CANFORA (dal sanscr. karpùra; arabo kàfùr; lat. scient. camphora; fr. camphre; sp. alcanfor; ted. Kampfer; ingl. camphor)
Con questo nome si indica la pianta e il suo prodotto.
La pianta della canfora è scientificamente chiamata Cinnamomum camphora Nees., Laurus camphora L. (fr. camphrier; sp. alcanfor; ted. Kampferbaum; ingl. camphor tree): è un albero di grandi dimensioni, fino a 15 metri d'altezza, che vive nei boschi dell'Asia orientale: nella Cina centrale e orientale e nel Giappone, compresa l'isola di Formosa ove forma sulle coste delle foreste fino a 600-800 m. sul livello del mare. Il suo fogliame è di un bel colore verde chiaro: le foglie sono alterne, persistenti, picciolate, con lembo ovale attenuato alle due estremità, oppure acuto o acuminato all'apice e subottuso alla base, coriacee, con tre nervature principali ben marcate. I fiori sono piccoli, biancastri, disposti in cime ascellari pauciflore: sono trimeri e monoclini. Il frutto è una piccola drupa ovoide, liscia, di color porporino oscuro o violaceo a maturità. Questa pianta è anche coltivata e vive bene nella regione mediterranea, ma, benché siano stati fatti in proposito numerosi studî, ancora da noi non è coltivata né utilizzata industrialmente.
La canfora è disciolta nell'olio essenziale contenuto negl'idioblasti oleiferi che si trovano sparsi in tutti i tessuti della pianta, ma che sono particolarmente abbondanti nel legno del tronco e della radice, ove anzi spesso la canfora si accumula naturalmente in cavità dovute alla distruzione di gruppi di elementi. Una volta si estraeva esclusivamente dal legno del tronco, dei rami e delle radici, abbattendo gli alberi e sottoponendo il legno frammentato in speciali apparecchi di distillazione, abbastanza rozzi e primitivi, all'azione del vapor d'acqua che trasporta via l'olio essenziale e deposita in seguito al raffreddamento la canfora, sotto forma di granuli cristallini rosei o grigiastri, in adatti recipienti. Questa è la canfora greggia che prima si purificava solo in Europa; oggi questa operazione si compie in Giappone mediante sublimazione, formando delle specie di pani di varia forma e grandezza.
Ma per il grande costo della droga oggi si utilizzano anche le foglie e i rami giovani, che contengono una certa quantità di olio essenziale e quindi di canfora, per quanto in proporzione minore che nel legno: quindi si sottopongono le piantagioni ogni anno a speciali potature e si abbattono, per la utilizzazione del legno, quando hanno raggiunto il 50° anno di età.
Le foreste di canfora dell'isola di Formosa per molti anni sono state vandalicamente utilizzate, tanto che le piante erano grandemente diminuite; quando i Giapponesi si sono impossessati di questa isola hanno iniziato una savia politica forestale per la ricostituzione delle foreste di canfora le quali erano quasi completamente scomparse dalle pianure occidentali dell'isola, sostenendo sanguinose lotte con le tribù locali, abituate ai barbarici metodi distruttivi che, continuati, avrebbero forse fatto scomparire completamente la preziosa pianta dall'isola.
La canfora di Borneo o di Sumatra è il prodotto del Dryobalanops aromatica Gaertn. (D. camphora Colebr.), albero della famiglia della Dipterocarpacee che vive a Giava, Sumatra e Borneo. I Cinesi usano anche la canfora di Ngai prodotta dalla Blumea balsamifera DC., grande erba della famiglia delle Composite, comune nell'Asia tropicale e orientale.
Bibl.: G. Planchon e E. Collin, Drogues simples, I, Parigi 1895; H. Baillon, Botanique médicale, I, Parigi 1883; I. Giglioli, La canfora italiana, Roma 1908 (in questa opera è contenuta una ricchissima bibliografia).
