CANAL, Girolamo, detto Canaletto
Secondogenito di Bernardino di Piero, patrizio veneziano, e di Ifigenia Arlatti, figlia d'un Giovanni scrivano del magistrato al Sale, nacque nel 1483. La mediocre fortuna, la tradizione familiare, l'indole audace ed energica lo destinavano alla carriera marinara. Cominciò a distinguersi nell'agosto del 1502, durante la guerra contro i Turchi, quando assunse il comando d'una galea su cui era imbarcato come ufficiale, dopo che il sopracomito Gabriele Soranzo era caduto nella conquista di Santa Maura.
Per un anno e mezzo la galea del C. incrociò infaticabilmente tra Zante, Candia e Corfù, dove il 27 genn. 1503 catturò una fusta turca, e ancora nelle acque dell'arcipelago, partecipando a vittoriosi scontri col nemico. Il 6 ott. 1501, finita, la guerra, il provveditore dell'armata Girolamo Contarini preannunciava finalmente il ritorno del giovane sopracomito per il disarmo, lodandolo assai. Il brillante comportamento non gli valse però ad evitare una sentenza che lo condannava a restituire alcune prede ("fo crudel parte" notava il Sanuto).
Nel marzo 1505 il C. fu eletto per la prima volta sopracomito, e con tale grado nel marzo 1507 era imbarcato nella flotta comandata da Angelo Trevisan. La guerra della lega di Cambrai lo colse al comando d'una galea in forza ad una squadra di quattro unità, posta a difesa di Trani (aprile 1509), che incrociò nelle acque pugliesi durante l'estate, catturando imbarcazioni di piccolo tonnellaggio. In novembre era nell'armata veneta che, sempre al comando del Trevisan, risalì il Po e venne disfatta il 21 dicembre a Polesella dai Ferraresi. Il valore personale del C. fu uno dei pochi episodi onorevoli tra tante dimostrazioni d'incapacità, d'indisciplina e di viltà che contrassegnarono la rotta dei Veneti. Negli anni seguenti il C. fu impegnato nella difesa della Terraferma, in cui Venezia giocava la propria sopravvivenza. Il 3 maggio 1510 venne scelto assieme ad altri tre nobili per comandare una schiera di 200 marinai e volontari veneziani che la notte stessa partirono per portare soccorso a Legnago, assediata dai Francesi. La cittadella cadde il 4 giugno, e il C. vi fu fatto prigioniero.
Trattenuto prima a Correggio, il C. fu poi tradotto ad Arco, dove incontrò il cardinale Adriano Castelli, che aveva conosciuto il padre negli anni in cui Bernardino Canal era stato "castellano" di Trani. Il ricordo dell'antica amicizia agevolò le trattative per uno scambio di prigionieri, grazie al quale il C. ritornò libero a Venezia il 30 apr. 1512. I rapporti stretti durante la prigionia erano divenuti intanto così cordiali, che il cardinale volle che il C. lo seguisse a Roma nel febbraio 1513, in occasione del conclave per eleggere il successore di Giulio II.
Tornato in marzo da Roma, il C. fu eletto il 17 maggio capitano delle galee del viaggio di Alessandria. Il convoglio non poté però partire per quell'anno. Incombeva nuovamente su Venezia la minaccia dell'esercito imperiale, giunto sino alle sponde della laguna. Così il 9 luglio il C. fu mandato a difendere Treviso alla testa degli equipaggi già arruolati. Alla difesa di Treviso restò sino all'ottobre, poi accorse a Padova con dodici uomini a sue spese.
Finalmente nella primavera del 1514 il C. tornò a calcare il ponte di una nave, essendo stato nominato in gennaio dal Consiglio dei dieci sopracomito di una galea bastarda, con la quale nell'ottobre 1514 ebbe un ruolo di primo piano nella repressione della rivolta antinobiliare di Lesina.
Disarmata la galea nel novembre, il C., che restava pur sempre titolare del comando delle galee del viaggio di Alessandria, assegnatogli nel maggio 1513, rimase ancora un altro anno inattivo, benché nell'ottobre il Senato per costringerlo a partire votasse una severa risoluzione che lo condannava in caso d'inadempienza alla relegazione in galea, all'ammenda di 200 ducati e alla privazione degli uffici per dieci anni; il decreto fu rinnovato il 30 maggio 1516, perché, come spiegava il Sanuto, "non è ordine si possi far expedir dite galie al suo viazo; voriano indusiar perché, con effetto, non si manda robe, ni merze al viazo; li patroni voleano indusiar". Il C. salpò finalmente nell'agosto, per fermarsi altri due mesi in Istria, donde poi finalmente si mise in viaggio a metà ottobre.
