CAULA (Di Caula), Camillo
Nacque a Sassuolo, in provincia di Modena, in data rimasta ignota, ma probabilmente riferibile agli ultimi anni del sec. XV.
I primi fatti che sicuramente lo riguardano si riferiscono al 1523, allorché egli dette le prime prove del suo valore militando, nell’ambito delle discordie intestine che travagliavano Sassuolo, dalla parte di Guido Rangoni contro la fazione capeggiata dalla famiglia dei Mari. Successivamente entrò al servizio del Rangoni, vicedelegato di Parma e Piacenza.
Probabilmente intorno al 1537 (0 1538) il C. fu fatto prigioniero dai Turchi. Ottenuta la liberazione dietro riscatto, poté fare ritorno in patria travestito da frate francescano: dopodiché – attestano le fonti – egli si sarebbe assoggettato a una mortificazione per ringraziare Dio di aver avuto salva la vita e avrebbe per alcuni giorni mendicato scalzo a Modena onde offrire il ricavato delle elemosine alla fabbrica del monastero del Corpus Domini.
A queste vicissitudini accenna altresì l’Aretino, il quale, in una lettera indirizzata al C. da Verona in data 16 giugno 1538, dopo aver elogiato il padre del sassuolese e auspicato all’amico una gloria militare non minore, ricorda esplicitamente la prigionia del C. nonché i suoi sentimenti di pietà, non appena ritornato in patria (“Iddio, riguardante il cristiano senno e il catolico valor di voi, consentì il riscatto che vi tolse da i legami infedeli, rendendovi a la libertà nativa. Non piacque a la sua misericordia che un giovane sì pronto in esseguir le cose onorevoli e giuste rimanesse in sì empia cativitade. Tal che voi, sincero riconoscitore di cotal grazia, riserbate la vita ne le occorrenze de la sua religione”).
All’epoca in cui l’Aretino gli indirizzava questa lettera, il C. era sposato a certa Pellegrina de’ Bianchi, della quale abbiamo una lettera indirizzata all’Aretino da Modena il 15 giugno 1542, in cui lo ringrazia delle lodi attribuite a suo marito e gli manda un bariletto di trebbiano. Dalla lettera di risposta dell’Aretino a Pellegrina sappiamo che nel 1542 il C. era in Francia (“Egli è da stimare, onoranda sorella, che scorgendo io nel capitan Camillo, oltra il valore e la bontà, la somma di tutte quelle virtù che illustrano un nobile soldato, sapesse che anco la cortesia gli adornava l’animo. Sì che non accadeva che me ne faceste fede con la commessione che vi lasciò andando in Francia; benché ho molto caro che l’abbia fatto”).
Morta di lì a poco Pellegrina, il C. sposerà Ippolita della Porta, alla quale già si accenna come a sua moglie in una lettera dell’Aretino del 1545, e poi più diffusamente in lettere del 1546. Ippolita morì nel 1564.
Nel 1547 il duca di Ferrara Ercole II promosse il C. capitano della cavalleria leggera e gli affidò più volte imprese militari di notevole rilievo. A Venezia, dove si recò per qualche tempo su invito del duca di Ferrara, egli entrò a far parte della cerchia di scrittori che facevano capo all’Aretino. Colto, buon conoscitore della letteratura contemporanea, ottimo conversatore, per quel che ne dissero gli amici veneziani, egli aveva tutti i meriti per entrare nella stima di uomini allora famosi, quali Ludovico Domenichi e Giuseppe Betussi.
Quest’ultimo nel Raverta fa dire allo stesso Domenichi: “Ma dove lascio il mio valoroso capitan Camillo Caula, la cui viva virtù et leale animo rende ogni cuore ad honorarlo astretto? Ben dirò io essere non poco dell’alto suo valore acceso, et di quelle rare et perfette qualità c’hoggidi si veggono in pochi et in lui talmente abbondano che chi brama specchiarsi in un vero folgore di battaglia si specchi nel coraggioso et ardito suo animo. Né mai tempo o destino potrà fare che il mio valore dal suo si disgiunga”. E infine chiama “il valoroso et honorato Camillo Caula... huomo così per lettere come per armi illustre et degno d’essere nominato in ogni cosa d’honore”.
