sofferte, egli stava entrando in sospetto agli ambienti liberali. "Parve a me, parve a molti miei concittadini, che Ella si ritraesse dall'arena di chi soffre combatte e spera", gli scriveva da Torino Angelo Brofferio il 4 maggio 1838 (Milano, Bibl. Ambrosiana, Carte Cantù, busta 16), e analoghe testimonianze gli sarebbero state espresse con frequenza, in forma privata o pubblica, negli anni seguenti. Intorno al '40 si era rotta - per ragioni più familiari che politiche - la sua amicizia col Manzoni, e tra le fila della cultura liberale il suo isolamento veniva facendosi completo. Ma spiacere a tutti era una testarda vocazione del Cantù. Ammonito dalla polizia lombarda nel luglio del 1847, il 25 settembre di quell'anno egli teneva al Congresso dei dotti di Venezia una relazione sulle ferrovie che era un attacco aperto al governo austriaco e si concludeva coll'augurio "che meschini riguardi politici non impediscano l'unione dei vari Stati" .
Il 21 genn. 1848 la polizia circondava la sua casa per arrestarlo assieme ad altri esponenti dell'opposizione, ma il C. si rifugiava a Torino ove, in data 7 febbraio, pubblicava un pamphlet,Semplice informazione, in cui rivendicava i suoi meriti patriottici. Rientrato a Milano con le Cinque giornate, svolse una intensa attività pubblicistica, senza però trovare una sua precisa collocazione politica. Netto, tuttavia, il suo atteggiamento antipiemontese: che aveva carattere non democratico-repubblicano, ma di autonomismo municipale lombardo.
Dopo un breve esilio in Svizzera e in Piemonte, il C. accettava di rientrare a Milano: e la polemica degli emigrati contro di lui conobbe un'eccezionale asprezza. Ad alimentarla fu dapprima la sua nomina, per decreto governativo e contro il voto dei soci, a segretario dell'Istituto lombardo; poi il ripristino della pensione sospesagli nel '48; e infine la collaborazione che, quale consulente culturale, egli diede al vicerè Massimiliano, d'Asburgo. Se quest'ultima prestazione sarà rimproverata dal '60 in avanti assai più a lui che ad altri non meno compromessi (come Valentino Pasini, Stefano Jacini, Pietro Selvatico), il ravvicinamento del C. al governo austriaco è indubbio e i suoi articoli sulla Gazzetta ufficiale di Milano stavano a dimostrarlo. Il concordato del 1855 tra Vienna e Roma e, ancor più, la ventilata creazione di un Lombardo-Veneto semiautonomo con Massimiliano re gli rendevano ormai più accettabile quel regime; e certo preferibile al governo piemontese, rivelatosi accentratore e irrispettoso delle "libertà ecclesiastiche".
L'uomo non sapeva però mai rinunciare ad andare controcorrente. Nel '54, un suo importante racconto storico, Ezelino da Romano, pubblicato sul Cimento di Torino, poteva uscire in Lombardia solo con profonde mutilazioni perché la Direzione generale di polizia lo trovò "ostile al governo imperiale"; ed era un'ormai tardiva rivendicazione dei motivi neoguelfi e del mito di Pio IX: "il popolo italiano, ogni qual volta rialzò la testa il suo grido fu la Chiesa" (p. 392). E porte chiuse nel Lombardo-Veneto incontravano i suoi compendi Storia di cento anni (Firenze 1851) e Storia degli Italiani (Torino 1854).
La sua indisponibilità per il partito liberale e la sua scarsa simpatia per una soluzione unitaria piemontese gli resero amari i primi tempi del regno. Sostanzialmente persa, e accompagnata da un corretto ma non cordiale scambio di lettere col ministro De Sanctis, la causa fiscale per il risarcimento del posto ginnasiale toltogli nel '33; imperversante sulle gazzette e nei pamphlets la polemica sul suo passato.