Lungo e avventuroso viaggio, com'era di regola in quei tempi (il 20 novembre giungeva a Candia, a fine dicembre a Cipro, ripartiva da Alessandria il 13 sett. 1517 dopo essere stato trattenuto a lungo dalle autorità turche, rientrava in porto a Venezia il 19 dic. 1517) tra le insidie del mare e l'infido comportamento dei Turchi, e pur condotto felicemente a termine, nonostante il naufragio d'una galea di conserva avvenuto nel viaggio d'andata nelle acque di Cipro.
È proprio questo incidente a rivelarci il preminente interesse che il C. rivolgeva fin d'allora ai problemi della marineria veneta, assai più che alle questioni politiche e mercantili, sulle quali i dispacci di lui, riportati dal Sanuto, si mostrano in genere assai parchi. Il naufragio della galea, "più presto manchà per fiacheza di navilio che per la massa [ = troppa] fortuna, et etiam dirò questo, non gran valitudine di capi", e le cattive condizioni della sua stessa trireme lo inducevano ad inviare al doge una relazione, in cui tutta l'impostazione tecnica delle costruzioni navali venete era posta in discussione: "perché... questi navilii son molto longi, et quando non son refortificati dentro de legname non poleno tegnir le stope per esser vechie, et se pono dir, piuttosto un fasso di legname che galie..." (Sanuto, XXIV, coll. 27-31, dove anche si riferisce del vivace dibattito seguito in Senato). Forte di questa esperienza, eletto patron all'Arsenal (29 ag. 1518), il C. sostenne che le galee "di mercato", destinate ai viaggi commerciali, dovevano essere costruite con una nuova tecnica. La proposta fu discussa nel Collegio (25 marzo 1520), ma cadde perché trovò l'ostilità dei "proti", cioè degli ingegneri dell'Arsenale, tutti, meno uno, ligi alla consuetudine.
Fedele alla sua vocazione che lo legava alla tradizione marinara e coloniale della Serenissima, al suo "Stato da Mar", il C., dopo essersi affaticato con zelo per due anni nell'ufficio di patron all'Arsenal, rifiutò la carica di provveditore ad Asola (ottobre 1521), ma accettò quella di provveditore generale in Dalmazia (21 marzo 1523), che esercitò per un anno (maggio 1523-giugno 1524) con la consueta energia. Il 20 nov. 1524 il Senato lo elesse capitano in Golfo, vale a dire comandante della squadra veneta dell'Adriatico. Partito nel marzo seguente, presidiò per tre anni il mare, tallonando le fuste turchesche, per prevenire molestie ai legni e alle città della Repubblica, e scontrandosi più volte con i corsari barbareschi e anche cristiani (cattura il 30 ag. 1526 una fusta dell'Ordine di S. Giovanni comandata da un fra' Benedetto d'Aragona), cercando di dirottare verso Venezia tutte le navi cariche di frumento, prezioso particolarmente in quel tragico 1527 di carestia e di pestilenza.
Il C. rientrava a Venezia per disarmare a metà gennaio del 1528, e dopo pochi mesi di sosta, eccolo nuovamente in azione, spedito il 23 maggio in Dalmazia con il compito di arruolare 500 cavalleggeri croati, di cui Venezia aveva urgente bisogno per affrontare la ripresa delle ostilità in Lombardia. Il C. assolse rapidamente con successo la sua missione, e già a metà luglio poteva presentare al Lido un "mostra" di questi bellicosi cavalleggeri "vestiti a la turchesca" e armati di lancia e scure, di cui fu nominato comandante col titolo di provveditore dei cavalli croati. Il 1º agosto il C. era già al campo, presso Brescia, e poi all'assedio di Pavia, presa d'assalto il 20 settembre.
In una sua lettera, riportata dal Sanuto, il C. racconta come egli avesse guidato all'attacco i suoi cavalleggeri, ma, benché scrivesse sotto l'impressione della vittoria, era abbastanza realista da consigliare al fratello di agire per una rapida conclusione della pace, colpito forse dalla tenace resistenza degli Imperiali e più ancora dalle difficoltà del campo veneziano, sempre sull'orlo della crisi per turbolenza delle truppe mercenarie, irritate dal ritardo con cui percepivano il magro soldo. Infatti i cavalleggeri condotti dal C. di lì a poco disertarono in gran parte, e il Senato richiamò a Venezia il provveditore (23 ott. 1528).
