CASARINI, Camillo
Nacque a Bologna l'8 ag. 1830 da Giuseppe e da Rosa Sarti Pistocchi. Secondo il suo principale biografo, che fu anche suo amico e seguace, Emesto Masi, i primi studi del C. furono fatti all'insegna di una grande confusione di orientamenti ideali. Nel 1849 partecipa alla difesa di Bologna; successivamente l'iscrizione all'università, nella facoltà di giurisprudenza, apre il periodo in cui il suo nome comincia a esser noto alle autorità, come quello di un giovane insofferente al giogo che si tentava di imporre alle regioni dello Stato pontificio dopo la restaurazione del '49. Questa insofferenza, ancora non maturata politicamente, mostra il germe di quell'atteggiamento tenacemente anticlericale che costituirà il tratto dominante della sua vita di patriota liberale. A venti anni, tuttavia, il C. si limita a sbeffeggiare i preti in poesiole satiriche, che gli valgono l'allontanamento temporaneo dall'università. Dopo il matrimonio con Enrichetta Golfieri (1852), assiste, senza parteciparvi, ai torbidi bolognesi del 1853: la predicazione mazziniana gli era rimasta sempre estranea. Il suo fervore giovanile, oscillante tra giacobinismo politico e cultura romantica, non si traduce in un preciso indirizzo politico, e non trova neppure la strada dell'impegno letterario.
Il 1853 è una data importante per la comprensione del posto che il C. occupa nel processo risorgimentale: dopo il breve e cruento moto milanese del febbraio, inizia l'allontanamento dalle file mazziniane di molti liberali delle classi medie e il rafforzamento di gruppi liberali fluttuanti in attesa di una direttiva politica nuova. Il gruppo bolognese di cui viene a far parte il C. è uno di questi. È qui che viene maturando, tra il 1853 e il 1856, la scelta filocavouriana, che ne farà uno degli uomini con cui Cavour avrà rapporti diretti negli anni 1859-60. Anche se il C. non era mai stato mazziniano, la riflessione critica sul mazzinianesimo fu un elemento non secondario delle scelte sue e del suo gruppo. Tuttavia la chiarezza con cui il C. seppe affrontare gli anni cruciali della guerra e delle annessioni è dovuta proprio al fatto che la politica cavouriana occupava un terreno ideologicamente sgombro e riempiva un vuoto di orientamenti pratici.
Nel 1854 si laurea in giurisprudenza; frequenta la casa di Gioacchino Pepoli, dove si tengono riunioni di carattere politico-letterario e scrive articoli di gusto fortemente romantico sul giornale letterario L'Incoraggiamento, fondato dal Pepoli. Queste riunioni, in cui si andava formando il "partito piemontese" di Bologna, sfuggono alla polizia pontificia che ne scorge soltanto l'aspetto letterario. Subito dopo la laurea segue un corso privato tenuto da Marco Minghetti di economia pubblica e diritto costituzionale. Nel 1855 la vittoria della Cernaia e nel 1856 il congresso di Parigi rinvigoriscono la posizione filo-piemontese del C. e diffondono il mito, che diventa forza politica nel gruppo liberale bolognese, del diplomatico sagace che da Torino lavora per l'Italia. Nel 1856 il C. per la prima volta appare come uno dei dirigenti della opinione pubblica liberale di Bologna, mobilitando unitariamente i vari gruppi liberali a sostegno della protesta che si intende presentare alle autorità ecclesiastiche e che è stata redatta dal Minghetti, in occasione del viaggio del pontefice nelle Legazioni. La protesta tuttavia non viene presentata. Il lavoro preparatorio di unificazione dei gruppi liberali era stato svolto prevalentemente dal C. nell'ambito della lotta contro lo sviluppo della associazione (di filiazione gesuitica) di S. Vincenzo de' Paoli.
Ma è solo a partire dal 1858 che l'azione politica del C. acquista un più marcato rilievo nazionale. La costituzione del Comitato segreto di Bologna della Società nazionale italiana (1858), che è principalmente opera sua e che egli guida fino al giugno del 1859 insieme a Pietro Inviti e Luigi Tanari, contribuisce a fare di lui un interprete consapevole, ma anche autonomo e critico, della politica cavouriana verso l'Italia centrale.
L'attività nella Società nazionale diventa per lui, come per larghi strati della borghesia nazionale, un chiaro punto di riferimento della lotta per l'unità e per l'indipendenza, e un potente stimolo alla sprovincializzazione tramite l'inserimento in quello che si presentava come il primo grande partito italiano. Il compito del C. è particolarmente importante, perché le Romagne rappresentavano la porta di accesso alla realizzazione di quella piena unità italiana che gli accordi di Plombières non avevano previsto, e il punto delicato dell'iniziativa extradiplomatica che diventava necessaria dopo Villafranca.