Nel marzo 1860 era eletto deputato per la VII legislatura nel collegio di Almenno San Salvatore (Bergamo); ma presentatosi per l'VIII legislatura a Caprino Bergamasco, nel gennaio 1861 veniva battuto. Dimessosi il suo avversario, era tuttavia eletto il 28 genn. 1863: ma, a causa di alcune irregolarità formali, la Camera apriva un'inchiesta e nella tempestosa seduta del 23 dic. 1863 l'elezione venne annullata. Per questa soluzione si era pronunciato Filippo De Boni motivandola in termini procedurali, mentre un'appassionata difesa del C. aveva fatto il Brofferio. Nel dibattito s'era creato un intreccio di valutazioni politiche e personali, come chiariva Ferdinando Petrucelli Della Gattina, dichiarando di combattere col proprio voto contrario all'elezione del C. "non l'illustre suo individuo, ma il partigiano", perché il Parlamento non ha bisogno "di clericali, di papisti, dei settari religiosi oltramontani, essenzialmente nemici dell'Italia e della libertà" (Atti parlamentari, Camera dei deputati, Discussioni, VIII legisl. 1863, 113 pp. 1315-1317). Gli elettori di Caprino rinnovavano però la fiducia al C. (gennaio 1864) e nell'ottobre del '65 gli conferivano di nuovo il mandato per la IX legislatura.
In Parlamento il C. rappresentò, solo, a fianco del suo "generale" Vito D'Ondes Reggio, l'opposizione clericale e conservatrice al nuovo Stato.
Nell'appello agli elettori, del gennaio 1861, metteva bene in chiaro i suoi punti programmatici: avere "riguardo alla storia e alle abitudini della nostra nazione, che mai non visse sotto legge unica, unica amministrazione", e quindi massima "libertà nell'amministrazione degli affari locali"; "protezione ordinata degli interessi privati"; libertà d'insegnamento; venerazione alla religione. Nella sua azione parlamentare, il C. fonda la difesa delle tradizioni, in cui i tanto diversi popoli d'Italia sono cresciuti, con quella della Chiesa e della "libertà", intesa appunto come rispetto per il paese cattolico, "quella minoranza che rappresenta tre quarti e mezza della nazione". Nel giugno del 1860parla a favore dell'insegnamento libero; nel maggio del '64 sibatte perché non sia proibita la raccolta dell'"obolo di S. Pietro", ossia della questua che, compiuta a favore della S. Sede, si diceva servisse a finanziare il brigantaggio; nel luglio del '64 si oppone alla leva dei chierici: oggi, egli dice, "quando si incontra un prete, quasi si mostra ribrezzo come un tempo l'incontrar un austriaco" (Atti parlamentari, 1864, pp. 3251-3252). I due più significativi discorsi parlamentari sono del 1865.Nel marzo parla contro l'unificazione dei codici, che significa solo "improvvisarli in massa", e coglie l'occasione per condannare sia le "esecuzioni sommarie" del Mezzogiorno, sia il colonialismo francese in Indocina, sia le leggi restrittive alla predicazione del clero, che loro malgrado riconoscono "l'immensa potenza del sacerdozio sugli spiriti, ben maggiore di quella delle baionette sui corpi". Nel luglio parla contro la soppressione degli enti ecclesiastici e l'incameramento dei loro beni che "è un vero socialismo ... ove lo Stato si fa proprietario di quel di cui era tutore".
Meglio forse che nei discorsi parlamentari, alquanto enfatici ed apocalittici, il C. spiegava i suoi convincimenti politici con l'articolo Del dovere degli onest'uomini nelle elezioni comparso negli Annali cattolici di Genova del 1865, che sostiene il diritto e il dovere dei veri cattolici di partecipare alla vita politica; e soprattutto nel vivace opuscolo Due politiche. Idillio di un cittadino di San Marino (Milano 1866).