L'anno seguente il C. tornava al mare, definitivamente, per un'esperienza che doveva risvegliare i suoi interessi per i problemi tecnici della marina veneta. Il 24 giugno 1529, infatti, il Senato, riconoscendo in lui uno dei suoi uomini di mare più sperimentati, lo eleggeva "governatore" della quinquereme costruita allora secondo il progetto dell'umanista greco Vettore Fausto, uno dei più reputati ingegneri dell'Arsenale.
La nuova unità lasciò Venezia nell'agosto 1529, con l'armata del capitano generale Girolamo da Ca' da Pesaro, e già pochi mesi dopo il C. poteva inviare una relazione, entusiasta delle capacità manovriere e della potenza della quinquereme, che aveva potuto sperimentare benché fosse equipaggiata con ciurme insufficienti e poco esperte: "io non cognosco legni che più facile sia a fermar una armata de galie sotil che la quinquereme", proclamava il C., e consigliava il Senato di costruirne una decina, pur precisando avvedutamente che "i navili de questa sorte non sono da tenir fuora salvo che in tempo de gran fatione", né erano da tenere di continuo sotto armo, "sì per la reputation come etiam per la spesa" (Sanuto, LII, coll. 594 s.).
Certo sensibile soprattutto a quest'ultimo argomento, il Senato disponeva il 16 luglio 1530 il disarmo della quinquereme, ordinando al C. di montare su altra galea per assumere le funzioni di provveditore dell'armata. Fino all'11 dic. 1531, giorno in cui rientrò a Venezia per disarmare, il C. incrociò infaticabilmente nelle acque del Levante e dell'Adriatico, in servizio di scorta ai convogli mercantili e a caccia di navi corsare, protagonista di numerosi scontri armati.
Dopo la forzata inazione invernale, il C. accettò con entusiasmo la nomina a provveditore dell'armata (2 apr. 1532) e senza por tempo in mezzo pochi giorni dopo mise banco per arruolare gli equipaggi.
La crisi cronica in cui si dibatteva la marineria veneziana per il reclutamento delle ciurme si manifestò in quell'occasione con particolare gravità, mettendo in pericolo l'armamento della squadra. Il C. non era però uomo da arrendersi a queste difficoltà. Il 18 maggio si presentò in Collegio offrendosi di andare personalmente ad arruolare uomini nelle isole e nelle città marinare suddite. Per due mesi l'infaticabile provveditore percorse tutta l'Istria e la Dalmazia e si spinse fino a Corfù, riuscendo a reclutare più di 420 uomini, in luogo dei 250 che s'era impegnato a trovare.
In agosto finalmente il provveditore era con l'armata, al comando d'una squadra di tredici galee, sotto gli ordini del capitano generale da mar Vincenzo Capello, nel consueto servizio di protezione alle navi venete contro i corsari che infestavano l'Adriatico e l'arcipelago.
Assai più grave e delicata si presentò l'anno successivo la situazione per il C. - sulle cui spalle ricadeva ora tutta la responsabilità del comando dopo il ritorno del Capello a Venezia (febbraio 1533) - in seguito alle imprese del Doria nell'Egeo e alla conseguente reazione dell'armata turca.
Gli ordini del governo veneto, preoccupato di conservare ad ogni costo la pace del 1503, erano perentori. La flotta veneziana non doveva lasciarsi coinvolgere nel conflitto ed era tenuta ad osservare un atteggiamento amichevole nei confronti dei Turchi, fino al punto che il C. per ordine del Consiglio dei dieci informava il comandante dell'armata turca dell'imminente arrivo della flotta imperiale. Ma non era facile in pratica conciliare questa linea di condotta con l'impegno di difendere le navi venete dalla tracotanza degli irrequieti corsari barbareschi, venuti ad ingrossare l'armata del sultano senza tuttavia rinunciare ai loro consueti metodi pirateschi. Frequenti erano gli incidenti, talvolta composti amichevolmente tra il C. e l'ammiraglio turco, altre volte risoltisi col danno e la beffa per i Veneziani, come quando, nel giugno, le fuste barbaresche catturarono il capitano in Golfo che con una galea bastarda portava alla squadra veneta una grossa somma di denaro destinata alle paghe degli equipaggi. L'episodio destò una certa emozione a Venezia, e il doge in persona si lasciò andare ad una violenta sfuriata contro il C., accusandolo d'imprevidenza e di scarsa energia nella successiva caccia ai corsari, invano inseguiti fino a capo Passero, ma che, a suo parere, il provveditore avrebbe dovuto incalzare "fino in Barberia e non lassar tanto danno e vergogna a questo Stado".
