FLEGREI, CAMPI (Phlegraei Campi, da ϕλεγραῖος "ardente": A. T., 27-28-29)
Le terre limitate da Napoli, Cuma e Miseno (ivi comprese le isole di Ischia, Procida e Vivara), che furono chiamate Campi Flegrei dai primi coloni greci, altro non sono se non una vasta e complessa congregazione di estinti crateri, che hanno eruttato molto materiale frammentario, e poco lavico.
Nell'antichità, come si ricava dalle descrizioni di Polibio, di Strabone e di Diodoro, la denominazione di Campi Flegrei si estendeva sino al Volturno a nord e comprendeva il Vesuvio a sud. Nei Campi Flegrei fu localizzata nell'antichità la sconfitta dei Giganti che tentarono di scalare l'Olimpo. Le bellezze naturali e le proprietà curative delle numerose acque termali fecero sorgere moltissime costruzioni di età romana, per le quali v. agnano; baia; cuma; ischia; miseno; pozzuoli; procida; vivara. I due monti principali della zona erano per gli antichi il Monte Gauro (che deve aver corrisposto all'attuale M. Barbaro, ma che probabilmente si estendeva anche a parecchie alture vicine) ed i Monti Leucogei cioè le alture che chiudono la Solfatara di Pozzuoli, cosi dette dal colore chiaro della terra vulcanica.
Per i fenomeni attenuati di vulcanismo tuttora osservabili (Solfatara di Pozzuoli e sorgenti termali di Agnano), per la grande fertilità del terreno, che si rispecchia in una splendida vegetazione, dove predominano le piante sempreverdi, per i ricordi classici, per il clima marittimo assai temperato, la regione è tra le più note e ridenti d'Italia, dove l'uomo da tempo immemorabile ha lottato con gli elementi e ha trasformato in suo favore le forze naturali. In epoca recente il suolo è stato migliorato anche per mezzo di numerose bonifiche dei tipi più diversi. Pozzuoli, unita con Napoli da una linea tramviaria urbana e dalla metropolitana, è il maggior centro dei Campi Flegrei (19.596 ab.); importante anche Bacoli, a sud dell'antica Baia, mentre Cuma ha solo importanza storica.
Le manifestazioni eruttive, che si sono aperta la strada attraverso i depositi del Pliocene superiore e del Pleistocene marino, appartengono alle prime fasi dell'era quaternaria; ma mentre le inferiori, più antiche, rivelano palesi segni di un'origine sottomarina, le superiori mostrano di essersi formate in ambiente subaereo. I fenomeni, dapprima più estesi e grandiosi, contribuirono alla costituzione di tutta la grande piana campana, con materiali sanidinici, che si trovano ammassati anche a Sorrento e Capri e lungo tutta la cerchia dell'Appennino; poi, linitandosi successivamente sia d'intensità sia di estensione, si esplicarono con la produzione di materiale trachiandesitico nei Campi Flegrei e leuconefritico nel Vesuvio. Mentre però nel Vesuvio le eruzioni vomitarono promiscuamente materiali frammentarî e lavici, per un camino unico e costante, nei Campi Flegrei vi furuno eruzioni ed esplosioni, per camini e per bocche diverse, che andarono successivamente spostandosi verso sud e verso il mare.
Nei materiali eruttati dai Campi Flegrei, tenendo conto del loro aspetto e della natura litologica, nonché della loro successione stratigrafica, si può fare una triplice divisione principale. in cui restano subordinatamente incluse molte fasi eruttive secondarie. In tale triplice divisione la parte media, e meglio distinguibile, è rappresentata dal noto e caratteristico tufo giallo di Posillipo, che forma l'ossatura di tutta la regione flegrea; la parte inferiore è costituita da tutti i diversi materiali, che sono sottoposti al tufo giallo e che sono solamente in piccola parte visibili, la parte superiore infine è formata da tutti i varî depositi posteriori alla formazione del tufo giallo. Si può così dividere tutta la serie delle formazioni vulcaniche dei Campi Flegrei in tre periodi eruttivi principali. I materiali del primo periodo possono distinguersi in due grandi categorie, che corrispondnno a due diverse fasi eruttive: una più antica, rappresentata dal noto piperno e dai tufi grigi pipernoidi della Campania; l'altra costituita da letti alternantisi di pomici, lapilli, sabbie, brecce ed altri conglomerati vulcanici.
