CAMPANA DEGLI SPADINSACCHI, Giacinto
Ultimo rappresentante delle due nobili famiglie reggiane, nacque a Reggio Emilia intorno al 1550. Scarsissime notizie si hanno sulla sua vita, che dovette protrarsi almeno fino al 1611. Celebrò con poesie encomiastiche gli Estensi, dei quali forse fu al servizio. Partecipò probabilmente alle tornate accademiche dei Politici e degli Elevati, dove si educò al gusto della poesia tassiana e marinistica e dove scambiò versi di scuola con i maggiori rimatori cittadini del tempo: Rodolfo Arlotti, Asdrubale Bombaci, Tito e Gabriele Bosio, Giuseppe Fontanella. In un periodo imprecisato dovè lasciare Reggio e recarsi a Padova: ritornato in patria egli indirizzava alla città nativa un sonetto laudativo.
La sua notorietà letteraria è affidata a un discreto manipolo di rime e ad una "Allegoria" della Divina Commedia che doveva probabilmente integrarsi con un commento al testo di Dante andato perduto. Le prime ci sono state conservate da Alessandro Scaioli nel Parnaso de' poetici ingegni (Parma 1611) e, in misura maggiore (quarantatré poesie rispetto alle ventidue della precedente edizione), da G. Guasco nella Storia litteraria... dell'accademia di belle arti di Reggio (Reggio 1711). Allo stesso Guasco si deve la conservazione dell'"Allegoria" dantesca riprodotta nel 1912 da Giovanni Crocioni.
In mancanza di dati biografici sul C. si è tentato almeno di stabilire la sua carriera letteraria: ciò che equivale, per il rimatore di Reggio, alla verifica dei modelli letterari che di volta in volta si sono imposti alla sua indole di imitatore. Sembra che un primo nucleo di rime possa senz'altro ascriversi all'imitazione del Tasso, soprattutto delle liriche. Lo studio del Tasso, del resto, era molto coltivato presso l'Accademia reggiana degli Elevati. Rodolfo Arlotti, il già ricordato scrittore con il quale fu in relazione il C., intraprese la stesura di un poema, rimasto interrotto, su imitazione della Gerusalemme liberata, che aveva come argomento la conquista cristiana di Granata. La Conquista di Granata e il titolo di un contemporaneo poema del Graziani composto sulla scia della fortuna del Tasso, e similmente al Tasso si ispirarono tanto le "conclusioni d'amore" quanto il poema epico L'Eracleide dell'altro poeta reggiano Gabriele Zinano. Alfonso Fontanelli, Gabriele e Asdrubale Bombaci tentano nel dramma pastorale l'imitazione dell'Aminta che è il modello espressamente dichiarato nel Caride e nelle Meraviglie d'amore dello Zinano, mentre il Principe Tigridoro di Alessandro Miari segue molto da vicino l'esempio del Torrismondo.
Di un altro importante influsso sembrano risentire le rime del C., quello del Marino e, in genere, della lirica concettista. Tipico di questo indirizzo è il sonetto che apre la raccolta edita dallo Scaioli, in cui il poeta si rivolge al marinista Giuseppe Fontanella chiedendogli il Testamento amoroso dello scrittore napoletano, sulla cui scia il C. compone una Carta amorosa di donazione. A volte ricorrono nel C. i medesimi temi trattati dal Marino (una canzone per la morte della madre, un'altra per la "Bella inferma"); in un caso il C. procede a una vera e propria parafrasi dell'originale (il sonetto "Apre l'uom le pupille allor che nasce"); altrove sono gli arditi giochi di parole del Marino, le metafore, l'ingegnosità dei concetti ad attrarre l'imitatore che costruisce interi componimenti sulla base di una pura suggestione verbale.