La canfora è una sostanza solida, elastica, incolora, translucida, che non può ridursi in polvere se prima non si bagna con alcool, con etere o con altro dei suoi solventi; gettata in piccoli pezzi nell'acqua, galleggia assumendo un rapido movimento rotatorio; volatizza rapidamente, anche a temperatura ordinaria, spandendo un odore penetrante che ha la proprietà di vincere e mascherare altri odori. La canfora era sconosciuta ai Greci e ai Romani: ne troviamo notizia in un poema arabo di Imru'al-Quais del sec. VI e in questo periodo di tempo la troviamo usata a Costantinopoli da Ezio d'Omida. Il suo uso in Europa cominciò a diffondersi nel sec. X. Però secondo alcuni la canfora importata allora in Italia, poi in Germania, non era la canfora ordinaria, cioè quella della Cina, ma la canfora di Borneo o di Sumatra, con la quale spesso fu confusa. Solamente nel sec. XVI, dopo cioè che il commercio ebbe conquistato le vie del mare verso le Indie orientali, la canfora della Cina fu importata in Europa e anzi, a detta di García de Orta (1653), essa sola vi giungeva, perché costava cento volte di meno di quella di Borneo, che in Oriente veniva riservata alle cerimonie funebri. Dell'alto prezzo della canfora di Borneo aveva già dato notizia circa quattro secoli innanzi Marco Polo, narrando che nel reame di Fransur in Sumatra "nasce la migliore canfora del mondo la quale si vende a peso d'oro" (Milione, capo cxlviii). Anche nella lista delle "drogherie et delli prezzi che vagliono in Calicut et nel paese di Malabar" di Odoardo Barbosa (Duarte Balbosa portoghese, circa 1511-16), riportata da G. B. Ramusio in Delle navigationi et viaggi, Venezia 1563, si trova notato "canfora grossa in pani" a un prezzo più basso della "canfora per unger gl'idoli" e della "canfora da mangiar et per gl'occhi".
Il commercio, dunque, e l'uso pratico distinguevano da secoli due specie di canfora, ma solamente nella prima metà del 1800 la chimica poté stabilire ch'esse effettivamente corrispondono a due composti con le formule grezze C10H16O e C10H18O; all'uno fu conservato il nome canfora, all'altro fu dato, su proposta di Gerhardt, quello di borneolo; tuttavia nelle farmacopee, in farmacologia, ecc., il nome canfora si usa ancora per designare il borneolo e altri prodotti essenziali ossigenati, specificando però il luogo di provenienza o la pianta d'onde si ricavano.
Sulla natura della canfora la luce si è fatta molto lentamente. Sebbene già dal 1300 circa Marco Polo avesse affermato d'aver attraversato in Cina boschi con "molti albori che fanno la canfora", in Europa le opinioni sull'origine di questa sostanza rimasero lungamente divise. Ancora verso la metà del 1500 Agricola la considera una resina fossile e combatte l'opinione di coloro che la ritengono una resina o una gomma d'albero; nei due secoli successivi la canfora è a volta a volta un olio etereo solido, un sale etereo volatile, un etere solido, materia accesa dal lampo. Bisogna arrivare a circa il 1720 perché essa venga riconosciuta per un'individualità chimica da Neumann, in Lectiones chymicae (1727), p. 95. Le prime notizie sull'azione dei reagenti chimici sulla canfora sono della fine del sec. XVI: Libacius, in Alchymia (1595) parla della sua solubilità in acido nitrico; Kosegarten nel 1785 tenta d'estrarne il flogisto con acido nitrico e perviene a quell'acido canforico che, circa tre quarti di secolo dopo, acquistava grande importanza per la determinazione della struttura della sostanza madre. Salvo queste poche osservazioni, può dirsi che la storia chimica della canfora cominci con la sua classificazione fra le sostanze organiche dopo che Lavoisier, circa nel 1770, l'ebbe riconosciuta per un composto di carbonio e ossigeno; la storia procede di pari passo con lo sviluppo della nascente chimica organica, la quale trovò subito in quella sostanza, che da così lungo tempo richiamava l'attenzione dell'uomo, un materiale singolarmente prezioso per applicare ed estendere i criterî e i mezzi d'indagine, con i quali edificava la sua dottrina. La risoluzione dei problemi riguardanti la canfora dové, quindi, risentire della imperfetta sperimentazione e della ristretta capacità d'interpretarne i risultati di cui disponeva nei primi tempi la chimica organica; corsero ben sessanta anni fra la data in cui venne fissata la formula grezza e quella in cui fu proposta la formula di struttura che vale ancora oggi. Il lavoro dei chimici intorno alla canfora non terminò con la conquista di quelle tappe fondamentali: le sue relazioni con altri componenti degli olî essenziali e con i composti aromatici e pentametilenici, la varietà infinita dei prodotti di demolizione, l'importanza di molti derivati per lo studio delle trasposizioni intramolecolari e della stereoisomeria, le applicazioni industriali e farmacologiche continuarono ininterrottamente e continuano anche oggi a essere oggetto di ricerca.
