CAMPONESCHI, Pietro Lalle, conte di Montorio
Figlio di Loysio (II), conte di Montorio, è ricordato dal cronista De Ritiis nel decennio 1440-1450 come un giovane uso a partecipare ai tornei nella piazza di S. Francesco all'Aquila. Il cronista cinquecentesco Cirillo gli attribuisce l'assassinio di un nemico, compiuto nel giorno di Pasqua del 1444 nella chiesa di S. Domenico Marchione all'Aquila, quale vendetta per l'uccisione di Giorgio, figlio di Pirro Camponeschi. Intorno al 1453 il re Alfonso assegnò a lui e ad Odoardo Camponeschi la gabella del pedaggio dell'Aquila e il 23 nov. 1457 lo investì della contea di Montorio con i villaggi da questa dominati.
Sembra che il C. prendesse parte alla rivolta aquilana contro il nuovo re Ferrante; ma l'11 ott. 1458 accettò di essere rappresentato dal procuratore del Comune aquilano nelle trattative con Ferrante. Con l'accordo del 7ottobre il re promise di prendere in considerazione la richiesta del C. di ottenere l'investitura di Civitaquana, che era stata tenuta da Antonuccio Camponeschi. Si impegnò poi a concedergli a vita, entro un anno, Civitaquana, le terre dell'abbazia di Casanova e Alanno. Il C. ottenne anche i castelli di Nocciano, Catigliano e Pietranico e il territorio di Ginestra.
Il 6 genn. 1460 il C. si ribellò di nuovo a Ferrante e proclamò re Renato d'Angiò, dal quale fu fatto viceré dei due Abruzzi. Il 22 ag. 1461 fu tra i principali firmatari della tregua conclusa dall'Aquila con Federico da Montefeltro, il legato pontificio Niccolò Forteguerri e re Ferrante. Ma continuava ad essere riluttante ad abbandonare il partito angioino. Il 24 febbr. 1462 l'oratore del principe di Taranto gli forniva notizie sulla corte francese, e il 30 maggio 1463 il C. scriveva ancora a Martino Marzano per assicurargli la fedeltà propria e del Comune al partito angioino. Ma ormai la ribellione angioina era finita e il C. si sottomise a Ferrante, con la città dell'Aquila, nell'agosto del 1463. Fu anche parte all'accordo stipulato tra il re e il Comune il 9 maggio 1464. È anche possibile che il C. partecipasse alla denuncia di Giacomo Piccinino, rivelando al capitano regio dell'Aquila che il condottiero lo aveva incitato alla rivolta.
Il C. era all'Aquila il 2 luglio 1466 e vi accolse il duca di Calabria il 15 maggio dell'anno successivo. Il 20 luglio 1473 Ferrante scrisse al C. in merito alla questione di Cittareale che gli Aquilani avevano occupato nel 1471; il re dispose che la città restasse in mano agli Aquilani, ad eccezione della rocca che doveva essere tenuta dalle truppe regie. Il 2 luglio 1476 giunse all'Aquila l'ufficiale regio Antonio Ciccinello, per una missione che costituiva minaccia per la fazione dei Camponeschi: doveva, infatti, sottoporre a giudizio per i suoi crimini il nipote del C., Giovan Battista Camponeschi. Appena entrato in città, il Ciccinello vietò a tutti - anche ai partigiani del C. - di portare armi in città; quindi riunì i principali membri della famiglia nel vecchio palazzo del Camponeschi. Questi si espresse in termini concilianti, ma sua moglie Maria, nobile aragonese e parente del re, fu molto più aggressiva. Il 7 sett. 1476 il C. e la moglie lasciarono la città, ufficialmente per recarsi ad assistere al matrimonio della figlia di Ferrante con Matteo d'Ungheria: secondo il cronista De Ritiis la maggior parte degli Aquilani era sicura che non sarebbero mai tornati. In assenza del C. il Ciccinello dette all'Aquila una nuova costituzione che accrebbe la partecipazione popolare al governo: sembrava che fosse finito il controllo del Comune da parte dei Camponeschi, ma i successivi avvenimenti mostrarono che era stato solo indebolito. Il C. rientrò in città, alla testa dei suoi partigiani, il 27 dic. 1476 e dalla diretta testimonianza del De Ritiis si deduce che il suo ritorno ebbe i connotati di una controrivoluzione che ridette al C. il controllo del Comune. De Ritiis vide i suoi partigiani "urlare come lupi" contro gli oppositori e uccidere i nemici fin quando il C. intervenne a fermarli, timoroso di rappresaglie da parte del governo centrale.
