RENATO, Camillo
RENATO, Camillo (Paolo Ricci, Lisia Fileno). – Siciliano, a quanto pare «de Palermo» (C. Renato, Opere documenti testimonianze, a cura di A. Rotondò, 1968, pp. 89, 167, 180 e passim), Paolo Ricci nacque nei primi anni del XVI secolo (nel 1540 era detto «di età de anni 40 o circa, homo grando e ben formato», ma anche «giovane di età», pp. 167, 192).
Ordinato nella «religione de santo Francesco» (non è chiaro se d’Assisi o di Paola), «valento predicatore e celebrava messa», era poi «suto dalla religione» (p. 192; Williams, 1965, p. 113; Firpo - Marcatto, 2011, pp. 854 s.). Trasferitosi a Padova, suscitò sospetti e fu «haereseos causa detentus» a Venezia, al tempo in cui era nunzio nella Serenissima il vescovo Altobello Averoldi – e quindi fra il 1517 e il 1523 o (più probabilmente) fra il 1526 e il 1531 –, ma il processo si chiuse con l’assoluzione. Forse a tale periodo risale anche la sua apostasia e il ritorno allo stato laicale (Williams, 1965, p. 116; C. Renato, Opere documenti..., cit., pp. 43, 178 s., 186, 192).
Nulla si sa di ciò che fece negli anni seguiti al processo veneziano, mentre riapparve a Bologna fra il 1538 e il 1539, assumendo il nome accademico Lisia Fileno ed entrando in contatto con gli ambienti nobiliari e intellettuali cittadini. Dotti, patrizi, ma anche studenti «rerum novarum curiosissimi» si strinsero allora attorno al suo magistero, che alla discussione umanistica affiancava opinioni eterodosse, «persuadendo le persone a non credere quello che crede la sancta madre Giesa» (C. Renato, Opere documenti..., cit., p. 193).
Pur simulando e dissimulando, Ricci traeva spunti sia da Lutero sia da Erasmo, radicalizzandoli con un umanesimo critico spregiudicato e uno spiritualismo molto accentuato. Polemizzando contro le «superstizioni», Fileno negava tutti i sacramenti, inclusi battesimo ed eucaristia. Dubitava inoltre della vita ultraterrena, con la credenza nel sonno (o nella morte) delle anime e nella resurrezione finale dei soli eletti con il Giudizio universale («negava la imortalità de l’anima, con questo, che non sapeva se dopo morta la svanisca overo stia ociosa o si riposi», p. 235). Manifestava poi tendenze libertine all’antinomismo, poiché pensava che i «predestinati» – gli eletti attraverso la fede nel beneficio di Cristo e nell’immensa misericordia di Dio – non potessero peccare (pp. 38-44, 64 s., 184 s., 190 s., 203-205, 222, 235). Come sintetizzò egli stesso: «Soleo asserere, ex animo mihi, nullum esse purgatorium, nullum infernum, nullam legem, nullam legis poenam, nullum peccatum, nullam mortem, nullum Satan» (p. 39).
Erano idee diffuse fra i movimenti spiritualistici e libertini, ma anche in alcune frange dell’anabattismo. Infondata, però, si è rivelata l’ipotesi (cfr. Ginzburg, 1970, pp. 140, 165-169) che Ricci avesse vissuto a Strasburgo, entrandovi in contatto con il variegato mondo del radicalismo. In realtà, era stato il bolognese Fileno Lunardi a recarsi a Strasburgo, con l’abruzzese Giovanni Angelo Odoni. Eppure, i rapporti di Lunardi e Odoni con i circoli ereticali di Bologna, e la loro vicinanza al misterioso nobile e giurista eterodosso Eusebio Renato (Seidel Menchi, 1974, pp. 543-545, 630; Dall’Olio, 1999, pp. 74-78 e passim), rendono probabile la conoscenza da parte di Ricci di alcune istanze del radicalismo strasburghese, con il quale ci sono significative consonanze (cfr., per esempio, Ginzburg, 1970, pp. 119 s.). Del resto, non sembra casuale che Ricci assumesse a Bologna lo stesso nome (Fileno) di Lunardi, scegliendo poi nell’esilio di rimarcare la sua rinascita spirituale chiamandosi Renato, al pari dell’eretico Eusebio.