L'elaborazione del metodo generale per l'analisi elementare delle sostanze organiche - la cosiddetta combustione - dovuta all'opera di J. v. Liebig e di G. B. A. Dumas, permise a quest'ultimo nel 1833 di stabilire la composizione della canfora, e ad altri chimici, quella dei prodotti di trasformazione allora noti, come p. es. l'acido canforico (F. Malaguti, 1837). Frattanto, tenendo presenti le poche proprietà chimiche che si erano potute rilevare circa la canfora, s'iniziava la discussione sopra la natura dell'ossigeno legato nella sua molecola. In quel torno i composti ossigenati organici si classificavano in alcool, aldeidi, acidi, eteri salini e ossidi: non si distingueva ancora la classe dei cetoni. La canfora, in certe reazioni, perdeva acqua trasformandosi nell'idrocarburo C10H14: poteva essere quindi un alcool. L'ipotesi non fu molto seguita; tuttavia nel 1868 era ancora discussa e Baubigny ne dimostrava l'infondatezza, provando che la canfora non si eterifica con il cloruro d'acetile.
Pelouze nel 1841 aveva stabilito che la canfora di Borneo (borneolo) differiva per due atomi d'idrogeno in più dalla canfora ordinaria e che in questa poteva trasformarsi se ossidata con acido nitrico; Gerhardt e Cahours, quasi contemporaneamente, avevano fatte le stesse osservazioni e Gerhardt nel 1843 ne aveva dedotto che il borneolo stava alla canfora come l'alcool all'aldeide. Fu così lanciata l'idea della natura aldeidica della canfora; essa non parve abbastanza dimostrata a Dumas (Manuel de Chimie appliquée, 1846, VII, p. 236) ma venne accolta da altri chimici, specialmente da M. Berthelot il quale ne ritrovava (1859) il fondamento nella seguente esperienza. Riscaldando la canfora con idrato sodico in soluzione alcoolica alla temperatura di 180-200° otteneva borneolo e un acido, cui attribuiva la composizione C10H16O2 e dava il nome di acido canfinico. Ora, S. Cannizzaro, già dal 1853, aveva fatto conoscere una reazione - rimasta nel novero di quelle celebri - secondo la quale l'aldeide benzoica per azione degli alcali si trasforma nell'alcool benzilico e nell'acido benzoico: M. Berthelot vide nella trasformazione da lui osservata un processo del tutto simile. Tollens e Fittig, però, controllando le sue esperienze, dimostrarono nel 1864 che l'acido canfinico non si formava e inoltre che la canfora non dava le reazioni delle aldeidi, p. es. non si combinava con il reattivo di Bertagnini: per quegli autori essa apparteneva a una nuova classe di composti ossigenati, che andava differenziandosi in altri campi della chimica organica, cioè alla classe dei cetoni. Weyl (1868) espresse lo stesso parere con queste parole, in cui si ha un primo accenno alla struttura del composto: "la canfora è un acetone in cui il gruppo bivalente CO è legato per due affinità a un idrocarburo che si chiude in sé stesso".
Due anni più tardi V. Meyer spiega le reazioni della canfora considerandola un ossido, e per altri dieci anni i nuovi fatti sperimentali sono interpretati o a favore del carattere d'ossido o di quello di cetone. Manca un reattivo per distinguere nettamente le due funzioni; nel 1883, alla fine, Nägeli lo scopre nell'idrossilammina e in tal modo si dimostra che l'ossigeno della canfora è cetonico.
