DELLA SCALA, Cangrande
Secondo di questo nome, nacque da Mastino (II) signore di Verona e Vicenza e da Taddea da Carrara, in data da fissare - secondo il continuatore del Chronicon Veronense - al 7 giugno 1332, proprio quando - ma tale coincidenza appare un po' sospetta - la città di Brescia cadeva nelle mani di suo padre. Della sua infanzia e della sua adolescenza ben poco si conosce a motivo della nota carenza di documentazione relativa alla corte scaligera. Durante la guerra veneto-scaligera del 1336-1339 il D. venne consegnato in ostaggio nel castello di Peschiera insieme con altri maggiorenti veronesi al nunzio imperiale (dicembre 1337). La fonte che ci fornisce tale notizia - il Cortusi - parla tuttavia di "unicus filius et infaris" di Mastino e gli dà per errore il nome di Canfrancesco. Nello stesso anno il D. venne creato cavaliere. Alla fine del 1338, durante le trattative che portarono alla pace del gennaio del 1339 e alla fine delle ostilità, Mastino si rifiutò di consegnarlo come ostaggio al governo veneziano in luogo di Alberto (II) Della Scala, zio del piccolo e coreggente di Verona. Giovane ancora, ma già portato alle "res militares", il D. comparve al fianco dello zio Alberto in alcuni episodi di guerra del 1348-49. Nel maggio del 1350 furono avviate trattative in vista di un suo matrimonio con una figlia di Ludovico il Bavaro, e pertanto sorella di Ludovico V e di Ludovico VI di Wittelsbach, duchi di Baviera e, l'uno dopo l'altro, margravi del Brandeburgo (Ludovico V, per aver sposato Margherita di Maultasch, erede dei conti del Tirolo, era investito di autorità politica anche a Trento). La scelta cadde su Elisabetta, che il D. sposò nel novembre successivo.
La prestigiosa parentela, che da allora legò il D. alla potente famiglia dei Wittelsbach, oltre ad avere una sua ovvia e notevole importanza nel quadro delle relazioni politiche locali, esercitò anche non poca influenza sul giovane e sul suo modo di vivere. Il D., secondo il cronista veronese Marzagaia (in Ant. cron. ver.), visitò "frequentissime" gli illustri parenti della moglie, ed i "Brandiburgenses mores atque luxuria" ne caratterizzarono - negativamente, a giudizio del medesimo autore - il comportamento. Le cronache coeve, del resto, sottolineano in talune occasioni la partecipazione del D. alle curie e ai tornei organizzati a Trento dai marchesi del Brandeburgo.
Nel giugno del 1351, morto Mastino (II) e rimasto unico "dominus generalis" di Verona e Vicenza il fratello del defunto, Alberto (II), le autorità municipali, col consenso dello stesso Alberto, attribuirono al D. ed ai di lui fratelli minori Cansignorio e Paolo Alboino l'arbitrium. L'atto non si distaccava dal cliché che era stato seguito nella precedente transizione dei poteri signorili, quella del 1329. Sebbene l'arbitrium fosse stato assegnato alla pari e in solido ai tre figli di Mastino, in realtà il solo D. esercitò il potere effettivo, specie dopo la scomparsa dello zio Alberto (II), avvenuta dopo poco più di un anno, a metà di settembre del 1352. I coreggenti erano infatti ancora fanciulli, e d'altro canto non vi erano in quel momento esponenti della famiglia scaligera che avessero un rilievo tale da potergli contendere il primato - a parte forse i due illegittimi di Mastino (II): Pietro, che, divenuto nel 1350 vescovo di Verona, si mantenne però costantemente, a quanto risulta, in buoni rapporti col D.; e il miles Fregnano, che allora aveva già una discreta carriera militare alle spalle e che al momento era podestà di Vicenza. Salito al potere, sul piano diplomatico il D. dovette affrontare immediatamente problemi assai delicati connessi con l'evolversi dei rapporti di forza tra le potenze dell'area padana, dove si andava affermando lo Stato visconteo. Incontrò all'inizio qualche difficoltà anche nell'area trentina, sempre importante per Verona.
