Cannibalismo
Il cannibalismo è l'uso di cibarsi di carne umana, altrimenti detto antropofagia. Il termine deriva dallo spagnolo caníbal, con cui veniva denominata la popolazione caribica delle Piccole Antille, alla quale dopo la scoperta dell'America furono attribuite pratiche antropofaghe. Si distingue un'antropofagia 'endocannibalica' e un'antropofagia 'esocannibalica', a seconda che le vittime siano scelte nel proprio gruppo sociale o al di fuori di esso. Del fenomeno dell'antropofagia, che da sempre ha suscitato grande attenzione nella cultura occidentale, sono state date interpretazioni assai differenti fra loro.
Il cannibalismo costituisce una sorta di fenomeno oscuro e inquietante, come un'ombra spettrale che si insinua con una certa frequenza e imprevedibilità nella storia della cultura occidentale. Costume orrendo e ripugnante quant'altri mai, esso tuttavia sembra esercitare una potente e perdurante attrazione sul pensiero europeo: grandi opere letterarie, dalla Divina Commedia al teatro barocco, da Rabelais a Defoe, rivelano, infatti, la curiosità, l'interesse misto a orrore, la sostanziale ambiguità simbolica e rappresentativa di un tale comportamento abnorme e selvaggio. Naturalmente, quelli che si dedicano a tali pratiche sono per lo più gli 'altri', selvaggi, barbari, coloro che vivono in paesi lontani e sperduti. Oppure sono personaggi che, per le loro azioni o per il destino che li travolge, si collocano al di fuori della normale dimensione umana (come il Tieste del teatro classico o il Conte Ugolino dantesco). Soprattutto la letteratura di viaggi sembra particolarmente ghiotta di notizie sulle mostruosità e meraviglie di mondi lontani, abitati da esseri fantastici, animali straordinari, uomini con la faccia di cane o con un solo piede e selvaggi cannibali.
Il termine cannibali (nella forma caniba, oppure caníbales) viene introdotto nella cultura europea da Cristoforo Colombo. Nel giornale di bordo del suo primo viaggio nel Nuovo Mondo, egli riferisce che gli abitanti delle Isole Bahamas e di Cuba chiamavano con questo nome i popoli delle Piccole Antille, i caribi, loro nemici tradizionali, descritti come feroci guerrieri i quali si cibavano della carne delle loro vittime. Il costume dell'antropofagia era tuttavia già conosciuto fin dall'antichità: Erodoto ne riferisce a proposito di un popolo asiatico vicino agli sciti, gli androfagi (Storie, IV, 18; 106), e dei massageti (Storie, I, 216); Strabone (Geografia, XV, 2, 14; 710; IV, 5, 4), Plinio il Vecchio (Storia naturale, IV, 88; VI, 53; 195) e Tolomeo (Introduzione geografica, IV, 8, 3; VI, 16, 4) riportano notizie di costumi antropofagici tra le popolazioni dell'Irlanda, dell'altopiano indoiranico, dell'alto Nilo e dell'interno dell'Africa. Marco Polo, nel Milione, descrive i raccapriccianti usi antropofagici di alcuni popoli del Giappone, di Sumatra e delle isole Andamane nell'Oceano Indiano. A partire dal 16° secolo in poi, con lo sviluppo dei viaggi e delle esplorazioni nei continenti extraeuropei, le segnalazioni e le descrizioni di costumi cannibalici si moltiplicano in ogni angolo del mondo.