I primi tentativi per dare alla canfora una formula di costituzione sono del 1870. Già da qualche anno, sotto l'impulso delle idee di Kékulé, i chimici si dedicavano alla ricerca dell'intima struttura delle sostanze organiche e l'esperienza in proposito era stata acquistata nello studio dei composti grassi e aromatici. Per questi lo scheletro carbonico si dimostrava molto stabile di fronte ai reagenti; si poteva, dunque, dalla costituzione dei derivati risalire piuttosto facilmente a quella della sostanza madre. Nei suddetti primi tentativi non si dubitò che per la canfora le cose potessero andare diversamente e senz'altro le venne attribuito lo scheletro del cimene e del carvacrolo, composti aromatici in cui essa si trasformava secondo antiche reazioni. In seguito, uno studio più accurato di queste insegnò che, se in certe condizioni si forma paracimolo, in certe altre non se ne forma affatto e invece appaioni alcuni suoi isomeri, come il metacimolo, l'etilortoxilolo asimmetrico, il tetrametilbenzolo. Naturalmente diveniva dubbia la presenza dello scheletro cimenico nella canfora; per altro canto, a complicare ancora la questione contribuivano l'osservata trasformazione in canfene e la formazione dal canfene e dal pinene, terpeni per i quali si veniva accertando una costituzione differente dalla sua. Per chiarire tutto ciò occorsero circa venti anni di ricerche cui parteciparono numerosi chimici d'ogni nazione: fu raccolto un vasto materiale sperimentale, furono vagliate molte ipotesi, furono discusse una trentina di formule. Come si è detto la prima apparve nel 1870; con essa V. Meyer (I) fa della canfora un ossido della serie grassa in cui appaiono le catene laterali CH3 e C3H7 del paracimene, che si formerà per azione dei disidratanti. Non ebbe seguito. Dello stesso anno è una formula di Hlasiwetz in cui si sostiene ancora la natura d'ossido della canfora, ammettendo che l'ossigeno si trovi in una catena laterale d'un nucleo esametilenico già formato.
Nel 1872 apparvero due formule bicicliche, di Kachler e Wreden, che dovrebbero spiegare certe trasformazioni dell'acido canforico; ma non ebbero seguito; molta fortuna ebbe invece la formula pubblicata nel 1873 da A. Kékulé (II). Questi, riferendosi a un'antica trasformazione della canfora in carvacrolo, ottenuta da Claus nel 1842, dimostra la struttura del detto fenolo e ammette semplicemente che nella canfora si sia già formato lo scheletro di questo e inoltre si abbia un atomo d'ossigeno cetonico al posto di quello fenolico; rappresenta la mancanza di due atomi d'idrogeno, rispetto alle valenze carboniche disponibili, con un doppio legame cui assegna un posto solamente in via provvisoria. La formula tenne il campo per una diecina d'anni e fu con qualche ritocco adottata da molti studiosi, come Blanchard (1875), Bruylant (1878), Haller (1879), Ballo (1879), Schiff (1880). È da notare che il doppio legame vi era stato introdotto mentre ancora regnava dell'incertezza sullo stato di saturazione della canfora; la notazione, più che altro, conciliava l'idea d'una struttura monociclica con la formula grezza data dalla combustione. L'idea d'una struttura biciclica pertanto era sempre sostenibile e, difatti, fu riaffacciata da Armstrong nel 1878 ed espressa con la formula (III) da Armstrong e Miller nel 1883, che intendevano spiegare una loro trasformazione della canfora in idrocarburi aromatici isomeri del paracimolo.