Presso Mastino (II) si era a suo tempo rifugiato un feudatario della Val Lagarina, Guglielmo di Castelbarco di Avio, cacciato dai suoi possessi ereditari ad opera dei figli che gli si erano ribellati. Dopo quello condotto da Alberto (II) e da Spinetta Malaspina nel settembre del 1351, anche il D. compì sul finire dell'anno un intervento nella Val Lagarina. La questione fu composta nel. marzo del 1352, grazie alla mediazione di Ludovico V del Brandeburgo. Negli anni successivi, comunque, questo settore non fu causa di preoccupazioni per il D., se non episodicamente. La notizia fornita dal Villani circa una partecipazione dei Castelbarco al colpo di Stato tentato nel 1354 da Fregnano Della Scala resta infatti molto dubbia. Come momento di vera tensione nella Valle dell'Adige si può dunque ricordare solo quello dell'ottobre del 1355, quando il D., in seguito all'occupazione di Riva del Garda compiuta dai figli di Guglielmo di Castelbarco, protestò presso il margravio del Brandeburgo.
Nei rapporti con le altre signorie padane il D. si trovò, iniziando il suo governo, a dover gestire la non semplice eredità della politica avviata da Mastino (II) nei suoi ultimi anni.
Questi aveva infatti da un lato appoggiato l'azione svolta dalla Sede apostolica a proposito dell'affaire di Bologna e delle Romagne, ma si era nel contempo legato, dall'altro, ai Visconti - come prova lo stesso matrimonio di sua figlia Beatrice con Bernabò Visconti, che era stato celebrato nel 1350. Ancora nel giugno del 1351 erano in corso trattative con la Curia romana e con le città toscane in vista di una lega antiviscontea, trattative che si conclusero con un nulla di fatto in seguito al precario accordo raggiunto dal papa Clemente VI con Giovanni Visconti. Il problema dei rapporti con Milano - problema connesso con l'altro dei rapporti coi Gonzaga di Mantova, quasi stabilmente legati nella loro azione politica ai Visconti - era inevitabilmente destinato a ripresentarsi al nuovo signore di Verona.
Fu con riferimento, verosimilmente, a tali problemi che dall'ottobre del 1351 al novembre del 1353 il D. ebbe una serie di contatti e di colloqui con coloro che si presentavano allora come i partners più fedeli della politica scaligera, Obizzo e, poi, Aldobrandino d'Este, da lui del resto sostenuti apertamente contro i legittimi Rinaldo e Francesco d'Este. Tali incontri si tennero a Badia Polesine nell'ottobre del 1351; a Venezia, nel maggio del 1352; a Verona, nel maggio del 1353; ancora a Badia Polesine, nel maggio del 1353. Dopo questa prima fase, interlocutoria, di contatti, la conquista di Genova da parte dei Visconti indusse la Repubblica di S. Marco a rompere gli indugi, accostandosi a Verona: al convegno tenutosi a Legnago nel novembre del 1353 parteciparono infatti anche rappresentanti del governo di Venezia. In quella occasione il D. fece anche da interessato paciere fra Aldobrandino d'Este ed un oppositore di quest'ultimo, Galassio Medici, e trattenne in propria mano il castello di Maderio. Nel dicembre dello stesso anno il D. aderì formalmente alla lega antiviscontea che si costituì allora sotto la regia dei rappresentanti veneziani e che vide riuniti, oltre a Verona e a Venezia, gli Estensi, i da Carrara, i Manfredi, e con la quale avrebbe dovuto cooperare anche l'imperatore. Nel quadro delle trattative il D. si impegnò a fornire all'esercito della lega 800 lance su un totale di circa 3.000, ed ottenne la restituzione del castello di Brendola, nel Vicentino.