Col 1867 l'impegno politico attivo e la partecipazione parlamentare del C. si interrompono; e il flusso dei suoi scritti riprende imponente. Con gli anni, la qualità del suo lavoro storico si è sensibilmente raffinata; e già nel 1865-66 (quando è ancora immerso nella battaglia politica) ha pubblicato a Torino un'opera originale per ricerca e impostazione, di problemi, i tre volumi degli Eretici d'Italia.
Il ricchissimo quadro che va dall'Alto Medioevo alla proclamazione del Regno d'Italia, non si addentra nello studio delle dottrine religiose e teologiche eterodosse; il C. non si cura cioè mai di stabilire in che cosa l'eresia consista (come invece farà, ad esempio, tre lustri più tardi, in un'opera certo più illustre e maggiore, ma per tanti aspetti affine a questa, un altro cattolico di stretta osservanza, lo spagnolo Marcelino Menéndez-Pelayo) ma segue attento i contrasti che la Chiesa, in quanto custode della tradizione e organismo gerarchico, ha dovuto attraversare. Negli anni in cui la questione romana è dominante, egli intende rivendicare la funzione positiva della Chiesa nella storia italiana. E affronta ripetutamente il discorso sull'Inquisizione che, se "desta giusto raccapriccio o rammarico ad ogni buon cristiano", è certo migliore "della politica moderna che sottentrò nelle sue veci" e "se restringeva il pensiero, facealo o credea farlo per salvezza delle anime, non per mero vantaggio d'un potere, d'un ministero, d'una consorteria dominante" (I, p. 115); e, comunque chi abbia visto applicare le leggi Pica e Crispi, e pensi "alle fucilazioni moltiplicate e alla forca conservata" sa "che le istituzioni non vanno condannate per gli abusi che se ne facciano" (II, p. 354).
La simpatia storica del C. va agli ordini mendicanti, che assurgono a simbolo del momento eroico della carità, e a quanti cercano di riformare la Chiesa dall'interno, da Gaspare Contarini a s. Carlo Borromeo. In questa prospettiva la parte più originale e, innovatrice dell'opera è senz'altro quella dedicata al Cinquecento; e l'impegno dell'autore si avverte anche nelle ricerche di prima mano su fonti milanesi, vaticane, fiorentine e senesi che conduce a importanti ritrovamenti. Una brusca caduta di tono si ha invece nel terzo volume degli Eretici, che, riprendendo in parte i precedenti compendi, si diffonde nella polemica contro il giurisdizionalismo, l'illuminismo, la massoneria, lo Stato moderno e le sue esecrabili istituzioni.
Risultati importanti il C. raccoglieva nel proseguire le sue ricerche sulla storia della cultura lombarda. I libri su Parini (Milano 1854), su Beccaria (ibid. 1862), su Monti (ibid. 1879) contengono notizie e materiali talvolta malsicuri ma preziosi; e trovano i loro spunti migliori nel riesumare esperienze di milizia letteraria raccolte per tradizione orale o direttamente vissute. Se spinto dalla necessità di guadagno o da una sua febbrile vocazione a concludere in fretta, in giovinezza era stato soprattutto divulgatore, in vecchiaia il C. ebbe l'agio di divenire ricercatore; e se ne avvalse proficuamente. Nell'aprile 1873 il ministero Lanza-Sella lo nominava direttore dell'Archivio di Stato di Milano; e intendeva riconsegnare così definitivamente agli studi, giubilandolo con decoro, l'inquieto e irriducibile avversario del sistema liberale.
Indubbie sono le benemerenze del C. nella carica affidatagli, poiché interruppe lo smembramento delle serie archivistiche per materia, che aveva sconvolto e falcidiato le documentazioni milanesi; catalogò personalmente le carte austriache di polizia e di governo dal 1814 al '48; pubblicò importanti sillogi documentarie sul Conciliatore e sulle relazioni dei diplomatici cisalpini e italici dal 1796 al 1814. Significativa di questa stagione e di questa attività è la fondazione del periodico l'Archivio storico lombardo, il cui primo volume (1874) è aperto dal suo scritto Degli studi storici in Lombardia.
