Canto
Il termine, equivalente del latino cantus, derivato di canere, "cantare", indica la modulazione della voce o l'espressione vocale della musica. Unità di suono e parola, il canto rappresenta nelle cosmogonie antiche e nei riti arcaici la sostanza primordiale del mondo e il tramite tra il divino e l'umano. Nelle culture tradizionali assicura la coesione sociale e funge da memoria mitico-storica del sapere su cui si fonda la comunità, mentre, in altri contesti, le potenzialità espressive della voce trovano applicazione in generi teatrali e recitativi in cui si mescolano canto e parlato. Il canto artistico, quale si è sviluppato in Europa a partire dal 17° secolo, ha spinto la voce, nella varietà dei suoi colori timbrici, a livelli estremi di potenza, estensione e agilità, implicando capacità virtuosistiche molto elevate.
Tra canto e parlato: i molti casi intermedi
I.
Il canto è un'espressione vocale che si differenzia dal parlato. Il carattere di questa differenziazione, così come le linee di demarcazione, sono tuttora oggetto di analisi. La riflessione degli studiosi coinvolge sia la dimensione fonatoria dei due fenomeni (discriminazione tra voce cantata e parlata), sia quella più generalmente culturale (discriminazione tra ciò che nelle varie culture viene considerato canto o parlato). Assumendo come prototipi del confronto due prodotti rappresentativi di tali modi di usare la voce, per es. un'aria d'opera da una parte e il discorso di un conferenziere dall'altra, si può affermare che la distinzione fonologica tra voce cantata e parlata è basata in primo luogo sulle caratteristiche armoniche dei suoni prodotti (Boilés 1977). Nella voce cantata sono rilevanti soprattutto le armoniche fondamentali, che fissano con chiarezza l'altezza dei suoni: ciò consente la produzione di linee melodiche nettamente configurate, attraverso la stabilità delle altezze selezionate. Nel parlato le fondamentali appaiono invece fluttuanti: prevalgono complesse configurazioni armoniche, necessarie per la produzione dei diversi fonemi (vocali e consonanti). La presenza (assenza) di un'organizzazione ritmica è anch'essa considerata rilevante nella differenza tra il canto, in cui le durate dei suoni sono definite e sottostanno a regole di simmetria e ricorrenza, e il discorso parlato in cui sono libere (Lomax 1968).
Una serie di situazioni intermedie si frappongono, tuttavia, tra i due poli in esame. Limitandosi alla cultura occidentale, il tono liturgico di recita, il recitativo secco dell'opera settecentesca, lo Sprechgesang, sono altrettanti esempi di come la sola distinzione fonologica sia insufficiente a garantire un'adeguata definizione del canto in rapporto al parlato. G. List (1963) delinea un continuum che dal parlato conduce al canto attraverso due diversi percorsi. Per il primo, definito monotòno, dall'iterazione di una nota, divenuta poi centro tonale, si passa a configurazioni di due, tre e più suoni, secondo un processo indicato da C. Sachs (1962) come ipotesi per l'origine delle melodie. Per il secondo, Sprechgesang, da una condizione in cui le fondamentali sono accennate e non persistenti si giunge, mediante un processo di stabilizzazione delle fondamentali, a un preciso disegno melodico. In questo itinerario possono così trovare una collocazione molti casi intermedi: le forme di vocalità utilizzate in diversi generi teatrali dell'Asia orientale come il Nō giapponese, le espressioni che mescolano il canto e il parlato, come le tecniche recitative dei cantastorie siciliani, dei cantafavole centroafricani, dei cantori del teatro di marionette bunraku, dei maestri dalang del teatro d'ombre indonesiano, e infine il parlato-ritmico riscontrabile in generi musicali quali il rap afroamericano o l'haka dei maori neozelandesi. Riprendendo la tesi di List, C. Boilés (1977) ha introdotto un ulteriore elemento di problematicità nella distinzione fonologica illustrata: l'esistenza di lingue tonali in vaste aree dell'Africa e dell'Asia. L'intonazione semanticamente connotante, che è rilevabile nelle lingue a toni, testimonia infatti l'uso di altezze determinate anche nel campo verbale (e non solo nel canto), tanto da rendere possibile l'imitazione strumentale del linguaggio parlato: l'esempio più noto è quello dei tamburi e degli xilofoni centroafricani.