In questi primi anni del suo reggimento, e in particolare in queste trattative diplomatiche, il D. si avvalse della collaborazione di uomini di corte e di funzionari che avevano per lo più già servito - loro stessi e le loro famiglie - il padre suo Mastino: Reguccio Pegolotti, Giacomo Cavalli, Francesco Bevilacqua, il "factor generalis" Giacomo a Leone. Si avvalse anche di qualche esponente della sua stessa famiglia, come Giovanni Della Scala. Non mancavano però, nella corte veronese e tra le famiglie in passato aduse ad una attiva collaborazione con gli Scaligeri, tensioni e malcontento (significativo fra gli altri il caso dei Dal Verme), che trovarono uno sbocco nell'adesione di numerose personalità alla congiura di Fregnano Della Scala.
Nel febbraio 1354 il D. col fratello Cansignorio partì da Verona alla volta di Bolzano: per partecipare ad una curia secondo alcune fonti; per indurre ad aderire fattivamente alla lega antiviscontea appena stretta anche il margravio del Brandeburgo, che non era in buoni rapporti con Venezia, secondo altre. Fu l'occasione sfruttata dal brillante miles Fregnano Della Scala, figlio illegittimo di Mastino (II), per insignorirsi della città. Il complotto ebbe, all'esterno, l'appoggio concreto dei Gonzaga, l'ostilità e il rancore dei quali nei confronti di Verona risalivano all'epoca di Mastino (II), e la possibile connivenza dei Visconti; ed all'interno, il sostegno di qualche vecchia volpe della corte scaligera (come Azzo da Correggio), di funzionari, e di significative famiglie del ceto dirigente cittadino. Informato a Bolzano del colpo di Stato compiuto dal fratellastro, il D. si recò rapidamente a Vicenza, dove si era rifugiato Giovanni Della Scala. Di lì con truppe proprie, trentine e padovane, attaccò Verona dal lato orientale e in una dura battaglia urbana sconfisse ed uccise Fregnano, facendo prigioniero, tra gli altri, il Gonzaga (23 febbraio). Il distretto di Verona rimase estraneo - pare - agli avvenimenti.
Sul piano diplomatico le conseguenze del fallito colpo di Stato furono riassorbite in fretta. Nonostante iniziali resistenze, il D. ed i suoi collaboratori poterono, grazie all'abile mediazione veneziana, ottenere di far entrare nuovamente Verona nella lega (23 marzo, e poi 12 apr. 1354). Alla lega aderirono pure, dopo aver pagato cospicui riscatti per la liberazione dei prigionieri, i Gonzaga. Contro questi ultimi il D. non compì dunque la progettata ritorsione: "et sic evadit Mantua e manibus Veronensium", osserva in proposito uno dei cronisti coevi.
Nella breve guerra combattuta dalla lega contro Milano nell'estate del 1354, guerra presto interrotta dalla morte di Giovanni Visconti (5 ottobre), il D. non svolse un ruolo di rilievo. Nel novembre successivo prestò omaggio in Legnago a Carlo IV, venuto in Italia per cingervi la corona imperiale: sotto gli auspici di questo sovrano fu stabilita una tregua fra i belligeranti, e fu quindi la pace.
Sul piano interno, invece, le ripercussioni del fallito colpo di Stato del febbraio del 1354 furono più durature e complesse. Il 25 marzo, con un provvedimento eccezionale, il D. istituì un Consiglio ristretto composto da dodici "sapientes ad utilia" e da dodici tra anziani e gastaldioni. Tale Consiglio aveva competenza "ad provedendum... utilia Communis Verone", e sostituiva il Consiglio dei gastaldioni delle arti, che il governo signorile aveva ereditato dal regime "di popolo", e lo stesso Consiglio maggiore. L'importanza del provvedimento, comunque, non va sopravvalutata, in quanto i "sapientes ad utilia" esistevano già da tempo. Non è neppure esatto parlare, come fa il Simeoni (1937-38), "abolizione del Consiglio Maggiore", che continuò a venir convocato sino all'età almeno di Cansignorio. Il D. si limitò, in sostanza, ad assecondare una tendenza allora assai diffusa che postulava la creazione di organismi amministrativi ristretti; ma lo fece, certamente, prendendo spunto dal complotto ordito dal fratellastro.