Al C., uomo d'azione energico e risoluto che già per suo conto doveva mordere il freno, tornarono forse in mente le dure parole del doge e di altri autorevoli senatori, certo riferitegli dai parenti, quando pochi mesi dopo, la notte del 1º nov. 1533, mentre scortava alcune galee mercantili destinate al viaggio di Alessandria, nelle acque di Candia, s'imbatté in una squadra di dodici galee che sembravano venirgli addosso con intenzioni ostili. Benché inferiore di forze, il C. investì senza esitazione con grande violenza la flottiglia turca, temendo che fosse armata da corsari, come riferiva il nunzio pontificio a Venezia, "o che così lui fingesse di credere". La vittoria fu rapida e schiacciante, con gravi danni in uomini e navi da parte turca, e non mancò di suscitare entusiasmi in un'opinione pubblica attanagliata da un profondo senso di frustrazione. Il poeta Giovanni Francesco Pelliccioli dedicò all'impresa niente meno che un poema in tre canti.
Ma chi aveva responsabilità di governo, e soprattutto i mercanti che vedevano esposti alle rappresaglie i loro rilevanti interessi nelle terre dell'Impero ottomano, se ne preoccupò e se ne dolse acerbamente, specie quando si sparse la notizia, poi risultata infondata, che i Turchi avevano sequestrato tutte le navi venete andate a caricare il prezioso frumento che doveva salvare Venezia dalla carestia. Alcuni dei principali senatori, e pare lo stesso doge, avrebbero voluto revocare il comando al C. e tradurlo addirittura in ferri a Venezia. Ma poi prevalse la più saggia considerazione che un provvedimento tanto rigoroso avrebbe smentito implicitamente la tesi ufficiale d'un incidente involontario. Del resto ci si rese presto conto che i Turchi, già in difficoltà con l'armata del Doria, non avevano alcuna intenzione di procurarsi nuovi nemici e tendevano perciò a sdrammatizzare l'accaduto. Il segretario Daniele Ludovici, spedito d'urgenza a Costantinopoli, poté considerare con soddisfazione che i Turchi facevano buon viso a cattivo giuoco, preferendo credere che il provveditore veneto avesse fatto cessare il combattimento non perché la squadra turca era ormai annientata, ma perché tardivamente accortosi che si trattava di turchi e non di pirati, e che perciò aveva poi trattato con umanità e cortesia le tre galee superstiti e il loro comandante.
Il C. era ancora alla testa della flotta veneta quando morì a Zante nel 1535.
Per onorarne la memoria la Repubblica assegnò ai discendenti un feudo nell'isola di Corfù.
A raccoglierne l'eredità spirituale sarà il più celebre nipote, Cristoforo da Canal, uomo di mare e autore della Milizia marittima, che alla severa scuola del C. aveva compiuto il suo apprendistato tecnico e morale.
Il C. lasciò due figli, Antonio e Pellegrino, avuti da Cornelia Lion di Tommaso, che aveva sposata nel 1513. Un monumento in suo onore fu fatto erigere dal figlio Antonio nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori de patritii veneti, II, p. 215;Ibid., Avogaria di Comun, reg. 106, c. 84v;G. F. Pelliccioli, Impresa del magnifico Hieronimo C. Provveditor dell'Armata veneta, Venezia 1539;M. Sanuto, Diarii, IV-VI, VIII-XXX, XXXII-XXXIV, XXXVI-LVIII, Venezia 1880-1903, ad Indices; I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, VI, Venezia 1903, pp. 94, 218; Nunziat. di Venezia, I, a cura di F. Gaeta, Roma 1958, in Fonti per la storia d'Italia, XXXII, pp. 72, 151, 158 s., 170, 173, 185;P. Paruta, Historia venetiana, Venezia 1605, pp. 438, 540-544;G. Degli Agostini, Notizie istorico critiche intorno la vita e le opere degli scrittori viniziani, II, Venezia 1754, p. 466; S.Romanin, Storia documentata di Venezia, VI, Venezia 1914, pp. 8-10;A. Tenenti, Cristoforo da Canal. La marine vénitienne avant Lèpante, Paris 1962, pp. 3, 5, 26, 37, 46, 54, 58, 69, 125;A. Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500, Bari 1964, p. 238;F. C. Lane, Navires et constructeurs à Venise pendant la Renaissance, Paris 1965, pp. 61 ss.