La fonazione non può essere allora il solo terreno discriminatorio e qualificante per il canto. Sul piano linguistico, la differenza tra il discorso parlato e quello cantato coinvolge soprattutto l'aspetto semantico: più preciso e definito nel parlato, potenzialmente più ricco ma aperto a interpretazioni plurime nel canto, in cui, al pari delle forme artistiche in genere, è influenzato dalle caratteristiche formali e dal valore estetico del significante (Ruwet 1972). Al riguardo P. Zumthor (1983) propone un nuovo tipo di continuum tra discorso parlato e canto, che transita attraverso il 'detto' della poesia orale e del recitativo, e sembra caratterizzato dal passaggio da un minimo a un massimo di musicalità, intendendo per musica un sistema privo di una stabile dicotomia tra significante e significato (Giannattasio 1992).
A differenza della musica strumentale pura, l'importanza del contenuto musicale è nel canto strettamente correlata all'intreccio con le parole. Il supporto musicale alla parola o, viceversa, l'arricchimento del messaggio musicale attraverso le parole fanno del canto una forma comunicativa dalle grandi potenzialità, e perciò presente in contesti di particolare rilievo, laddove né la parola né la musica da sole sembrano bastare. Il grande teorico arabo al-Fārābi presenta nel suo Kitāb al mūsiqī al-kabir, "Grande libro sulla musica", il canto, ghinā, sintesi tra poesia e musica, come il più elevato sistema di espressione ideato dall'uomo.
2.
Le forme cantate possono assumere valenze e funzioni complesse. Per gli aborigeni australiani, come per diverse culture indigene americane, il canto è il primo atto compiuto dagli antenati mitici nel momento in cui giunsero nel territorio occupato dal clan o dal gruppo. Atto fondante della comunità, il canto diventa segno di appartenenza a un gruppo e di possesso di un luogo; provenendo da un mondo mitico, ha il potere di aprire una porta su questo mondo (Hugh-Jones 1979; Magowan 1994). La credenza che il canto possa instaurare una comunicazione con il trascendente è del resto ampiamente attestata. Le formule rituali presentano tutte una intonazione più o meno cantata. Il verbo latino incantare, letteralmente "cantare su", indicava proprio l'enunciazione cantata di formule in ambito rituale. In italiano, il termine incantesimo è sinonimo dell'atto magico stesso, mentre incantazione indica uno stato di alienazione della coscienza, in virtù del contatto con il sovrannaturale. Sono numerose le situazioni cultuali in cui il canto, spesso in concorso con altre espressioni musicali (danza, percussione, musica strumentale) interviene a indurre stati estatici oppure di trance (v. danza).
Gli studi storico-religiosi e le ricerche di etnomusicologia hanno messo in luce l'importanza del canto nelle cosmologie antiche e nelle grandi religioni. Nella tradizione vedica la creazione ha inizio con una parola o sillaba cantata dalla quale sono sorti gli dei e gli astri, quindi il cielo e la Terra; questi si distendono e prendono forma come un graduale materializzarsi delle vibrazioni sonore. Nell'azione cultuale il canto è il tramite fra il divino e l'umano, e richiama analogicamente l'atto della creazione originaria. Nell'induismo, il mantra, ovvero la formula rituale verbalizzata, e lo svara, il suono musicale, sono considerati complementari e sono basilari nell'esperienza spirituale dello yoga. Nel mantra-yoga la ricerca interiore della divinità avviene attraverso la ripetizione del mantra, con una ritmicità ciclica in cui sono rintracciabili elementi propri del ritmo musicale tala. Nel cristianesimo, la ricerca di un avvicinamento al divino attraverso il canto, e il credito a esso attribuito quale rappresentazione terrena dell'armonia celeste, si sono avuti soprattutto nel Medioevo, con la codificazione del canto liturgico (gregoriano). Nel Musica Enchiriadis, il celebre trattato di pedagogia musicale del 10° secolo, si afferma che il canto rallegra la mente nel servire Dio. La cantillazione, ovvero la recitazione intonata, è prescritta sia nella lettura della Torà che in quella del Corano. Intonata è anche l'esplorazione vocale utilizzata nella meditazione buddista. È opportuno inoltre considerare come determinate manifestazioni rituali, pur corrispondenti ai tratti fonologici del canto, in alcuni ambiti culturali non appartengano al campo delle espressioni musicali, essendo piuttosto classificate come forme di preghiera. Nelle fonti giuridiche, teologiche e mistiche dell'islamismo, per es., la recitazione intonata del Corano e le altre espressioni cantate con finalità religiosa sono denominate samā, "ascolto", e sono nettamente separate dal ghinā, il canto d'arte.