Rivendicando, a proprio merito, "la taccia di santocchio, di fatalista e di retrivo", si richiama a una "filosofia della storia" che molte cose può ravvisare, ma non "come i singoli e tutti cooperino ai disegni di Dio"; e traccia poi un programma di studi su "questo bel complesso di paesi e di uomini che chiamiamo Lombardia" (I, pp. 13-15).In effetti, la sua collaborazione all'Archivio fu sì costante, ma composta soprattutto di aneddoti storici e ritagli di ricerche: una volta ancora il vecchio e infaticabile lavoratore confermava la sua natura di solitario, e la sua poca passione alle imprese collettive.
La grande opera senile del C. nasce però al di fuori dell'Archivio, e sono i tre volumi Della indipendenza d'Italia. Cronistoria, che, pubblicati a Torino dal 1872 al 1877, lo riportarono nel vortice delle polemiche e dei contrasti politici. Ed è la più organica testimonianza del suo pensiero, il più ostinato rifiuto di quella nuova realtà italiana che la rivoluzione parlamentare del '76 confermava, lucidamente, immutata. Chi ha assunto durevoli responsabilità di potere e di governo, da Napoleone a Cavour, non sfugge alla sua ironia e alle sue accuse; mentre tutti i vinti, dai lazzaroni napoletani sìno a Cattaneo, a Garibaldi ma persino a Francesco Giuseppe nell'ora della sconfitta, hanno la sua simpatia. "Vogliamo onoratamente giunger al fine della nostra lunga e faticosissima giornata narrando i fatti con distaccata serenità", scrive all'inizio dell'opera" (I, p. 55). Ma è solo la sua appassionata faziosità ad animare la Cronistoria e a staccare sullo sfondo grigio di rievocazioni non sentite (quella ad esempio dell'Italia napoleonica) testimonianze come quelle sulla vita lombardo-veneta della Restaurazione, sul '48-49 e sulla guerra regia, e ancora su Massimiliano d'Asburgo e sul malgoverno della Destra: pagine tra le più penetranti e spietate dell'opposizione clericale antiunitaria.
Il C. degli ultimi anni continuava ad avere un pubblico larghissimo; e la chiave pedagogico-espositiva, che aveva funzionato così bene nei libretti per l'infanzia degli anni '30, si rivelava ancora ben valida in volumi dedicati ai popolani cattolici, e commisti di nozioni enciclopediche e di moniti a vivere nel timore della religione e dei governi, come Buon senso e buon cuore (Milano 1870); Portafoglio d'un operaio (ibid. 1871); Attenzione! Riflessi di un popolano (ibid. 1876), che vennero ripetutamente ristampati.
Novantenne, il C. aveva tessuto di sé un ritratto fedele. In uno degli ultimi scritti si proclamava Un ultimo romantico (Nuova Antologia, 16 ott. 1893, pp. 569 ss.), e ribadiva la sua ormai quasi secolare sfiducia per la società in cui era vissuto, il suo rimpianto per i tempi felici in cui dominava la Chiesa, e i piccoli Comuni prosperavano sotto la guida dei loro capifamiglia. "Concedasi ad un romantico riverire l'inviolabilità della famiglia, l'autorità della Chiesa, la libertà morale e quella di pregare".
Morì a Milano l'11 marzo 1895.