Come per gli antichi greci il mondo dei cannibali coincideva con quello dei popoli barbari ai margini della civiltà ellenica, così per gli europei del periodo coloniale il cannibalismo costituisce una delle caratteristiche tutto sommato non sorprendenti dei popoli primitivi, dai costumi bizzarri e inconsueti, sui quali viaggiatori, missionari e funzionari coloniali continuavano a raccogliere e pubblicare ogni sorta di mirabolanti notizie. Il culmine di questa concezione di un mondo primitivo del cannibalismo è segnato dalla pubblicazione, nel 1939, della grande opera di sintesi di E. Volhard, Kannibalismus, che registra oltre un migliaio di gruppi etnici presso i quali sono segnalate pratiche che implicano il consumo di carne umana, la maggior parte dei quali si trova in Africa e in Oceania. In conformità con le categorie interpretative della scuola storico-culturale tedesca, in particolare con la teoria dei 'cerchi culturali', Volhard individua nel cannibalismo gli elementi di una particolare visione del mondo, propria di un determinato stadio di sviluppo culturale: quello dei popoli dediti all'orticoltura. La pratica della coltivazione avrebbe infatti suggerito l'idea di una sostanziale analogia tra la pianta e l'uomo, entrambi soggetti alla stessa vicenda ciclica di morte e rinascita. I rituali comprendenti pratiche di cannibalismo sarebbero quindi intesi ad assicurare la continuità della forza vitale, attraverso la costante reiterazione di attività che rivelano la profonda relazione tra corpo umano e piante coltivate. L'opera di Volhard contribuisce così a ricollocare il fenomeno dell'antropofagia all'interno di un contesto di significati simbolici e religiosi che ne riscattano la sua origine primitiva e selvaggia. Essa diviene una delle esperienze primordiali della sacralità, dell'intima unione esistenziale sperimentata dall'uomo con la natura e i suoi cicli di nascita, morte e rinnovamento.
Accanto al riconoscimento di un significato culturale, simbolico, espressivo del cannibalismo, già gli scrittori e i viaggiatori del Rinascimento e della prima età moderna avevano posto le basi per un giudizio ben più negativo. L'antropofagia, secondo autori come G. Cardano o Th.R. Malthus, invece che il prodotto di una raffinata cultura simbolica e rituale, sarebbe piuttosto il risultato di condizioni ambientali sfavorevoli, unite all'incontrollabilità di una natura umana selvaggia e preda degli istinti più aberranti. Tale punto di vista è rintracciabile ancora in E. Burnett Tylor, uno dei maggiori esponenti dell'antropologia di fine Ottocento, che vede nel cannibalismo un costume primordiale, riferibile alle fasi più remote della storia evolutiva dell'umanità. Esso sarebbe il prodotto del semplice bisogno di nutrimento che, in caso di scarsità di cibo o selvaggina, si rivolge a qualsiasi alimento disponibile: la carne umana si configura come una risorsa di alimenti facilmente accessibile per un'umanità primitiva. A rafforzare queste argomentazioni intervennero alcuni ritrovamenti paleontologici, che sembravano convalidare l'esistenza di pratiche antropofagiche nelle fasi più remote dell'evoluzione umana, nel Paleolitico inferiore e medio. Analogie con i dati etnografici relativi a popoli contemporanei consentivano di ipotizzare l'esistenza di costumi come la caccia di teste e il cannibalismo rituale in vari contesti archeologici e preistorici. Il mondo primordiale, alle origini dell'umanità, era caratterizzato da costumi arcaici e spaventosi, in cui dominavano la ferocia, la crudeltà e gli appetiti più sfrenati di esseri primitivi e semibestiali, in cui il lento processo di incivilimento era appena agli inizi.