3.
La riaffermazione delle solidarietà sociali e delle credenze comuni è favorita dal canto e perciò esso è ampiamente utilizzato nel corso di manifestazioni politiche, religiose, ludiche. In questi casi l'atto del cantare insieme acquista un valore simbolico di tale pregnanza da rendere insignificanti le differenze di intonazione tra i vari componenti del gruppo. Nelle culture di tradizione orale il supporto melodico è fondamentale per garantire la memorizzazione di formule cerimoniali e rituali, genealogie, eventi storici o di cronaca, proverbi (Havelock 1963; Ong 1982). Il contenuto musicale del canto è qui di secondaria importanza rispetto alla parola: un buon cantafavole o un buon tessitore di lodi in Africa non è chi possiede una bella voce, quanto chi sa ben concatenare e porgere le parole. L'esperienza di piacere insita nel canto fa sì che esso diventi uno dei modi di intrattenimento più diffusi. Dal gioco cantato alle forme spettacolari più complesse come il melodramma, si potrebbe tracciare anche qui un percorso relativo all'uso del canto nel tempo libero. D'altra parte, la stessa facilità d'uso fa del canto anche la più comune forma espressiva utilizzata durante il lavoro, sia in funzione euritmica (canti al mortaio, canti di pesca ecc.), sia in funzione comunicativa e di intrattenimento (canti legati alla raccolta e ad altri lavori agricoli). Nel canto trovano espressione anche le emozioni. A proposito dell'universalità del canto d'amore, P. Zumthor (1983) afferma che il canto erotizza il discorso, molto prima dei significati e dei desideri; la manifestazione di sentimenti ed emozioni può infatti avere in esso una sua enfatizzazione. D'altra parte, il canto concorre pure, in situazioni critiche e psichicamente pericolose, a contenere esplosioni emotive eccessive, quali il grido o l'urlo, incanalandole in formulazioni più controllate, come nel caso delle lamentazioni funebri. Le potenzialità espressive della voce hanno trovato spazio in modi di cantare che presuppongono una fonazione specializzata e vocalità complesse. Il canto difonico della musica tradizionale mongola (che consiste nel produrre melodie isolando, di volta in volta, uno degli armonici superiori e lasciando alla fondamentale un ruolo di bordone) implica una notevole padronanza delle cavità di risonanza e costituisce una modalità vocalica tra le più astratte e lontane dall'uso della voce nel linguaggio parlato. Altrettanto complesso per l'impiego della muscolatura della laringe è lo jodel, canto gorgheggiato di ampia diffusione (dalle Alpi all'Africa centrale, alle isole del Pacifico, al country nordamericano), che si basa su un rapido passaggio tra i due registri fondamentali della voce. Le varie forme teatrali cantate, dal melodramma europeo al teatro orientale, hanno rappresentato una grande palestra per le possibilità vocali. La ricerca di astrazione, legata a motivazioni simboliche e religiose, ha reso la vocalità in uso nel teatro giapponese Nō molto artefatta, tale da diventare una sorta di maschera sonora. L'estraniazione dalla personalità dell'interprete attraverso la deformazione della voce trova espressione in molti contesti religiosi. Durante i rituali di possessione, diffusi in diverse zone dell'Africa, la voce del posseduto, diventato spirito, cambia sensibilmente e spesso per veicolare il canto della divinità si fa uso del mirliton, un tipo di strumento musicale che altera il timbro della voce attraverso la vibrazione delle membrane. In Europa, invece, il melodramma ha spinto la voce verso livelli estremi di potenza, agilità ed estensione, offrendosi come terreno per l'affermazione tanto delle capacità virtuosistiche quanto della personalità dell'interprete.
I.