A Bologna Renato destò ben presto dei sospetti, e nel febbraio 1540 fu denunciato all’Inquisizione. Rifugiatosi a Modena, dove poteva contare su «molti seguaci» («multi sequentes suas opiniones etiam antequam veniret», C. Renato, Opere documenti..., cit., p. 193), entrò in contatto con gli ambienti eterodossi della cosiddetta Accademia modenese, diffondendo come a Bologna le proprie idee fra letterati e patrizi, ma estendendo la sua propaganda al contado, dove «andava suvertendo li villani» e «caciava in la testa alli contadini mille heresie e altre cose contra alla fede» (p. 193; Firpo - Marcatto, 2011, p. 855).
Arrestato nell’ottobre del 1540 presso Nonantola, in casa dei nobili Tommaso e Anna Carandini, per ordine di Ercole II d’Este fu tradotto a Ferrara, dove subì un processo che affrontò con vigore inusitato, distendendo un’Apologia (C. Renato, Opere documenti..., cit., pp. 31-89) che è stata «considerata la più aperta autodifesa pubblica che sia stata pronunciata in tutto il Cinquecento davanti ai tribunali dell’Inquisizione» (Rotondò, 2008b, p. 231).
Renato partiva dall’assunto della fallibilità di ogni commento umano, soprattutto in materia di «verità divina» («humana praeterea iuditia omnia dubia sunt de veritate divina eoque revocabilia, tum quod non sint semper recta et divinae voluntati conformia, tum quod homo omnium rerum plenam cognitionem habere non potest»: Opere documenti..., cit., p. 35). Conseguentemente, egli rivendicava il pieno diritto di «dubitare et asserere» (p. 49 e passim), di poter discutere liberamente anche su venerande materie della fede, come i sacramenti o la vita ultraterrena. Pertanto, giungeva a giustificare l’aperta propaganda di opinioni ereticali («non omnis qui dicit orationem haereticam vel suspectam est haereticus habendus. Sola enim dictio non sufficit», p. 37), e ad ammettere (con appena un velo di prudenza) tutte le incertezze dottrinali per le quali era stato denunciato.
Una condotta azzardata, e infatti sicuramente «lo haveriano fatto brusare» se non avesse goduto di potenti protezioni politiche a Bologna, a Modena e nella stessa Ferrara: Ercole II volle che «contra di lui» si usasse per la «maggior parte della misericordia che della iustitia». Erano, del resto, gli anni immediatamente precedenti la nascita del S. Uffizio (1542); Renato fu quindi «solo» condannato (così si espresse Ercole II) alla pubblica abiura e al «carcere perpetuo», nel dicembre del 1540 (pp. 168 s., 193 s. e passim; Firpo - Marcatto, 2011, pp. 857 s.).
Tradotto in carcere a Bologna, riuscì a evadere rifugiandosi in Valtellina, dove giunse non più tardi dei primi giorni di novembre del 1542 (al 9 di quel mese risale una sua lettera da Tirano a Heinrich Bullinger, in Opere documenti..., cit., pp. 135-137), e assunse il nome di Camillo Renato, divenendo ben presto «la personalità dominante nei Grigioni» (Cantimori, 1992, p. 84). Pochi anni dopo, tuttavia, il pastore riformato di Chiavenna, il piemontese Agostino Mainardi, si scagliò contro di lui a causa del suo radicalismo. Ne scaturì un durissimo scontro protrattosi almeno dal 1547, a conclusione del quale, nel luglio del 1550, Renato fu scomunicato; mentre nel gennaio del 1551 fu costretto nuovamente ad abiurare (Opere documenti..., cit., pp. 200-222, 227-231, 235-241 e passim; Williams, 1965, pp. 139-141).
Nel 1552, per motivi che restano a tutt’oggi oscuri, fece ritorno in Italia, ma «nelli ultimi giorni di agosto» fu arrestato a Bergamo e confessò «apertamente [di] non tenere la fede catholica ma tutto il contrario». Gli erano state pure sequestrate «molte scritture sue, nelle quali si conteneva ancora molti discorsi suoi più diabolici dell’opinione ch’ello havea confessato»; e gravava sul siciliano anche il sospetto che «suvertiva persone di questa città con [le] sue false oppinioni» (Opere documenti..., cit., pp. 250 s.).