Nello stesso anno, poi, Kanonnikov faceva noto che la rifrazione molecolare della canfora corrispondeva a quella d'un composto saturo C10H16O e suggeriva quindi di trasformare le formule monocicliche in bicicliche, sostituendo il doppio legame con un legame para (IV). J. Bredt nel 1885, modificando in tal modo la formula di Kékulé, ne deduceva per l'acido canforico una struttura che gli parve spiegare i risultati delle sue ricerche sull'acido canforonico prodotto di degradazione del primo (V); ma fu obiettato che la suddetta costituzione riavvicinava l'acido canforico all'acido succinico, mentre invece A. Baeyer (1893) rilevava nell'anidride canforica proprietà simili a quelle dell'anidride glutarica. Continuando le ricerche sull'acido canforico, Bredt giunse a identificarvi un acido α•α•β trimetiltricarboallilico; ammise allora che la disposizione degli atomi di carbonio di questo si conservasse nell'acido canforico, che così avrebbe assunto la fisionomia glutarica, e nella canfora stessa. Per tale via si ebbe la formula che ancor oggi rappresenta nel miglior modo le reazioni di questa sostanza (VI). È chiaro come essa si possa derivare da quella di Kékulé, portando sugli atomi di carbonio secondario e terziario che comprendono il doppio legame, rispettivamente l'atomo d'idrogeno del carbonio mediano dell'isopropile e la valenza carbonica che per tal modo si libera: il detto atomo di carbonio diviene un "ponte" fra quelle posizioni para del nucleo esametilenico che nel 1885 Bredt aveva unite con un legame semplice. Qui si deve ricordare che l'idea di chiudere sul nucleo la catena C3H7 era già stata prospettata da G. Oddo nel 1891, per spiegare le varie trasformazioni della canfora in idrocarburi aromatici.
La nuova formula non fu accolta senza contrasti; l'esperienza aveva insegnato come nel campo di ricerca della canfora si andasse spesso incontro a trasposizioni intramolecolari. Non si poteva quindi ammettere senz'altro con Bredt una relazione semplice fra la canfora e l'acido canforico e tra questo e il canforonico, tanto più che i due ultimi si ottenevano appunto in condizioni favorevoli al prodursi delle temute trasposizioni, e furono discusse altre formule di struttura da Gillet nel 1894, da Tiemann nel 1895, da Wagner nel 1896, da Perkin e Bouveault nel 1897, da Cazeneuve nel 1897, ecc. Ma a rimuovere l'obiezione che l'acido canforico potesse non conservare la struttura generale della sostanza madre venne la sintesi di questa, conseguita da Haller nel 1896, partendo appunto dall'acido stesso; mentre d'altro canto un solido appoggio per la sua costituzione veniva portato da L. Balbiano (1892-97) il quale, in condizioni che escludevano trasposizioni, lo trasformava con resa quasi quantitativa in un derivato semplice dell'acido α. β. β trimetilglutarico, rimasto nella storia della canfora con il nome di "acido di Balbiano". Due anni innanzi Perkin iun. e Thorpe avevano fatta la sintesi dell'acido canforonico. Infine per opera di Komppa (1903) venne la sintesi dell'acido canforico, che insieme con la suddetta di Haller completava quella della canfora stessa.
L'insieme dei fatti esposti definisce quindi questa sostanza come un trimetil- (1, 7, 7) biciclo- (1, 2, 2) eptanon-2, secondo la sistematica dei composti biciclici proposta da A. v. Baeyer nel 1900; o anche come p-mesotilen- (1, 2, 3) trimetilcicloesanon-3, secondo quella proposta da J. Bredt nel 1918. Più semplicemente, può farsi della canfora un derivato dell'idrocarburo detto canfano e quindi un canfanon-2.
Le numerose trasposizioni intramolecolari osservate nello studio della canfora, mentre lo rendevano irto di difficoltà, valsero anche a stabilire le relazioni con altri componenti degli olî essenziali, come il pinene e il canfene e a indicare la via per la sua sintesi industriale.
Proprietà fisiche della canfora. - La prima ad attirare l'attenzione degli studiosi fu quella di ruotare rapidamente sull'acqua: nel 1748 Romien l'attribuiva a un eccitamento elettrico, ma Volta non accettò quest'ipotesi. In seguito se ne occuparono anche Biot, Dutrochet, Casamajor, Hart e Tomlinson e infine Mensbrugghe, che ne diede la spiegazione con misure di tensione superficiale.
La canfora ordinaria è otticamente attiva, sia allo stato di vapore, sia in soluzione: la scoperta di questa proprietà rientra nei celebri lavori di Biot sulla polarizzazione rotatoria. La canfora ordinaria è destrogira; nell'olio etereo di Matricaria parthenium, L. Chautard (1848) segnalava la forma sinistrogira, mentre la forma racemica era identificata da varî altri autori negli olî eterei di rosmarino, maggiorana, lavanda, ecc. Racemica o inattiva risulta, poi, la canfora sintetica. Il potere rotatorio delle soluzioni alcooliche è secondo Haller (1887) + 41°,44 e − 42°,76. La formula di costituzione dà ragione dell'attività ottica con la sua asimmetria ed è facile rilevare essere quest'ultima dovuta alla presenza dell'ossigeno: difatti, passando, per riduzione, al canfano di struttura simmetrica, l'attività ottica sparisce (O. Achan, 1903). I derivati della canfora, oltre che nelle forme d'isomeri ottici, appaiono spesso in forme d'isomeri geometrici, concordemente con la sua struttura ciclica.