La posizione del C. all'Aquila dopo il 1476 era ambigua. Il suo potere, alleato a quello di suo genero, il conte di Popoli, era grande, ma anche quello del regime comunale si manteneva consistente. Quando nel 1482 le richieste fiscali della corte napoletana divennero inaccettabili, il C. si unì all'opposizione del Comune contro Napoli. Il 18 nov. 1484 partecipò alla protesta inviata dalla Camera cittadina all'oratore aquilano a Napoli perché la trasmettesse al re; e prese parte continuamente ai successivi sviluppi della crisi tra il Comune e il governo centrale. Nel febbraio 1485 fu tra coloro che il figlio del re, Francesco duca di Calabria, invitò a riunirsi con il Consiglio del Comune per discutere sulla questione del pagamento delle tasse e dei modi della loro ripartizione. Il C. si offrì di pagare subito al governo la somma di mille ducati, garantita dalle entrate della gabella dello zafferano. Nel giugno del 1485 il C. negoziò con il duca di Calabria, accanto ai sindaci del Comune, e il duca gli espresse il suo ringraziamento per l'aiuto ricevuto.
La malafede del duca di Calabria si manifestò nello stesso giugno 1485. Il 28 chiamò il C. a rapporto a Chieti; il C. obbedì e lasciò l'Aquila con quattro ambasciatori. Ma appena giunto a Chieti, fu circondato da armati e arrestato per ordine del duca. Diego Vela e Ettore Carafa lo misero in prigione; più tardi fu trasferito sotto scorta a Napoli e imprigionato nella torre di S. Vincenzo in Castel Nuovo. Anche sua moglie Maria fu condotta a Napoli, mentre i suoi consiglieri furono imprigionati e sottoposti a tortura. Con questi decisi provvedimenti il governo napoletano sperava di soffocare la resistenza dell'Aquila. La presenza del C. nelle lunghe e difficili trattative, nel corso della quali gli Aquilani avevano respinto le richieste regie, aveva tratto in inganno il duca di Calabria che fu indotto a considerare l'Aquila come città dominata da un signore e a ritenere, quindi, che la cacciata di questo avrebbe riportato la città sotto il governo diretto del sovrano. La corte napoletana lamentava, non senza motivo, che il C. trattasse la città come un bene di proprietà, piuttosto appartenente al re, che egli avesse interferito nell'amministrazione imparziale della giustizia da parte delle corti cittadine e che avesse ostacolato la riscossione delle imposte regie all'Aquila. Fu anche accusato di aver tramato sia durante il pontificato di Pio II, sia durante quello di Sisto IV per far passare la città al papa.
In seguito all'imprigionamento del C. il governo napoletano inviò di nuovo all'Aquila, col titolo di luogotenente, quell'Antonio Ciccinello che nel 1476 aveva cacciato il C. dalla città e rafforzato il regime comunale della città. Ma il calcolo politico che aveva indotto la corte napoletana a inviare all'Aquila il Ciccinello era sbagliato, poiché la sconfitta dei Camponeschi non implicava l'accettazione del diretto governo regio da parte del Comune. Tanto è vero che il 28 sett. 1485 scoppiò all'Aquila una rivolta che portò all'uccisione del Ciccinello; la città si sottrasse al governo regio.
Agli inizi i ribelli aquilani si comportarono con cautela: è significativo che uno dei loro primi atti fosse quello di scrivere a Ferrante per chiedere la liberazione del Camponeschi. Ma in questo momento di particolare incertezza un'altra fonte di pressione si manifestò in città, nella persona dell'arcidiacono Vespasiano Gaglioffi, il quale persuase il Comune a offrire la città al papa Innocenzo VIII (26-28 ott. 1485). Contemporaneamente Ferrante liberava il C. e sua moglie. Sembra che il C. si fosse accordato col re per riportare la città all'obbedienza regia, in cambio della libertà personale e forse di nuove dignità, quali il titolo di viceré dell'Abruzzo Ulteriore e il ducato di Atri. Il C. ritornò all'Aquila come privato cittadino l'11 nov. 1485, apparentemente fedele al regime comunale e alla sovranità pontificia; in segreto agiva come fiduciario della corte napoletana. Il 22 nov. 1485 un segretario regio comunicava in una lettera che il C. consigliava la cattura, da parte di Virginio Orsini, delle greggi aquilane inviate dai proprietari aquilani a pascolare nello Stato pontificio per l'inverno, come mezzo efficace per indurre la città a rientrare nel Regno. Il consiglio era astuto, poiché l'opposizione al passaggio dell'Aquila alla Chiesa era venuta proprio dai proprietari di bestiame che temevano tali misure di rappresaglia.