Al C., che fu certo il più ascoltato divulgatore di cultura storica dell'Ottocento italiano, non dev'essere chiesto un rigore di metodo e una capacità di intendere il passato che certo a lui mancò; e come sono caratterizzanti e giuste le critiche del De Sanctis al C. letterato, altrettanto fondata è la negazione del C. come storico fatta dal Croce. Ma la sua misura è certamente un'altra: e l'avere scritto alcune tra le opere più diffuse nell'Italia dell'Ottocento ha pure un senso che non può essere negato. Dai lontani giorni del carcere a quando difendeva in Parlamento il potere temporale del papa, e su su ancora nella Cronistoria e negli ultimi scritti, sino alla morte, il C. aveva riconosciuto in sé il letterato che, contro la volontà dei potenti, parla a nome di tutta la nazione: che era atteggiamento volto sì in senso clericale e reazionario, ma di sicura derivazione alfieriana e liberale. La immota fermezza nei suoi principi e nei suoi convincimenti, che né il lungo trascorrere degli anni né il mutare delle circostanze poterono mai scalfire, faceva di lui più un tenace polemista che non uno storico; ma non gli impediva di riuscire felice rievocatore di ciò che aveva direttamente vissuto e sentito. Il Romanzo autobiografico e la Seconda informazione, lasciati inediti e recentemente pubblicati, che costituiscono la sua autoapologia sino al '59; la Cronistoria; i due tanto discussi volumi (in realtà più autobiografici che non biografici) Alessandro Manzoni,reminiscenze (Milano 1882); e quanto infine in tutte le sue opere si richiama alla sua persona e a quelle tradizioni lombarde che con tanto calore, e quasi miticamente ha sentito, è ciò che nella sterminata produzione del C. conviene rileggere.
Fonti e Bibl.: Sebbene assai incompleta, specie per quanto riguarda articoli su periodici, come l'Indicatore, e quotidiani, come la Gazzetta di Milano, resta preziosa e insostituita la Bibliografia di C. C., a cura di A. Vismara, Milano 1896. Tra i numerosi scritti commem., alcuni tra i più importanti sono raccolti In morte di C. C., a cura della famiglia, Milano 1896. In mancanza di una monografia moderna, lo strumento migliore è P. Manfredi, C. C. La biogr. ed alcuni scritti ined. o meno noti, Torino 1905, ricca messe di notizie biogr. complessivamente attendibili. Le carte del C. sono conservate - quasi intatte nell'ordinamento originale ma prive di catalogazione moderna - alla Bibl. Ambrosiana di Milano. Da questo vasto fondo, usato per primo dal Manfredi, sono stati di recente tratti due testi fondamentali, a cura di A. Bozzoli, la Seconda informazione,Dal 1848 in poi, Milano 1968; e il Romanzo autobiografico, Milano-Napoli 1969. Fondamentale per la conoscenza del C. è naturalmente il suo carteggio che, pur oggetto di numerose pubblicazioni, è ancora in massima parte disperso e inedito; nel fondo ambrosiano si conservano soprattutto lettere posteriori al '48. Tra le pubblicazioni più importanti, di lettere sue, o a lui dirette: Il primo esilio di Nicolò Tommaseo. 1834-1839. Lettere di lui a C. C., a cura di E. Verga, Milano 1904, con ricco corredo illustrativo; G. Barbieri, Lettere inedite di C. C., in Aevum, IX (1935), pp. 493-508: dodici lettere al fratello don Luigi; C. Castiglioni, Lettere di G. Buroni a C. C., in Rivista rosminiana, XLIII (1949), pp. 197-211; Id., L. M. Billia a C. C. ibid., XLVI (1952), pp. 51-63; Id., C. C. al conte G. B. Bolza (lettere inedite), in Arch. stor. lombardo, s.8, IV (1950), pp. 198-227; Id., Ancora lettere inedite di C. C. a G. B. Bolza,ibid., V (1951-52), pp. 253-280; Id., Lettere inedite dei p. Tosti e del sac. Buccellati a C. C., in Scritti storici e giuridici in memoria di A. Visconti, Milano 1955, pp. 419-455; Id., P. Taglioretti a C. C., in Memorie storiche della diocesi di Milano, VI (1959), pp. 53-85; C. Marcora, Lettere di C. C. a mons. Bonomelli, in Studi in onore di C. Castiglioni, Milano 1957, pp. 139-210; A. Stussi, Ascoli-Tommaseo-C. Lettere inedite, in Annali della Scuola normale sup. di Pisa, s. 2, XXXII (1963), pp. 39-49; R. De Cesare, Un viaggio francese di C. (Parigi,marzo-luglio 1843), in Rendiconti Istituto lombardo, CVII (1973), pp. 597-670; e soprattutto Carteggio Montalembert-C.,1842-1868, a cura di F. Kaucisvili Melzi D'Eril, Milano 1969. Riguardante soprattutto i rapporti del C. con l'episcopato ital. è il piccolo fondo illustr. da L. Chiodi, L'arch. di C. C. alla Bibl. civ. di Bergamo, in Bergomum, LXIII (1969), pp. 45-80. Le sue lettere sono disperse in molte biblioteche: nuclei importanti alla Biblioteca civica di Forlì, Carte Piancastelli; alla Biblioteca Estense di Modena; al Museo centrale del Risorg. di Roma; alla Biblioteca nazionale di Firenze, ove sono soprattutto importanti le lettere a Vieusseux, Capponi e Tommaseo. Delle due prime corrispondenze esiste copia all'Ambrosiana, Carte Cantù, busta 17.