Questo schema evoluzionistico influenzò anche l'elaborazione della teoria psicoanalitica del cannibalismo. In Totem und Tabu (1912-13), Freud immagina l'esistenza di un'orda primitiva, in cui i figli sono subordinati a un padre dominatore che detiene il possesso esclusivo delle donne del gruppo: i figli si rivoltano collettivamente contro il padre, lo uccidono e ne divorano il corpo; sopraffatti però dal ricordo dell'antica soggezione e del rispetto che la figura del padre incuteva loro, essi decidono di rinunciare volontariamente alle donne che avevano conquistato, ponendo le basi dell'organizzazione esogamica e totemica della società. Il mondo originario dei cannibali, nell'interpretazione di Freud, viene dunque posto all'origine stessa dello sviluppo della società e della cultura umana. Il superamento della condizione selvaggia e bestiale avviene solo attraverso il compimento di quell'atto esecrabile e ripugnante che consiste nel cibarsi del corpo del padre ucciso. Il processo di crescita del bambino, nella concezione freudiana, ripercorre il cammino seguito dall'evoluzione della specie, per cui nelle prime fasi dello sviluppo psicosessuale infantile è riscontrabile un momento in cui il bambino tende a introdurre in bocca tutto ciò che attira la sua attenzione: è questa la fase orale o fase cannibalica dello sviluppo psichico. Altri psicoanalisti, in particolare K. Abraham (1924), hanno distinto un secondo stadio, quello sadico-orale, in cui al piacere della suzione si sostituisce la fantasia di divoramento e dove prevale l'ambivalenza affettiva: l'oggetto che si vuole divorare è contemporaneamente (come nel caso del seno materno) fonte di piacere e di desiderio. Le analogie con i costumi di popoli primitivi vengono giustificate dal presupposto evoluzionistico secondo cui essi rappresenterebbero fasi arcaiche dello sviluppo psichico, che trovano corrispondenza nei meccanismi psichici dei bambini e dei nevrotici.
La supposta primordialità dei costumi cannibalici è stata però posta in dubbio dalle ricerche paleoantropologiche più recenti. In molti casi quelle che venivano interpretate come testimonianze di rituali cannibalici si sono rivelate semplici resti di pasti di animali predatori (lupi, orsi o iene); in altri casi è stata accertata la manipolazione di crani e altre ossa umane da parte degli ominidi primitivi, ma se ciò sia avvenuto per scopi antropofagici o per altri motivi a noi ignoti rimane oggetto soltanto di ipotesi. Il mondo oscuro e primordiale dei cannibali preistorici si è così andato dissolvendo, mentre le immagini di orde primitive e di cacciatori di teste vestiti con pelli di animali selvaggi hanno ormai abbandonato i testi scientifici e antropologici per trovare una nuova vitalità nel campo romanzesco della fantasy.
L'interpretazione in chiave materialistica e utilitaristica dei costumi cannibalici è stata riproposta da M. Harner (1977) a proposito del sacrificio umano presso gli aztechi, le cui vittime costituivano, secondo la testimonianza di alcune fonti, oggetto di un pasto collettivo, cui partecipava soprattutto la classe dei guerrieri. Secondo questo autore, le condizioni ecologiche dell'altopiano messicano, se da un lato favorivano lo sviluppo di un'orticoltura intensiva, dall'altro davano luogo a una notevole carenza di proteine animali. I sacrifici umani e la conseguente consumazione della carne delle vittime da parte degli aztechi costituivano, pertanto, una risposta a particolari condizioni materiali di esistenza, come unico modo di ovviare alla carenza proteica della dieta. Le possibili fonti alternative di cibo (fagioli, piante e animali selvatici) sarebbero state una risorsa scarsa e insoddisfacente se paragonata all'apporto nutritivo della carne (Harris 1985). Perciò, la consumazione rituale di carne umana tra gli aztechi sarebbe stata, piuttosto che la conseguenza di un sistema di prescrizioni religiose, il riflesso dell'importanza che il cibo di origine animale rivestiva per le necessità alimentari di un popolo costretto all'adattamento in situazioni ambientali e demografiche particolarmente precarie. D.M. Sahlins (1978) ha fatto però notare come questa teoria si caratterizzi più per ciò che trascura che per ciò che spiega: infatti, se la finalità del cannibalismo azteco era essenzialmente alimentare, il suo specifico significato culturale e la logica delle complesse pratiche rituali in cui esso era inserito rimangono del tutto inspiegati. Per comprendere in termini culturali un determinato fenomeno è necessario soprattutto identificare quale sia il significato di quell'usanza per coloro che la praticano invece di dimostrare che esso produce in qualche modo dei vantaggi per alcuni individui. È indispensabile a tale scopo cercare di ricostruire nel modo più dettagliato e scrupoloso possibile il contesto simbolico, cosmologico, cognitivo, all'interno del quale la pratica del cannibalismo trova la sua spiegazione e il suo significato culturale. Va, inoltre, ricordato che una più attenta disamina delle fonti storiche, adottando un criterio di critica e di verifica più disincantato, permette di mettere in luce la parzialità, la tendenziosità, perfino l'inattendibilità, in alcuni casi, delle notizie intorno a tale pratica.