L’accenno che fa il Betussi all’esperienza letteraria del C. sembra essere confermato dalla dedica che il Domenichi gli indirizza del Polibio tradotto in italiano e stampato a Venezia nel 1553.
Inoltre, del C. ci sono rimaste alcune ottave, incluse tra le Rime diverse di eccellentissimi autori (Venezia 1545) che testimoniano di una buona padronanza del verso e di una notevole conoscenza delle fonti letterarie più in voga nel primo Cinquecento (Petrarca, naturalmente, ma anche Bembo e i seguaci veneziani della sua riforma nel campo della lirica). In tre lettere del C. che furono comprese nella Raccolta di B. Pino (Venezia 1574) l’autore discorre con i suoi interlocutori (ancora il Domenichi e il Betussi) sui consueti temi di pietà che erano tradizionali nell’epistolografia dell’epoca dimostrando di essere al corrente del fondamentale dilemma (tra amore e pentimento) in cui si incentrava la poesia petrarchesca, allorché, per esempio, esortava il Betussi a sciogliersi dai “vituperosi lacci”, ad abbandonare, cioè, la poesia amorosa per scrivere rime di pentimento e darsi alla riflessione sulla Sacra Scrittura.
Un’altra operetta del C., intitolata Parere del capitan Camillo Caula come padrino del Sig. Riccardo di Merode (Mantova 1557), ci dà infine una ulteriore immagine, non discordante, bensì integrabile con quella del brillante partecipe di discussioni letterarie: che è quella dell’uomo d’armi, esperto ed abile regolatore di controversie cavalleresche.
Sappiamo, del resto, dalle notizie biografiche che, mentre egli era capitano a Finale di Modena, dovette assistere a un celebre duello che si svolse tra Flavio Vecchi e Paolo Mari. Nel 1560, a seguito della morte di Ippolito Boiardo, fu inviato dal duca Alfonso II a prendere possesso di Scandiano e degli altri feudi goduti dal Boiardo. Fu quindi nominato dallo stesso duca governatore di Brescello, ove lo colse la morte il 1º nov. 1571. Negli ultimi anni il C. aveva goduto numerosi privilegi concessi dal duca di Ferrara alla sua famiglia in riconoscimento della fedeltà di cui il governatore aveva sempre dato prova. I funerali si svolsero a Modena il 3 novembre. Fu sepolto nella chiesa cittadina di S. Domenico.
Tipico rappresentante del mondo cinquecentesco, il C. seppe sicuramente congiungere quelle che erano per i contemporanei le qualità fondamentali per il vivere civile: prontezza nella vita attiva e acutezza d’ingegno. Dovette, insomma, rappresentare, specialmente per gli scrittori di ambiente veneto con i quali fu in rapporto, una sorta di incarnazione dell’ideale del cortigiano, quale veniva vagheggiato, in quegli anni di sostanziale inerzia politica, in una prospettiva esclusivamente letteraria. Certo la cultura poetica del C. dovette essere abbastanza superficiale, ma sotto questo aspetto non contano tanto le poche rime in cui volle cimentarsi, quanto l’attitudine a inserirsi positivamente in un ambiente di poligrafi, di recepire la vitalità di certi temi, di riuscire ad equilibrare, come non sarà più possibile agli uomini di una generazione successiva, l’ozio letterario con la pratica delle armi e gli impegni di governo.
Fonti e Bibl.: P. Aretino, Lettere. Il primo e il secondo libro, a cura di F. Flora, Milano 1960, p. 468 e passim; L. Domenichi, Ragionamento delle imprese, Venezia 1557, p. 131; G. Betussi, Il Raverta, in Trattati d’amore del Cinquecento, a cura di G. Zonta, Bari 1912, passim; G. Tiraboschi, Biblioteca modenese, II, Modena 1782, pp. 14 ss.