Il tufo pipernoide, trachitico, grigio a piccole scorie nere, che riempie tutto l'ampio piano della Campania e tutte le vallate del circostante Appennino calcareo, da quelle di Capri e di Sorrento fino alle più remote di Salerno, Avellino, Caserta e Capua, appoggiandosi quasi direttamente sulle sottostanti rocce sedimentarie, rappresenta l'ammassamento dei primi prodotti eruttivi, trasportati da correnti aeree ed acquee assai lontano dai focolai originarî. Benché questi ultimi non siano più facilmente riconoscibili, è probabile che il focolaio principale si debba trovare alla base dei Camaldoli, cioè quasi al centro dei Campi Flegrei, ove, invece dei tufi pipernoidi, si trova allo scoperto, come loro rappresentante, proseguendosi tanto verso est nella conca di Soccavo, quanto a nord nella conca di Pianura, il celebre piperno. Contemporanea del pipemo deve pure riguardarsi la grande massa di trachite cupolare che al Monte di Cuma fa da base alla storica acropoli.
Al disopra del piperno e dei tufi pipernoidi si trova una successione di strati di vario genere, in cui predomina la natura conglomeratica e sono visibili le tracce d'acqua marina e di depositi marini. Questi strati sono rappresentati da ceneri, sabbie, lapilli e pomici trachitiche, spesso miste ad argille e marne conchiglifere, e sono intramezzati e sormontati da depositi di conglomerati e brecce grosse, più o meno potenti, costituite da blocchi di natura diversissima strappati alle rocce sottostanti.
Brecce e conglomerati, prevalentemente sviluppati sotto i Camaldoli, lungo la base occidentale del Monte di Procida e nei fianchi nord-ovest del Monte di Cuma, sono sottoposti alla formazione più estesa e più caratteristica dei Campi Flegrei, cioè al tufo giallo. Questo tufo, costituito da un fitto aggregato di ceneri, lapilli e piccole pomici di natura trachitica, con frammenti di altre rocce tufacee e laviche, è sempre stratificato in strati molto distinti e sottili, che a volte contengono anche intercalate delle masse grigie, più chiare, e qualche volta anche alla superficie si coprono, per alterazione, di una patina grigia. Le eruzioni di ceneri, lapilli e pomici, che diedero luogo a queste masse di tufo giallo, furono generalmente di natura esplosiva, e formarono parecchi coni, piuttosto larghi e depressi, forniti di ampî e profondi crateri. Ma non mancarono eruzioni laviche, quantunque rare. Dapprima considerate come prevalentemente sottomarine per il grado di compattezza raggiunto dal tufo e per la presenza di alcune conchiglie marine in esso inglobate, oggi si ritiene quasi concordemente che queste esplosioni siano state in gran parte subaeree. Certo è che dei vulcani di tufo giallo della zona flegrea solo pochi sono ben conservati, mentre altri, o perché più fortemente esposti agli agenti atmosferici o perché sventrati o mascherati dalle posteriori eruzioni del terzo periodo, sono appena riconoscibili. I più meridionali, forse ancora giacenti sott'acqua, sono le due Secche, dette di Mezzogiorno e di Penta Palummo, a poca distanza dal Capo Miseno. Sono poi per la massima parte costituiti di tufo giallo l'isolotto di Nisida, le colline di Posillipo, del Vomero, di Capodimonte, di Poggioreale, dei Camaldoli, e i crateri del Piano di Quarto, del Gauro, del Monte di Cuma, del Monte di Procida, di Miseno, ecc. Il vulcano di Nisida, il più piccolo e il meglio conservato di quelli di tufo giallo, ha i suoi strati sormontati da un sottile velo di pozzolane e tufi grigi, provenienti dalle eruzioni dei posteriori vulcani: le stesse pozzolane e i medesimi tufi teneri si ritrovano sulla cresta della collina di Posillipo, rappresentante gli avanzi laterali di due vulcani contigui, di cui i crateri si aprivano sul piano di Bagnoli e di Fuorigrotta, sulla limitrofa grande collina dei Camaldoli, che raggiunge i 458 m. (il punto massimo d'altezza toccato dai Campi Flegrei) e ha come centri eruttivi le due conche di Soccavo e di Pianura, e ancora sui crateri del Porto di Miseno e di Capo Miseno, che affondano le loro radici sott'acqua.