Nuovi stimoli alla discussione sono venuti dalla pubblicazione del volume sul cannibalismo di W. Arens (1979), che ha avuto notevoli ripercussioni nel mondo antropologico e storiografico, sollevando qualche polemica. Dopo aver analizzato attentamente la letteratura etnografica sul cannibalismo, Arens ha infatti dichiarato di essere riuscito a rintracciare pochissime osservazioni attendibili del fenomeno in oggetto. In conclusione, i dati affidabili sull'effettiva pratica dell'antropofagia come costume culturale da parte di un qualsiasi gruppo umano sono ben scarsi, mentre diffuso universalmente è il costume di attribuire ad altri la caratteristica di cannibali: ai popoli circostanti, agli affini, ai membri di un altro clan o agli appartenenti all'altro sesso. Ogni gruppo umano tende a rafforzare la propria identità e a concepire la propria individualità come gruppo, contrapponendosi ad altri gruppi, i quali vengono caratterizzati con tratti distintivi opposti, o 'capovolti'. Così i gruppi diversi, gli 'altri', vengono facilmente connotati con categorie di inumanità, quali l'incesto, la mancanza di regole morali, la stregoneria, il cannibalismo. Queste istanze ideologiche, sostiene Arens, si sovrappongono spesso alle descrizioni etnografiche, provocando ogni sorta di malintesi e confondendo i fatti concretamente accertati. Lungi dal negare qualsiasi realtà al fenomeno, come qualche critico ha sostenuto, Arens intende sottolineare come il cannibalismo fosse pratica molto meno comune di quanto gli europei, e fra questi gli antropologi, siano stati sempre disposti a credere.
Le difficoltà sollevate dal lavoro di Arens mettono in luce quanto sia difficile, nel caso del cannibalismo, discernere i fatti dai contesti mentali e immaginari con cui costantemente si presentano intrecciati. Analisi circostanziate e accurate condotte in Nuova Guinea e Melanesia hanno dimostrato come certe pratiche cannibaliche siano state realmente parte integrante del sistema culturale e simbolico di alcuni gruppi umani (The ethnography of cannibalism, 1983). D'altra parte, che il cannibalismo sia, o sia stato, praticato in alcune culture nel contesto di particolari attività rituali può essere dato per accertato, per quella 'massima' antropologica secondo cui qualsiasi costume che sia pensabile e socialmente realizzabile è probabile che sia stato messo in pratica da qualche gruppo umano, in qualche regione del mondo o in qualche epoca storica. L'idea del cannibalismo coinvolge tuttavia un ambito più vasto di fenomeni: essa costituisce parte di un sistema di significati simbolici che riguarda la concezione della vita, della morte, della riproduzione e della continuità sociale di particolari gruppi umani. I simboli rituali cannibalici realizzano, attraverso la manipolazione della carne umana, la rappresentazione in forma visibile di categorie quali la preservazione della forza vitale, la continuità dell'esistenza umana attraverso le generazioni, l'identità nei confronti dei gruppi vicini, e così via (Sanday 1986; Combès 1992).