È stato ipotizzato che scopo del suo viaggio fosse raggiungere Vicenza (Williams 1965, p. 172; Del Col, 2011, p. 673), una delle capitali italiane dell’anabattismo. In effetti, ciò è possibile poiché sono documentati i legami fra Renato e il mondo dell’anabattismo italico. Uno dei protagonisti della diffusione nella penisola della «setta anabattistica», il misterioso Tiziano, era stato attivo nei Grigioni (da cui era stato scacciato per radicalismo prima di raggiungere il Nord-Est d’Italia) entrandovi in contatto con «Camilli quoque, et suorum amicus erat» (Opere documenti..., cit., p. 229). Così come il suo compagno Giovan Battista Tabachin, che confessò all’Inquisizione di aver parlato con Renato («l’ho conferto con mi et è della mede[si]ma fede»), per quanto poi avesse significativamente precisato: «Ma non so migha chel si sia fatto rebatizar» (Stella, 1969, p. 58).
Non appena si diffuse la notizia della cattura bergamasca di Renato («apostata et abiurato, grandissimo heresiarca»), il S. Uffizio s’affrettò a richiederne alla Serenissima l’estradizione a Roma, considerando cosa «di grandissima importantia et consequentia per l’Officio della Inqusitione il poterlo havere qui dinanzi a loro» (Opere documenti..., cit., p. 252). Tuttavia, così come a Bologna e a Modena, anche nei Grigioni Renato era riuscito a entrare nelle grazie di potenti famiglie nobili locali. Pertanto, in virtù di forti pressioni delle autorità valtellinesi sulla Repubblica di Venezia, fu rilasciato alla fine di settembre e poté fare ritorno in Valtellina, a Traona (pp. 246-255; Zuliani, in corso di stampa).
A questo punto, dopo l’abiura grigionese e dopo aver corso il rischio di cadere nelle grinfie dell’Inquisizione con lo statuto di relapso (il che ne avrebbe sancito la condanna a morte), Renato parve rinchiudersi in uno stretto e prudentissimo riserbo, uscendo apparentemente dalla scena. Nondimeno, ancora nel novembre del 1552 l’ex vescovo Pietro Paolo Vergerio denunciò a Bullinger una situazione ben diversa («Camillus universam nobis Raetiam suo veneno inficiat», Opere documenti..., cit., p. 256, cfr. anche pp. 324 s.). E in effetti, presto Renato ebbe occasione di rompere clamorosamente il suo silenzio. A seguito della condanna al rogo, a Ginevra, del medico aragonese Miguel Servet (27 ottobre 1553), per le sue idee contrarie al dogma della Trinità, egli aggiunse la propria voce al moto di protesta suscitato, in nome della libertà di coscienza e del diritto a non essere uccisi per le proprie idee, da altri protagonisti del movimento radicale come Matteo Gribaldi Moffa, Sebastien Castellion, Lelio Sozzini, David Joris, Celio Secondo Curione, Bernardino Ochino e vari altri (soprattutto esuli italiani).
Di fronte alle proteste, Calvino, principale responsabile della condanna, rivendicò la propria scelta in nome della Defensio orthodoxae fidei, pubblicando all’inizio del 1554 gli atti del processo Servet. Subito dopo, a Basilea, uscì la replica dei radicali, il De haereticis an sint persequendi, cui seguì un serratissimo dibattito con interventi sempre più duri da entrambe le parti della barricata. In questo conflitto fra repressione e libertà, fra dubbio e ortodossia, anche Renato manifestò il proprio dissenso nei confronti del riformatore di Ginevra, e in un carme scagliato da Traona nel settembre del 1554 (In Ioannem Calvinum de iniusto Michaelis Serveti incendio), dichiarò la sua indignazione contro la scelta di Calvino, giudicata degna dell’Inquisizione («Romani haec digna feris et turpibus ursis / saevitia est...»). Una scelta scellerata, di fronte alla quale Renato rivendicò «libertas» al pari degli altri suoi compagni radicali (Opere documenti..., cit., pp. 125, 130).
Dopo di allora, il nome di Renato parve davvero sparire dall’agone delle lotte religiose, come sembra suggerire un accenno del 1563 al fatto che vivesse da «privatus» (p. 264). Il recente ritrovamento di un carme indirizzato all’esule e ministro riformato Scipione Lentolo – del giugno 1567 – pare dimostrare, però, come Renato non si fosse ritirato a vita privata ma avesse continuato a partecipare alla vita religiosa grigionese (Zuliani, in corso di stampa). In effetti, già l’intervento in difesa di Servet dimostra come, anche dopo la sua abiura, Renato non si fosse allineato all’ortodossia dei riformati, pur evitando apparentemente di esprimere posizioni eterodosse. Pertanto, è molto probabile che «il vecchio e indistruttibile esule siciliano» continuasse comunque «a esercitare una funzione di guida dissimulata del gruppo di dissidenti» dei Grigioni (Opere documenti..., cit., p. 283); non a caso la presenza di radicali in Valtellina è attestata per lunghi anni ancora.