Il canto detto artistico (opera, musica sacra, arie da camera, romanze da salotto, operette) è affidato a voci gravi, acute e intermedie. Storicamente, anche se scomparsi agli inizi dell'Ottocento, ebbero grande importanza i cosiddetti castrati, ai quali un intervento chirurgico (orchiectomia) subito prima dell'adolescenza arrestava la crescita della laringe e conservava una voce bianca. Principalmente ai castrati, il cui addestramento era particolarmente severo, si debbono i progressi della tecnica vocale nel Seicento e nel Settecento. Ufficialmente i castrati si suddivisero in contraltisti (voci gravi) e sopranisti (voci acute). Non considerando i casi di cantanti eccezionali, i contraltisti avevano un'estensione che, dal fa grave (fa 2), giungeva al sol acuto (sol 4) e a suoni singolarmente scuri e ampi in basso e nei primi centri. I sopranisti potevano spingersi dal la sotto il rigo (la 2) fino al do sopracuto (do 5), ma spesso anche oltre. Il periodo del 'belcanto' considerò troppo comuni, ossia poco stilizzate, le voci intermedie ovvero mezzane e, nella fattispecie, quelle dei mezzosopranisti. Vi furono grandi mezzosopranisti, ma si preferì classificarli come contraltisti o sopranisti.La voce grave femminile è il contralto, con suoni ampi e scuri, quasi mascolini nell'ottava bassa (fa 2-fa 3) e caldi e pieni fino al sol sopra il rigo (sol 4), di solito nota limite nel Seicento e nel Settecento, ma oltrepassata successivamente, specie nei vocalizzi del canto di agilità. Voce virtuosistica fino ai primi decenni dell'Ottocento, il contralto non fu più tale dall'opera romantica in poi. Attualmente è un tipo vocale rarissimo. La voce acuta femminile è quella del soprano, tendenzialmente chiara, dolce, flessibile ed estesissima. Le caratteristiche del repertorio operistico romantico e successivo hanno dato luogo a varie denominazioni: soprano 'assoluto' o 'sfogato' e soprano 'limitato' o 'centrale' in rapporto all'estensione; 'leggero', 'lirico', 'di forza' oppure 'drammatico' in rapporto al tipo di canto o di interpretazione. Il soprano leggero o 'di coloratura' è portato al canto virtuosistico, ha voce molto chiara, esile nella prima ottava (do 3-do 4), quindi fino al mi bemolle 5, penetrante e flautata. A volte può toccare il fa 5. Il soprano di forza o drammatico (ma drammatico è soprattutto il soprano di alcune opere di Wagner) ha voce ampia, squillante e piuttosto scura dal la sotto il rigo (la 2) al do sopracuto o do 5. Il soprano lirico appartiene al repertorio postromantico come origine, ma attualmente tende a spaziare in opere di tutti i tempi con voce meno potente del soprano di forza e meno estesa del soprano leggero (si bemolle 2-re bemolle 5), ma di particolare dolcezza e calore e non di rado agile.
Come nel caso dei mezzosopranisti, il termine di mezzosoprano fu ignorato nel Seicento e nel Settecento, mentre nei primi decenni dell'Ottocento ebbe il significato di 'seconda donna'. Anche in questi periodi, tuttavia, esistettero mezzosoprani di grandi qualità, ma denominati soprani e contralti. Agli inizi dell'operismo romantico, il teatro musicale francese ebbe il 'soprano Falcon' (dalla cantante Cornélie Falcon), in pratica mezzosoprano acutissimo, mentre nel repertorio italiano il mezzosoprano fu designato come tale e cominciò a sostenere grandi parti soltanto negli anni Quaranta dell'Ottocento, con una voce meno ampia e profonda in basso di quella del contralto, ma più estesa in zona acuta (sol 2-si bemolle 4, ma talvolta anche si 4 e do 5). Attualmente, il mezzosoprano esegue gran parte del repertorio del contralto, voce divenuta rara.Il basso è la voce grave maschile, con colore molto scuro e suoni particolarmente ampi nella prima ottava (re 1-re 2) se rientra nel tipo definito un tempo come profondo, la cui estensione era limitata in alto, in genere non oltrepassando il mi 3. Si tratta di un tipo vocale oggi molto raro e sostituito nel repertorio di ogni epoca dal basso detto cantante, voce pur sempre scura, ma meno ampia nella zona