È ben noto, inoltre, come pure a causa di quel complotto il D. abbia dato principio alla costruzione del castello e del ponte di S. Martino Aquaro, l'attuale Castelvecchio, che d'altro canto simboleggiano con palmare evidenza - nella loro stessa collocazione topografica - l'isolamento del dominus generalis e la "rottura del legame intimo tra dinastia e cittadinanza, che era stata la vera forza dei primi signori scaligeri" (Simeoni, 1937-38). La costruzione fu realizzata sotto l'impulso del D. e del suo procuratore Francesco Bevilacqua con grande rapidità, grazie anche a prestiti e ad una energica stretta fiscale. Secondo i cronisti locali, il D. preferì poi abitare in Castelvecchio, con pochi fedelissimi (testò, tuttavia, negli aviti palazzi di S. Maria Antica). Agli stessi anni risalgono i lavori per il castello di Montecchio (Vicenza), e soprattutto per il completamento del complesso di fortificazioni denominato "serraglio di Villafranca", sul confine con il Mantovano.
Lo schema, che è stato forse un po' enfatizzato, di un sospettoso ripiegamento del D. e della sua attività di governo dopo il 1354 (è ben noto l'appellativo di "Can rabioxo", datogli non solo dalle fonti veronesi, ma anche - ad es. - dai Gatari) ha indubbiamente suoi precisi fondamenti. In effetti, Verona fu sostanzialmente assente, negli anni successivi al fallito colpo di Stato di Fregnano Della Scala, dalla attività diplomatica. In occasione di un ulteriore grave turbamento verificatosi nella situazione politica della Marca trevigiana durante il 1356, l'invasione del re d'Ungheria, il D. si guardò bene dal prendere una posizione esplicitamente antiveneziana - come fece invece Francesco il Vecchio da Carrara. Si tenne in contatto con i Visconti; si recò a Treviso dove rese omaggio a Luigi; aveva con sé 500 barbute, che lasciò al sovrano ungherese. Tuttavia, in accordo con Ludovico del Brandeburgo, recò aiuto a Sicco da Caldonazzo, che attaccava allora i castelli padovani in Val Sugana: insomma evitò di compromettersi. Nel 1358-59 fornì inoltre qualche aiuto a Bernabò Visconti impegnato nell'assedio di Bologna.
Le fonti cronistiche coeve, tuttavia, informano quasi esclusivamente, per gli anni 1356-59, della dura pressione fiscale posta in essere dal D., del suo appoggiarsi all'esercito, della sua esplicita volontà di accumulare denaro e rendite da devolvere a vantaggio dei suoi figli illegittimi, tutti allora giovanissimi: Tebaldo, Fregnanino e Guglielmo. Secondo il continuatore del Chronicon Veronense, che scrive all'epoca di Cansignorio e forse non senza qualche venatura polemica, "maxima onera" - e, in particolare, un campatico di soldi 4 per campo nel 1356 - impose il D. all'esclusivo scopo di "pecuniam a suis civibus extorquere durante tempore vite sue"; aggiunge che egli fece giurare fedeltà dagli stipendiarii ai suoi tre figli illegittimi.