Pagine illuminanti sul C., pur nella loro durezza, restano quelle di F. De Sanctis, La scuola cattolico-liberale e il Romanticismo a Napoli, Torino 1953, pp. 213-245 (che contiene il corso napoletano del 1872-73), e di B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Bari 1947, I, pp. 197-207. Col titolo Il Cimitero dell'Ottocento, Milano 1948, è ripubblicata una scelta della Cronistoria che va tenuta presente per l'introduzione, che sebbene anonima è sicuramente di G. Ansaldo: breve scritto, che, nonostante le molte inesattezze di fatti, costituisce forse il profilo più penetrante del Cantù. Per una valutazione complessiva, F. Traniello, Don Tazzoli e la "Storia universale" del C., in Rivista di storia della Chiesa in Italia XVIII (1964), pp. 254-289; M. Berengo, C. C.scrittore autobiografico, in Rivista stor. ital., LXXXII (1970), pp. 714-735, ove sono pubblicati i brani del processo del 1833-34, citati in testo. Per la giovinezza del C., fondamentale è il manoscritto autografo Famiglia Cantù, nella Biblioteca Ambrosiana, R. 47 inf. (1), pp. 33-42; e i continui richiami della Seconda Informazione. Le poesie e i drammi in Opere giovanili inedite, a cura di A. Bozzoli, Milano 1968. Gli elaborati dei suoi concorsi scolastici, e importante materiale sulla sua carriera, in Archivio di Stato di Milano, Autografi, busta 118. Per le vicende del '47-'48, Carte ufficiali e segrete della polizia austriaca..., Capolago-Torino 1852, III, pp. 358-360, e la lettera del C. al Vieusseux, 30 luglio 1847 nel carteggio citato. La sua relazione sulle ferrovie in Manfredi, pp. 217-226. Per i suoi rapporti con Manzoni, precisa la nota di C. Arieti, in A. Manzoni, Lettere, Milano 1970, I, pp. 937 s. Per l'atteggiamento della censura austriaca nei suoi riguardi tra il '48 e il '59, Gazzetta di Milano, 8 marzo 1860. Le sue vicende amministrative postunitarie sono ben documentate dal fascicolo in Archivio centrale dello Stato, Roma, Ministero Pubblica Istruzione. Personale, cui sono accluse carte di polizia austriaca e precedenti tabelle di servizio. Le lettere con il De Sanctis sono edite, a cura di G. Talamo, in F. De Sanctis, Epistolario (1862-62), Torino 1969. Sull'attività politico-parlamentare, P. Cassaghi, C. C. e la prima polemica elettorale in Italia, in Mem. stor. della diocesi di Milano,II(1955), pp. 166-216; Id., Idee di libertà di un neoguelfo lombardo,ibid., III (1956), pp. 89-166, che utilizza importante materiale inedito.