grave e baritonaleggiante negli estremi acuti (fa e fa diesis 3). Un terzo basso è quello comico, detto anche buffo. È denominazione quasi sempre impropria, dal momento che nell'opera comica di ogni tempo il buffo è per lo più baritonale. Quasi sempre protagonista maschile, il buffo fu nel Settecento e nel primo Ottocento distinto in 'nobile' e 'caricato', 'cantante' e 'parlante', 'napoletano' e 'toscano'.La voce acuta maschile è il tenore che tuttavia, nel Seicento e fino ai primissimi anni dell'Ottocento, ebbe caratteri baritonali, con acuti che, oltre il sol sul secondo rigo (sol 3), erano emessi con il colore marcatamente chiaro del 'falsetto rinforzato' o 'falsettone' e potevano a volte oltrepassare il do 4. Voce a volte più chiara, ma sempre meno potente ebbe, nel tardo Settecento e primissimo Ottocento, il tenore d'opera comica, denominato 'buffo di mezzo carattere'. L'opera preromantica italiana ebbe due tipi di tenori: uno (già in parte anticipato dall'haute-contre francese del Settecento) dalla voce chiara, agile, dolce, detto 'tenore contraltino', che emetteva acuti a voce piena (di petto) fino al si bemolle 3, salendo poi in falsettone fino al mi bemolle acutissimo (mi bemolle 4) e anche oltre; l'altro era detto baritenore per la voce scura e potente, ma aveva minor estensione sia a voce piena (la nota più acuta era generalmente il la 3) sia in falsettone. Da questi due tipi nacquero, rispettivamente, il tenore 'di grazia' o 'leggero' e quello 'di forza' o 'drammatico' del repertorio romantico (ma, come nel caso del soprano, veramente drammatico è, di solito, soltanto l'Heldentenor wagneriano). Il repertorio postromantico introdusse il tenore detto 'lirico', versione maschile del soprano lirico. Per tutti i tipi di tenore l'estensione è per lo più individuata nelle due ottave do grave-do sopracuto a voce piena o 'di petto' (do 2-do 4), ma si tratta di un'indicazione approssimativa.
La voce maschile intermedia è quella del baritono, denominazione rarissimamente usata nel Seicento, Settecento e agli inizi dell'Ottocento. In queste epoche il baritono, a seconda delle sue caratteristiche, era classificato come basso o tenore. Cominciò ad acquistare autonomia con l'opera romantica, che lo denominò inizialmente 'basso cantante'. Ma già tra il 1840 e il 1850 il baritono diede luogo a un tipo vocale a sé stante, con voce meno scura e ampia rispetto al basso, ma più estesa e squillante in alto. La gamma d'estensione più tipica del baritono va dal la bemolle sotto il rigo al sol acuto (la bemolle 1-sol 3).
Nella classificazione delle voci, l'estensione e il colore timbrico sono elementi di giudizio fondamentali, ma a volte non sufficienti. Non sono infrequenti casi di voci di basso estese quanto quelle dei baritoni, di baritoni dall'estensione tenorile e di mezzosoprani assimilabili, sempre come estensione, ai soprani. In questi casi l'elemento decisivo di valutazione è la 'tessitura', cioè la zona del pentagramma sulla quale una voce è chiamata a gravitare con maggiore frequenza. Ne consegue che una voce maschile tendenzialmente scura, ma capace di toccare gli estremi acuti di un tenore, non potrebbe essere classificata che come baritonale qualora desse segni di sforzo in melodie il cui andamento chiamasse insistentemente in causa la zona re 3-fa 3, centrale per un tenore, acuta per un baritono.
2.
Le fasi fondamentali della formazione del suono vocale (fonazione) sono identiche, e nel canto e nel linguaggio parlato. Il fiato proveniente dai polmoni fa vibrare le corde vocali e queste vibrazioni sono mutate in suono e amplificate dalle cavità di risonanza facciali e toraciche. Il canto esige tuttavia, rispetto al parlato, suoni dalla durata molto più lunga oppure molto più acuti e molto più gravi o anche molto più ampi e squillanti e in taluni casi più tenui; senza contare la vocalità virtuosistica e l'ornamentazione (basti pensare al trillo), del tutto precluse a chi parla. Di qui la necessità di una vera e propria tecnica di fonazione per il canto.