Dopo le eruzioni di tufo giallo si ebbe infatti un'elevazione di tutta la regione e una fase piuttosto lunga di denudazione, a cui seguì l'attività eruttiva del terzo periodo. Le nuove bocche non sono più contemporanee, ma mostrano una progressiva limitazione e un graduale impiccolimento, che sembrano quasi preludere a un'estinzione definitiva di tutta l'area vulcanica dei Campi Flegrei. Nel succedersi delle varie bocche si ebbe spesso uno spostamento, più o meno grande, dell'asse eruttivo, che diede luogo a sistemi diversi di crateri, concentrici o eccentrici. I materiali di questo terzo periodo hanno una tinta generale grigiastra e sono più incoerenti di quelli che costituiscono il tufo giallo; ma è generalmente difficile stabilire la provenienza di quelli che furono proiettati lungi dalle bocche di esplosione. Il maggiore e più antico di tali vulcani centrali è quello di Agnano, con ampio e svasato cratere di circa 2 km. di larghezza, prevalentemente costituito da banchi di pomici, di ceneri, di lapilli e di tufi teneri grigi, a cui nei lati orientale e meridionale sono anche intercalati banchi di scorie. Celebre fin dai tempi romani per le sue acque termominerali e per le stufe e le esalazioni gassose, esso è seguito dai due vulcani di Astroni e della Solfatara, il primo dei quali fu quasi di getto rapidamente compiuto con un grandioso e breve atto eruttivo, mentre il secondo rimase lungamente attivo e aveva ancora nel Medioevo lava incandescente; esso è tuttora il focolare più caldo dei Campi Flegrei, ricco di abbondanti esalazioni gassose che ne hanno completamente alterato i materiali. Sulle pendici esterne di Astroni si trovano i due piccoli vulcani avventizî di Cigliano, costituito di ceneri e piccole pomici friabili, e di Campana, fornito di tre cerchie quasi concentriche e risultante di poche ceneri e lapilli e di moltissime scorie e bombe, rosse e nere, di natura trachiandesitica, che diventano più frequenti verso l'interno, ove il cratere ultimo, detto Fossa Lupara, è quasi interamente formato di blocchi di lava.
Difficile è lo stabilire i rapporti stratigrafici e cronologici precisi di questi vulcani scoriacei, come pure dei vulcani di tufo della zona occidentale, fino al cratere esplosivo dell'Averno, importante, oltre che per la sua ampiezza e profondità, anche per le scorie di leucotefrite della parete settentrionale, e finalmente il Monte Nuovo, il più giovane di tutti i vulcani flegrei.
La breve esplosione del 29-30 settembre 1538, che con la emissione di ceneri, lapilli, pomici e in ultimo di scorie trachifonolitiche seppellì il villaggio di Tripergole e fece sorgere il Monte Nuovo, presso a poco nelle dimensioni e nella forma con cui oggi noi lo vediamo, come un cono tronco di circa 140 metri di altezza aperto al sommo da un cratere la cui bocca misura più di 400 metri, chiude, per ora, la storia dell'azione vulcanica dei Campi Flegrei. I fuochi sotterranei, che nelle prime fasi del Pleistocene ardevano intensamente su tutta l'area dei Campi Flegrei, ora si sono ristretti a pochi punti della sua costa meridionale; e l'energia eruttiva si è accentrata un po' più a sud, nel Vesuvio. (V. tavv. CXIII e CXIV).
Bibl.: G. De Lorenzo, in Atti Reale Acc. di scienze fisiche e matematiche, serie 2ª, X-XVI, Napoli 1900-1916; id., in Quart. Journal of Geological Society, Londra, 13 aprile 1904; id., in Rendiconti della R. acc. delle scienze, Napoli 1900; id., I Campi Flegrei, Bergamo 1909; K. J. Beloch, Campanien, 2ª ed., Breslavia 1890, pp. 23-26; C. De Stefani, Die Phlegräischen Felder, Gotha 1907; G. Consoli Fiego, Cumae and Phlegraeans Fields, Napoli 1927; Atti del XIX congresso nazionale di idrologia nei Campi Flegrei, Napoli 1928; G. Dainelli, Guida della Escursione ai Campi Flegrei, in Atti dell'XI congresso geografico italiano, IV, Napoli 1930.