Al di là di questi aspetti appariscenti, e certo di indubbio rilievo, resta però da indagare meglio l'attività di governo del D. nei riguardi dell'assetto interno dello Stato scaligero. La "fattoria signorile" si avvia ad esempio, in questo decennio, ad assumere una sempre maggiore importanza ed una connotazione semipubblica - non più di semplice struttura amministrativa privata - ai danni delle competenze comunali. Ci è pervenuto, sotto la data del 1355, un elenco di "ville" del distretto direttamente soggette alla "fattoria signorile" ed esenti dalle imposizioni del Comune di Verona: ben più cospicuo che in precedenza, comprendente una cinquantina di Comuni piccoli e grandi. Si intensifica anche durante il governo del D. l'intervento legislativo effettuato d'autorità, mediante "ambaxata", sugli statuti delle arti, intervento che sino alla fine della signoria di Mastino (II) era stato assai sporadico. Compaiono poi nell'amministrazione cittadina alcuni giuristi e nobili vicentini: indizio probabile dell'evoluzione in atto nei rapporti con il ceto dirigente di quella città, esponenti della quale si trovavano peraltro a domicilio coatto in Verona nel 1359. L'ipotesi interpretativa, su cui basare ulteriori ricerche relative al decennio di governo del D., potrebbe dunque essere quella dell'emergere di alcune tendenze all'assestamento interno del ridimensionato Stato scaligero.
Il D. aveva poco più di ventisette anni quando il 24 nov. 1359 dettò il suo testamento, esplicitamente motivato dall'intenzione di "equitare" quanto prima verso Trento e la Germania per un "colloquium et parlamentum" con Ludovico VI di Wittelsbad. Si ignorano gli obiettivi del viaggio (e la sua stessa eventuale effettuazione), ma non doveva mancare nel D. un qualche sospetto riguardo ad eventuali colpi di mano o complotti: sospetti e timori in qualche modo connessi con i provvedimenti da lui presi in favore dei suoi tre figli illegittimi. Infatti, se vi indica come suoi eredi universali i due fratelli e coreggenti Cansignorio e Paolo Alboino, e se assegna cospicui legati alle chiese da lui fondate - come quella di S. Maria della Vittoria, costruita per celebrare la fortunata repressione del moto del 1354 -, il D. dedica però la parte per noi più interessante del testamento appunto ai tre figli, indicando fra l'altro come tutori di Fregnanino e di Tebaldo il "factor" Icopo a Leone e Reguccio Pegolotti. Del resto pochi mesi prima, nel maggio di quello stesso anno, a Venezia, i procuratori del D. avevano depositato in favore di Fregnanino e di Tebaldo al Fondaco del frumento e presso i Procuratori di S. Marco oltre 191.000 ducati "de propriis denariis ipsius domini Canisgrandis". A Guglielmo il D. assegnò invece 60.000 ducati. Nel testamento il D. menziona anche due figlie: Troiana e Cagnola detta Beatrice.
Venti giorni dopo aver dettato il suo testamento, il 14 dic. 1359, il D. venne assassinato a Verona, dal fratello Cansignorio, mentre passava per una strada presso l'Adige, nella contrada di Sant'Eufemia.
Fonti e Bibl.: Come per altri signori scaligeri, resta inedita un'ampia documentazione inerente, al di là degli aspetti strettamente politico-diplomatici, l'attività di governo del D. nel suo complesso, nonché i suoi interessi economici. Per le fonti narrative edite, in maggioranza attente peraltro al solo episodio del 1354, cfr.: B. Pagliarino, Croniche di Vicenza, Vicenza 1663, pp. 114 s.; Parisii de Cereta Chronicon Veronense..., in L. A. Muratori, Rerum Ital. Script., VIII, Mediolani 1726, coll. 653-56; Chronicon Estense, ibid., XV, ibid. 1729, coll. 475-80, 484; Iohannes de Cornazanis, Hist. Parmensis fragmenta, ibid., XII,ibid. 1728, col. 749; S. et P. de Gazata, Chronicon Regiense, ibid., XVIII, ibid. 1731, coll. 72-74; Corpus chronicorum Bononensium, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XVIII, 1, a cura di A. Sorbelli, p. 599; Chronicon Estense, ibid., XV, 3, a cura di G. Bertoni - E. P. 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