Un maggiore interesse riserva l'influsso che esercitò sullo scrittore reggiano Dante, non tanto per la sua presenza nelle rime del C. insieme con altre fonti letterarie assimilate sotto la comune insegna della rarità, quanto, ovviamente, per "Allegoria" della Divina Commedia che il Crocioni consigliava di scindere in due distinte "dichiarazioni". Nella prima il C. esordisce affermando che il fine della filosofia morale è la beatitudine dell'uomo, la quale, secondo il pensiero dei platonici, consiste nell'unione con Dio. Plotino ha dimostrato che ciò può conseguirsi attraverso i quattro gradi della virtù: il primo effetto, che si consegue considerando la natura del vizio, serve a moderare gli affetti; per il secondo l'uomo si va assuefacendo alla virtù "emendando in se stesso i suoi difetti"; nel terzo l'uomo, non sentendo più gli stimoli della tentazione, si dimentica del peccato; infine, ridotto all'esercizio della sola mente, "è fatto degno di ascendere al sommo della scala, e di rimirare l'esemplare di questa virtù in Dio, che è l'ultimo grado". Dopo tali premesse di ordine generale il C. asserisce che "l'intenzione di Dante è stata di rappresentare tutto ciò; e pertanto prima descrive l'Inferno, e tutto lo scorre, ed intende la sua particolare natura che, come dicemmo, serve all'uomo politico. E questo fa sotto la scorta di Virgilio... Uscito dall'Inferno, sale al Purgatorio, finto nell'altro emisferio; perché bisogna esca dalle occasioni del peccato... chi vuol fare acquisto delle seconde virtù: e qui lo conduce l'istesso Virgilio, perché l'intelletto illustrato dalla dottrina filosofica può anche bastare a questa fatica. Ma vi aggiunge per istrada Stazio, in cui si può figurare la dottrina cristiana della medesima materia, e l'intelletto superiore illustrato; perché aggiunta questa alla prima materia, più severamente aiuta la prima purgazione. In cima al Purgatorio si scorge il fiume Lete, posto per l'oblio; perché è già arrivato al terzo grado della scala, ove considerammo che per quelle virtù si scorda affatto del vizio; ed indi sale alla contemplazione di quelle che sono riposte nel quarto grado, e che si ammirano in Dio, in compagnia de' Beati: lo che si conseguisce mediante la filosofia, accennando che niuna altra scienza è bastante a ciò, se non questa sola".
Nella seconda dichiarazione lo scrittore precisa in chiave psicologica l'iter che conduce dal peccato alla beatitudine in Dio, riconoscendo un primo stadio della salvazione nella coscienza della pena connessa al peccato, un secondo nella considerazione della colpa, in sé temuta più ancora della pena, il terzo nella preghiera della remissione del peccato, per cui l'uomo è fatto degno di quella grazia che lo ricongiunge a Dio. Anche questa volta il C. non manca di riferire tali considerazioni all'ordinamento dell'oltretomba dantesco: "Il primo ha Dante mostrato nell'Inferno, ove la considerazione della pena non lascia luogo ad altro pensiero; il secondo nel Purgatorio, ove si piange più la colpa commessa che la pena che vi si soffre; ed il terzo stato nel Paradiso, ove a Dio l'anima si unisce".
Èpossibile che il perduto commento alla Divina Commedia avesse ricalcato questo schema interpretativo. Sta di fatto che questa "Allegoria" poco risente dei consueti canoni aristotelico-tomisti più in voga per l'interpretazione del testo dantesco, soprattutto presso l'università di Padova nell'ultimo scorcio del secolo XVI, e si inserisce invece, sulla scia del celebre commento di Cristoforo Landino, nella tradizione del platonismo fiorentino tardo quattrocentesco. Occorrerebbe tutta una serie di ulteriori dati biografici per appurare la provenienza culturale di tale posizione. Sembra tuttavia ragionevole ricondurre l'"Allegoria" del C. a quel clima di concreta assimilazione platonico-aristotelica che caratterizzò l'ortodossia della Controriforma, ferme restando - e particolarmente vive potevano essere nel C. - quelle esperienze quattrocentesche per le quali tale processo di assimilazione costituì il più importante degli impegni culturali e morali.
Bibl.: G. Guasco, Storia letteraria... dell'Accademia di belle lettere in Reggio, Reggio Emilia 1711, passim; F. S. Quadrio, Della storia e ragione di ogni poesia, II, Milano 1741, pp. 178, 370; G. Tiraboschi, Biblioteca modenese, I, Modena 1781, p. 378; G. Crocioni, G. C. poeta e dantista dello scorcio del Cinquecento, in Scritti vari di erudizione e di critica in onore di Rodolfo Renier, Torino 1912, pp. 755-771.