La canfora ordinariamente cristallizza in prismi esagonali terminati con piramidi; in particolari condizioni può dare varie altre forme (Wallerant, 1914).
Il punto di fusione corretto è 178°,4 secondo Haller e 178°,5-179° secondo Kempf; il punto di congelamento corretto 178°,7 (Forster); il punto d'ebollizione corretto 20°,1 a 759 mm. (Förster). Il punto di congelamento della canfora si abbassa assai notevolmente, per aggiunta di sostanze in essa solubili: la costante crioscopica è altissima, 400; per tal ragione e perchè la canfora è buon solvente per molte sostanze organiche, R. Rast (1922) ne propose l'impiego per una rapida microdeterminazione di pesi molecolari.
La canfora è poco solubile in acqua, circa l'1%; è invece molto solubile nei comuni solventi organici e anche in composti inorganici, come l'acido cloridrico concentrato, l'anidride solforosa liquida, alcuni cloruri dei metalloidi, ecc.
La canfora si usa principalmente in medicina e nella fabbricazione del celluloide; del primo impiego si ha notizia sicura sin dal sec. XI; il secondo data dal 1869, anno in cui i fratelli Hyatt cominciarono a utilizzare la sua proprietà di plastificante. L'industria del celluloide e affini, che ne derivò, assorbe la maggior parte della canfora artificiale, mentre la farmacia, per i preparati d'uso interno, si vale della canfora del Giappone.
La produzione della canfora naturale è controllata dal Giappone. Si calcola che il 77% degli alberi di canfora si trovino a Taiwan (Formosa), il 15% in Giappone e l'8% nella Cina meridionale.
Nel 1899 il governo giapponese istituì a Taiwan il monopolio dell'industria. Nel 1903 lo estese anche al territorio metropolitano. Da allora il monopolio governa la produzione e i prezzi, anche perché è riuscito a controllare la produzione della Cina acquistando la proprietà di molte piantagioni. Nell'aprile del 1919 la gestione dell'industria in Formosa fu affidata ad un'unica società concessionaria, la Taiwan Camphor Producing Ltd., e il commercio alla Japon Camphor Co. Ltd. di Kobe.
Il monopolio, in lotta con l'industria della canfora artificiale, ha avuto alterne vicende. Riuscì a portare le vendite a 60.000 quintali durante la guerra, per scendere a 16.800 nel 1921 in conseguenza di una crisi di saturazione del mercato. Con un'accorta politica di restrizioni, le vendite sono risalite verso i 45.000 q. nel 1927-28, quantitativo costituito per il 70% da canfora di Formosa. Il monopolio teme però sempre la concorrenza e manovra i prezzi in maniera da conservare il mercato. Nel maggio 1926 ridusse i prezzi fortemente, riducendo da parte sua del 25% i versamenti alla Taiwan Co. e, nel febbraio 1930, concesse ulteriori ribassi.
Canfora artificiale. - Con questo nome si chiamava un tempo il prodotto solido, cristallino, di odore canforeo, che si ottiene trattando l'olio essenziale di trementina con acido cloridrico.
Questa camphora artificialis fu preparata per la prima volta dal farmacista Kind nel 1803, che credette effettivamente di avere preparato della vera canfora. Col progredire degli studî sulla costituzione dei composti terpenici fu possibile realizzare una vera sintesi della canfora, cioè un composto perfettamente identico alla canfora naturale nella sua costituzione molecolare come nelle proprietà, e che da allora si produsse in grande quantità.
La materia prima per la produzione della canfora artificiale è il pinene, un idrocarburo terpenico che costituisce la parte preponderante dell'olio essenziale di trementina (fino a 90% e oltre nelle buone essenze di recente distillazione).