Per un breve periodo il C., sebbene continuasse a, tenere segreti contatti con i partigiani regi, cooperò con il regime pontificio all'Aquila. Il 22 apr. 1486 fu parte alla tregua conclusa tra suo genero, il conte di Popoli, da una parte, e il Comune, il commissario pontificio e il conte Ruggerone di Celano dall'altra. Il 5 giugno il C. assunse il comando delle truppe aquilane che, sotto il vessillo della Chiesa, attaccarono Cittaducale. Qui egli rimase fino al 18 giugno. Ma durante l'assedio scoppiò una violenta lite tra le fazioni dei Camponeschi e dei Gaglioffi: questi ultimi il 23 giugno assalirono all'Aquila le case dei primi e uccisero Odoardo e Riccardo Camponeschi. L'avvenimento segnò la fine della cooperazione tra il C. e il regime pontificio all'Aquila. Il 25 giugno egli lasciò la città con la moglie e il resto della famiglia e si ritirò a Fontecchio sotto la protezione del conte di Popoli. Sia il papa sia il Comune si preoccuparono per la fuga del C.; il papa scrisse al Comune e agli ufficiali pontifici perché cercassero di farlo ritornare, mentre il Comune inviò al C. rappresentanti per chiedergli di perdonare l'oltraggio recato alla sua famiglia. Il 26 luglio il Comune riferì al papa che il C. aveva rifiutato di ritornare all'Aquila pretestando l'insorgere della peste e significando inoltre che desiderava potersi consultare con il pontefice. In una lettera scritta in data 12 luglio 1486 - lettera che venne intercettata - il C. cercava di assicurare Ferrante che egli era in attesa di un più consistente sostegno del contado per restaurare l'autorità regia all'Aquila. Ma già il 15 luglio Ferrante aveva ricevuto assicurazioni che il C. "non potria essere al mondo meglio disposto verso lo servitio nostro che è, e omne suo sforzo far per redurre quella città alla fidelità nostra". Le imbarazzate scuse, inviategli dal Comune per chiedere di perdonare la dimostrazione filo-pontificia condotta in città dal vescovo aquilano Giovan Battista Gaglioffi, mostrano quanto debole fosse diventato il governo pontificio in città. E infatti dopo la firma della pace tra Ferrante e il papa, avvenuta a Roma l'11 ag. 1486, fu inevitabile il ritorno dell'Aquila sotto il governo regio.
Il 10 ott. 1486 il C. rientrò in città alla testa delle truppe aragonesi. I suoi partigiani si vendicarono cruentemente della fazione dei Gaglioffi; mentre il servile Consiglio comunale dichiarava che l'assenza del C. era stata causa dei precedenti omicidi ed espropriazioni senza menzionare però gli omicidi e le confische che si venivano commettendo proprio allora dai campioneschi. Ferrante era soddisfatto del lavoro del C. che aveva ricondotto l'Aquila al governo napoletano non con la guerra, bensì con "la humanità et la clementia". Al C. venne affidato il mantenimento dell'ordine pubblico, come dimostra la richiesta, da lui avanzata il 19 genn. 1487, di usare cento soldati regi per mantenere l'ordine che poteva essere turbato dagli intrighi portati avanti a Roma dal vescovo aquilano.
Il C. si ammalò nel 1489, e il Comune scrisse il 16 dicembre ai Perugini per ringraziarli per il consiglio medico del maestro Trojolo sul caso. Il C. morì il 7 ott. 1490, "et male obiit" secondo Alessandro De Ritiis. Fu sepolto nella chiesa di S. Biagio. Non aveva eredi maschi. Aveva sposato Maria Pereira e Norona. Una sua figlia, Diana, sposò Restaino Cantelmo, conte di Popoli, e morì nel 1482; un'altra figlia, Vittoria, sposò Giovanni Antonio Carafa e fu madre di Gian Pietro Carafa, il futuro papa Paolo IV.
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