In questa prospettiva, la classica distinzione tra esocannibalismo ed endocannibalismo rivela soltanto una diversa direzione di carattere simbolico. Nel primo caso, la motivazione principale può consistere nell'ostilità tra gruppi e nella vendetta per la morte di parenti e amici; nel secondo, la pratica è, per es., connessa con idee di rigenerazione delle energie vitali e di legame tra vivi e antenati, realizzato attraverso sostanze corporee come la carne o le ossa. Un caso ben documentato è costituito dalle cerimonie funerarie degli yanomamo (Cocco 1975), anche se in questo caso sarebbe più corretto parlare di 'osteofagia', trattandosi della consumazione da parte dei parenti del defunto delle ossa del cadavere cremato, triturate e mescolate con un impasto di banane, nel corso di un pasto rituale. In numerosi casi, come era quello dei tupinamba del Brasile orientale (Combès 1992), la vittima del sacrificio umano e del banchetto veniva ospitata per alcuni anni all'interno del gruppo dei suoi catturatori. Gli veniva data una donna del villaggio in moglie e gli si conferivano numerosi privilegi. In qualche misura egli veniva inserito parzialmente nella società dei suoi carnefici, ma non completamente. Non era più uno straniero nel senso assoluto del termine, anche se non era neppure divenuto un membro effettivo del gruppo: la sua uccisione e consumazione riveste un ruolo ambiguo e problematico. Sul filo di tale ambiguità e indeterminatezza si gioca il processo di identificazione del proprio gruppo nei confronti dell'altro, lo straniero, il diverso, il nemico.
La figura del cannibale assume poi un'importanza determinante in alcuni rituali iniziatici, in cui l'aspetto decisivo consiste nel costruire socialmente e culturalmente un'immagine dell'essere umano in quanto specificamente modellato e definito all'interno di un determinato contesto culturale. Durante le cerimonie invernali dei kwakiutl e dei bella coola (costa nordoccidentale del Canada), per es., l'accesso a certe società segrete comporta la trasformazione del candidato in essere selvaggio, dominato da uno 'spirito cannibale' (Walens 1981). La voracità del cannibale si configura così come un potere esterno, che deve essere integrato dalla personalità dell'iniziato, che deve saper dominare l'aspetto selvaggio e animalesco rappresentato dal cannibalismo per attingere la piena realizzazione della propria personalità umana e, quindi, del proprio ruolo sociale (Comba 1992).
K. Abraham, Versuch einer Entwicklungsgeschichte der Libido auf Grund der Psychoanalyse, "Neue Arbeiten zur Ärztlichen Psychoanalyse", 1924, 11, pp. 1-96 (trad. it. in id., Opere, 1° vol., Torino, Boringhieri, 1975, pp. 286-335).
W. Arens, The man-eating myth. Anthropology and anthropophagy, New York, Oxford University Press, 1979 (trad. it. Torino, Boringhieri, 1980).
L. Cocco, Parima: dove la terra non accoglie i morti, Roma, Libreria Ateneo Salesiano, 1975.
E. Comba, Cannibali e uomini-lupo: metamorfosi rituali dall'America indigena all'Europa antica, Torino, Il Segnalibro, 1992.
I. Combès, La tragédie cannibale chez les anciens Tupi-Guarani, Paris, PUF, 1992.
The ethnography of cannibalism, ed. P. Brown, D. Tuzin, Washington, Society for Psychological Anthropology, 1983.
S. Freud, Totem und Tabu: einige Übereinstimmungen im Seelenleben der Wil den und der Neurotiker, Leipzig-Wien, Heller, 1912-13 (trad. it. in id., Opere, 7° vol., Torino, Boringhieri, 1975, pp. 1-164).
M. Harner, The ecological basis for Aztec sacrifice, "American Ethnologist", 1977, 4, pp. 117-35.
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M. Sahlins, Culture as protein and profit, "The New York Review of Books", 1978, 25, 18, pp. 45-53.
P. R. Sanday, Divine hunger: canniba lism as a cultural system, Cambridge-New York, Cambridge Uni ver sity Press, 1986.
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S. Walens, Feasting with cannibals. An essay on Kwakiutl cosmology, Princeton (NJ), Princeton Uni versity Press, 1981.