Il pinene, separato dagli altri costituenti dell'essenza di trementina per mezzo della distillazione frazionata, viene trattato prima con acido cloridrico gassoso secco procurando di mantenere la temperatura di reazione entro certi limiti. Il prodotto che si ottiene, per la massima parte solido cristallino e in parte liquido, è costituito da cloridrato di bornile detto anche, impropriamente, cloridrato di pinene. In effetto la costituzione molecolare caratteristica del pinene, sotto l'azione dell'acido cloridrico si è trasformata in quella del bornilene cioè in quella dei composti canforici.
Questo cloridrato di bornile che costituiva, come abbiamo visto, la pretesa camphora artificialis del Kind, viene sottoposto a una nuova trasformazione trattandolo ad elevata temperatura e pressione in robuste autoclavi d'acciaio, con liscivie alcaline concentrate in presenza di altri reagenti, variabili questi secondo i varî procedimenti realizzati praticamente, che favoriscano la reazione.
Da questo trattamento si ottiene un misto dal quale si separa dapprima e si ricupera per impiegarlo di nuovo, lo speciale reagente impiegato (sterina, fenolo, anilina, naftol, ecc.), e poi, distillando in corrente di vapore, si ottiene il nuovo prodotto che è pure un idrocarburo della serie terpenica, solido a temperatura ordinaria, non ossigenato, ma vicinissimo nella sua costituzione molecolare alla canfora, chiamato appunto canfene.
Dal canfene si può ora ottenere la canfora per vie diverse, ma in definitiva si tratta sempre di trasformare questo idrocarburo in uno degli alcoli terziarî a cui può dar luogo, cioè borneolo o isoborneolo, poiché per ossidazione di questi si ha senz'altro la canfora.
Questa trasformazione del canfene in canfora può farsi in una sola volta, cioè ossidando direttamente il canfene con una soluzione di acido cromico, oppure in varie fasi. In quest'ultimo caso si prepara dapprima un estere trattando il canfene con acido acetico o solforico; questo estere, detto acetato di isobornile, viene poi saponificato con soluzioni alcaline per ottenere l'alcool corrispondente isoborneolo e da questo infine, per ossidazione con acido cromico o altri agenti ossidanti, si ottiene la canfora.
La canfora greggia, comunque ottenuta, viene raffinata sia sublimandola sotto vuoto in apparecchi speciali (apparecchi tipo Frederking), sia cristallizzandola da appositi solventi (alcool, benzolo, benzina di petrolio, ecc.).
La canfora artificiale sublimata viene posta in commercio in tavole quadrangolari o frantumata minutamente; quella purificata per cristallizzazione si presenta in minuti cristalli. Per usi comuni e domestici viene formata in tavolette o pastiglie di varia forma e dimensioni comprimendola con macchine apposite.
L'industria assorbe quasi la totalità della produzione di canfora artificiale poiché, specialmente nella fabbricazione del celluloide, si comporta esattamente come quella naturale. Infatti, come si è detto, la costituzione e composizione chimica, la solubilità, il punto di fusione, ecc. sono perfettamente gli stessi; quello che distingue la canfora naturale è il potere rotatorio destrogiro che manca completamente nella canfora artificiale. Del resto anche nell'uso domestico e nelle preparazioni farmaceutiche la canfora artificiale raffinata può sostituire quella naturale.
L'industria della canfora artificiale fu iniziata in Germania e in Francia verso il 1909, ma, più per ragioni commerciali in seguito ad abili manovre del monopolio giapponese, che non per ragioni industriali, ebbe breve vita. Ripresa poi, specialmente in Germania, si diffuse in altri paesi con l'aumento del consumo del celluloide e in relazione alle condizioni del mercato della canfora naturale. In Italia, a Spinetta Marengo, se ne producono dal 1925 ingenti quantità destinate per la massima parte all'esportazione.