Fondamentale è la respirazione, tenendo presente che il canto richiede spessissimo l'impiego di una quantità d'aria notevolmente superiore a quella necessaria a chi parla. L'inspirazione (di gran lunga preferibile quella attraverso il naso a quella attraverso la bocca) mette in moto i muscoli detti inspiratori, e cioè diaframma e intercostali esterni. Il diaframma, che è un muscolo a forma di cupola, nell'inspirazione si appiattisce e, premendo sui visceri, agisce sui muscoli addominali facendo rigonfiare il ventre. Simultaneamente i muscoli intercostali esterni provocano la dilatazione del torace e delle coste basse. Nell'espirazione (fase di canto) agiscono i muscoli espiratori, che sono gli addominali e gli intercostali interni. Occorre ritrarre immediatamente e completamente il ventre (cioè appiattirlo) e far sì che i muscoli addominali, con l'interposizione dei visceri, riportino il diaframma alla posizione di partenza. Contemporaneamente i muscoli intercostali interni provocano il restringimento delle coste. In questo modo è possibile esercitare sui polmoni un'azione di compressione - diaframma dal basso, coste dai lati - che consente di regolare la fuoriuscita dell'aria dai polmoni e, quindi, l'intensità del suono.
Questo tipo di respirazione, in uso nel periodo aureo della tecnica vocale (dalla fine del Seicento all'inizio dell'Ottocento), prescritto dai migliori trattatisti di quel periodo e avallato successivamente da numerosi foniatri del secolo scorso, è stato poi avversato e ancora oggi in molte scuole si insegna a non ritrarre l'addome in fase di espirazione (vale a dire di canto) e a impedire così la risalita del diaframma. È questo, tuttavia, un sistema al quale la foniatria più moderna giustamente si oppone, per l'evidente ragione che, non ritraendo immediatamente l'addome in fase di espirazione, si impedisce o si ritarda proprio l'azione dei muscoli espiratori (addominali, intercostali interni). Questa è una delle cause per le quali anche molti cantanti famosi del nostro tempo, specialmente uomini, non sono in grado di regolare l'espirazione per addolcire o smorzare i suoni ed eseguire i segni d'espressione dei compositori.
Fondamentale nella tecnica vocale è il cosiddetto passaggio di registro. Le vibrazioni delle corde vocali, che sono ampie e lente nell'emissione delle note gravi, danno la sensazione di avere come principale cassa di risonanza le cavità toraciche. Da cui la locuzione gergale di voce, o di registro, 'di petto'. A misura che la voce procede verso l'alto e soprattutto nelle note acute, cassa di risonanza divengono le cavità superiori o facciali (voce 'di testa', in gergo). Ma le vibrazioni delle corde vocali della voce di testa sono diverse da quelle della voce di petto e cioè meno ampie e più veloci. Se quindi, salendo verso l'alto ed entrando nella zona che immediatamente precede i primi acuti, non si modificano le vibrazioni ampie e lente della voce di petto, le note acute saranno, nell'ascesa, sempre più sbiancate, forzate e aspre: il cosiddetto cantare aperto dei dilettanti, ma anche di non pochi professionisti. Il corretto procedimento, detto anche copertura del suono od oscuramento, esige che la laringe, che sale quando la voce procede verso l'alto (e si abbassa quando la voce discende), subisca, prima che inizino i suoni acuti, un lievissimo e momentaneo abbassamento, e ciò si ottiene emettendo un suono molto scuro, quasi una U, senza tuttavia stringere la gola ('il gola aperta e vocale coperta' delle antiche scuole). Nel momento in cui la laringe si abbassa, cessa l'azione dei muscoli laringei detti aritenoidei (che determinano le vibrazioni ampie e lente) e inizia quella dei cricotiroidei, che porta a vibrazioni meno ampie e più veloci. Non solo, ma l'intervento dei muscoli crico-tiroidei, solleva le corde vocali. È uno spostamento minimo - circa un decimo di millimetro -, ma sufficiente a ottenere che le vibrazioni delle corde vocali siano trasmesse non più verso il basso (cavità di risonanza toraciche), ma verso l'alto (cavità di risonanza superiori o di testa). Il progressivo oscuramento delle vocali, a misura che dal basso si procede verso l'alto (la A che diviene gradualmente quasi O, la E assimilata all'EU francese, la O quasi tramutata in U), è una delle regole fondamentali del canto artistico, nel quale la chiarezza della dizione è affidata prevalentemente alla scansione delle consonanti, mentre le vocali sono considerate come suoni neutri o intervocalici. Altro elemento fondamentale del canto è il 'legato' e cioè la capacità di collegare suoni consecutivi senza che si abbiano alterazioni timbriche o sbalzi di sonorità.
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