L’ultima menzione che lo riguardi è del 1572, quando risulta ancora vivente ma ormai completamente cieco, essendo affetto da una malattia che gli aveva tolto la vista progressivamente (pp. 57, 79, 264 s.). Ignota resta la data della morte, ipotizzata nel 1575, ma comunque precedente il 1581 (p. 265; Williams, 1965, pp. 182 s.), in luogo ignoto.
Le opere e il carteggio superstiti di Renato, con numerosi documenti che lo riguardano (tra cui frammenti del processo ferrarese) sono in C. Renato, Opere documenti e testimonianze, a cura di A. Rotondò, Firenze-Chicago 1968. Vi compaiono 17 Carmina datati al 1538-40; l’Apologia Lysiae Philaeni Pauli Ricci Siculi Ferrariae nomine haereseos detenti foeliciter imperante Hercule II duce IIII del 1540; il Trattato del battesimo e della santa cena, datato al 1547 ca.; la Certa in symbolum professio ad Fridericum Salicem, del 1548; e il carme contro Calvino. Vi sono poi trascritte dodici lettere di Renato (una firmata anche da Bartolomeo Maturo) a Bullinger e una di quest’ultimo a Renato, in un arco di tempo che va dal 1542 al 1549. A questi testi va ora aggiunto il carme del 1567 a Scipione Lentolo (Zuliani, in corso di stampa).
Fonti e Bibl.: F. Gaeta, Origini e sviluppo della rappresentanza stabile pontificia in Venezia, Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, IX-X (1957-1958), pp. 40-45, 47-55; G.H. Williams, C. R. (c. 1500-?1575), in Italian reformation studies in honor of Laelius Socinus, a cura di J.A. Tedeschi, Firenze 1965, pp. 103-183; A. Stella, Anabattismo e antitrinitarismo in Italia nel XVI secolo. Nuove ricerche storiche, Padova 1969, ad ind.; C. Ginzburg, Il nicodemismo. Simulazione e dissimulazione religiosa nell’Europa del Cinquecento, Torino 1970, ad ind.; S. Seidel Menchi, Sulla fortuna di Erasmo in Italia. Ortensio Lando e altri eterodossi della prima metà del Cinquecento, in Schweizerische Zeitschrift für Geschichte, XXIV (1974), pp. 543-545, 630; S. Peyronel Rambaldi, Speranze e crisi nel Cinquecento modenese. Tensioni religiose e vita cittadina ai tempi di Giovanni Morone, Milano 1979, pp. 235-240 e passim; S. Calvani, C. R., in Bibliotheca dissidentium. Répertoire des non-conformistes religieux des seizième et dix-septième siècles, IV, Jacques de Bourgogne, seigneur de Falais. Étienne Dolet. Casiodoro de Reina. C. R., Baden Baden 1984, pp. 155-190; D. Cantimori, in Eretici italiani del Cinquecento e altri scritti, a cura di A. Prosperi, Torino 1992, ad ind.; G. Dall’Olio, Eretici e inquisitori nella Bologna del Cinquecento, Bologna 1999, ad ind.; A. Rotondò, Anticristo e Chiesa romana. Diffusione e metamorfosi d’un libello antiromano del Cinquecento, in Id., Studi di storia ereticale del Cinquecento, I, Firenze 2008a, pp. 108, 117, 119, 140 s., 143, 145 s.; Id., Atteggiamenti della vita morale italiana del Cinquecento. La pratica nicodemitica, ibid., 2008b, pp. 223 s., 231 s.; Id., Per la storia dell’eresia a Bologna nel secolo XVI, ibid., 2008c, pp. 249-277; L. Addante, Eretici e libertini nel Cinquecento italiano, Roma-Bari 2010, pp. 104-108, 190-196 e passim; G. Dall’Olio, R., C., in Dizionario dell’Inquisizione, a cura di A. Prosperi et al., III, Pisa 2010, p. 673; A. Dal Col, L’Inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, Milano 2011, ad. ind.; M. Firpo - D. Marcatto, Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, I, Roma 2011, ad. ind.; F. Zuliani, Un carme a Scipione Lentolo (1567) e gli ultimi anni di C. R. in Rezia, in Rivista storica italiana, in corso di stampa.