Farmacologia. - Notissime da molto tempo sono le proprietà antisettiche e parassiticide della canfora. Applicata localmente sulla cute, in soluzione alcoolica, produce rossore e irritazione e può essere assorbita, sebbene in piccolissima quantità. Questa azione irritante locale dello spirito canforato è utilizzata per produrre rubefazione della pelle, specialmente nella cura di processi infiammatorî, nelle nevralgie, dolori muscolari, ecc. Introdotta per via orale, produce sensazione di calore; dallo stomaco non viene quasi assorbita e il suo assorbimento s'inizia, in modo lento, nel tubo intestinale e può essere agevolato dalla presenza di sostanze grasse nelle quali la canfora è solubile. In soluzione negli olî grassi e introdotta nel sottocutaneo, la canfora viene assorbita abbastanza rapidamente e determina nell'organismo azioni che sono di grande importanza per la terapia che adopera la canfora su larga scala. Essa eccita il sistema nervoso centrale e l'apparato cardio-vascolare in particolar modo. Per dosi elevate, ai fenomeni di eccitazione segue paralisi, e nel cane sono caratteristici gli accessi epilettiformi. Nell'uomo l'avvelenamento per canfora è rarissimo e in ogni modo i sintomi sono di breve durata; nelle intossicazioni gravi si manifestano nausea, vomito, vertigini, disturbi visivi, movimenti impulsivi, delirio, perdita della coscienza. La convalescenza dura molti giorni e talora varie settimane e soprattutto persistono i disturbi gastrici. Dal punto di vista delle applicazioni terapeutiche, molto importante è la sua azione sul cuore e sulla circolazione per cui è considerata uno dei migliori rimedî cardiaci. Tuttavia le numerose esperienze farmacologiche fatte con la canfora sul cuore di rana (Heubner e Vehm 1870, Plant 1914), sul cuore di mammifero (Winterberg 1903, Klemperer 1907, Heard 1915, ecc.), nonché su animali di specie diverse, hanno dimostrato che l'azione di questa sostanza è molto complessa così che i varî investigatori sono giunti a risultati diversi e discordanti. Comunque, si ritiene che alle dosi comuni di grammi 0,10-0,20 la canfora agisca negli animali superiori eccitando il nodo del seno, o di Keith-Flack, origine degli stimoli per l'attività e il ritmo normale del cuore, regolarizzandone in tal modo la funzione. Il Gottlieb sotto l'azione della canfora avrebbe veduto il cuore divenire più resistente alla fibrillazione. L'azione benefica della canfora si manifesta soprattutto nei cuori deboli, intossicati da alcuni veleni, quali il cloroformio e il cloralio idrato. Generalmente essa non produce mai acceleramento delle pulsazioni in un cuore normale; esse talvolta possono divenire al contrario più rare, ma più complete e energiche. Dilatando i vasi polmonari la canfora abbassa notevolmente la pressione del ventricolo destro, diminuendo la resistenza alla circolazione polmonare.
Anche la grande circolazione subisce modificazioni del genere e la pressione arteriosa viene, dopo un rapido innalzamento, diminuita, per cui la canfora si deve considerare, almeno clinicamente, come un vaso dilatatore e un ipotensore tanto del grande quanto del piccolo circolo. La canfora abbassa poco o nulla la temperatura normale, ma distintamente quella febbrile.
La canfora viene eliminata in piccola parte per i polmoni e in massima parte per le urine sotto forma di combinazione con l'acido glicuronico (Schmiedeberg e Meyer 1879) perdendo in tal modo ogni sua attività farmacodinamica. Quando la sintesi glicuronica fa difetto per lesioni gravi del fegato, la canfora è controindicata. L'applicazione terapeutica più importante della canfora è quella che si fa nel collasso, che si manifesta nel decorso di malattie o di avvelenamenti. In queste occasioni, mediante iniezioni ipodermiche di olio canforato contenente gr. 0,10-0,20 di canfora si rialza in modo passeggero la pressione arteriosa per contemporanea eccitazione del cuore e del centro vasomotore e viene stimolato anche il centro respiratorio. Può essere utile nella tubercolosi polmonare in quanto diminuisce le resistenze nella circolazione polmonare, la secrezione bronchiale e anche quella del sudore, determinando negl'infermi un senso generale di benessere.
La canfora si dà in dosi di grammi 0,10 per volta e 0,60 nelle 24 ore; il bromuro di canfora in dosi di gr. 0,50 e 1,50 nelle 24 ore.
In passato era usata come anafrodisiaco. È noto il verso della scuola salernitana: Camphora per nares castrat odore mares.