Il C. riesce nel corso del 1858 (nonostante la diffidenza dei moderati minghettiani, in contatto con Cavour) ad agganciare alla Società nazionale quasi tutti i gruppi repubblicani delle Legazioni, svuotandoli di forza politica autonoma e sottraendoli al feticismo della agitazione settaria. In questo modo opera secondo le direttive fatte giungere nelle Romagne da parte di Cavour, il quale andava prendendo contatto direttamente con gli uomini che guidavano la Società nazionale nelle varie città italiane. Nel gennaio 1859 il Cavour incontra il C., giunto a Torino per informarlo sulla situazione nelle Romagne e ricevere appoggio politico all'azione del Comitato bolognese della Società nazionale. Nel corso dell'incontro il Cavour afferma che la difficoltà dell'azione nelle Romagne impone che si evitino rappresaglie e tumulti dopo la partenza delle truppe austriache.
Il Comitato deve far sì che vengano mantenuti fermi gli obiettivi della Società nazionale nelle Legazioni: quello del mantenimento dell'ordine pubblico contro ogni tentativo di moto democratico organizzato da mazziniani (Cavour sembra infatti aver accettato la tesi del C. che i mazziniani costituivano la sola alternativa, in Romagna, ai moderati che volevano l'unificazione al Piemonte); e quello della partecipazione di forze locali alla guerra di indipendenza ormai imminente. Anche La Farina parla al C., a Torino, dell'importanza di avere volontari dalle Romagne: non dovevano essere molti, spiegava, perché doveva trattarsi di un fatto dimostrativo.
Una seconda volta il C. riceve direttive da Cavour, tramite una lettera del segretario del conte dell'aprile 1859, che è la risposta ad una richiesta di indicazioni politiche da parte del Casarini. La lettera è scritta nel momento in cui più insistenti si facevano le voci sulla convocazione di un congresso di pace, che avrebbe impedito l'inizio della guerra per la quale Cavour operava.
Vi si legge che è opportuna una "agitazione legale" anche nelle Romagne, soprattutto nel caso in cui si riunisca un congresso; è necessario presentare la situazione nelle Romagne come ormai al bivio tra "guerra" e "rivoluzione". Si aggiunge che i battaglioni locali da inviare in Piemonte devono essere composti di "signori", per non "impoverire troppo i paesi" (C. Cavour, Lettere edite e inedite a cura di L. Chiala, III, pp. 55 s.). Il ruolo assegnato da Cavour alla Società nazionale viene ribadito: utilizzazione del timore di un moto popolare rivoluzionario come mezzo per affrettare la guerra e per scuotere la incertezza di Napoleone III; e inoltre attribuzione alle forze borghesi locali della funzione di guida del moto liberale per l'unificazione al Piemonte. Durante la guerra la Società nazionale doveva, secondo le direttive che Cavour fa pervenire al Comitato bolognese tramite il La Farina, promuovere la formazione di governi provvisori.
Il 12 giugno si forma a Bologna, abbandonata dagli Austriaci e dal cardinale Milesi a seguito di manifestazioni organizzate dal Comitato bolognese della Società nazionale e dai moderati, una Giunta provvisoria di governo; di questa fa parte, come ministro della Guerra, il C., insieme al Pepoli, al Tanari, al Montanari e al Malvezzi. La Giunta offre la dittatura a Vittorio Emanuele. Dopo il convulso periodo del commissariato regio di d'Azeglio (caratterizzato tra l'altro dai difficili rapporti di quest'ultimo con il C.) il moderato Leonetto Cipriani assume la carica di governatore generale, battendo la candidatura La Farina, sostenuta anche dal Casarini. Questi è eletto all'Assemblea delle Romagne, convocata dal Cipriani nel settembre 1859, in cui viene votata la decadenza del governo pontificio e l'annessione al Regno di Sardegna.
La Società nazionale, sempre più legata alla politica cavouriana, divide col Cavour il prestigio della vittoria e si diffonde soprattutto nel Nord d'Italia. La Farina incoraggia la sua rinascita nelle Romagne; ma la guida del ricostituito Comitato bolognese torna in mano di uomini che non sono vicini al La Farina: R. Simonetti ne è il presidente; il C. ne è il segretario. Gli altri comitati che si ricostituiscono nelle città romagnole si collegano per lo più direttamente con Bologna e non con Torino. Le dimissioni di Garibaldi dalla associazione provocano nella Società nazionale romagnola una crisi e un pronunciamento (che indigna il La Farina) a favore di una linea politica che sia filocavouriana senza essere antigaribaldina (Grew, pp. 244 s.). L'atteggiamento di autonomia nei confronti di Torino e del La Farina, che era sostenuto nel Comitato bolognese soprattutto dal C., si fa più netto in occasione dell'azione svolta dalla Società nazionale romagnola per raccogliere fondi per la spedizione garibaldina in Sicilia e forze per una progettata invasione delle Marche. L'allontanamento dalle posizioni dei La Farina e i contatti della Società nazionale romagnola con i seguaci del Bertani sulla questione delle Marche inducono il C., nel giugno del 1860, ad ammettere di non essere sicuro che i membri romagnoli agiscano ormai nell'ambito della sua linea ufficiale (Grew, p. 330). Nel luglio 1860 esplode il contrasto, da tempo latente, tra il La Farina e il Comitato romagnolo; esso conferma che nei liberali romagnoli persiste, accanto al solido spirito cavouriano, quel radicalismo filogaribaldino, su cui si innesterà la maturazione delle posizioni di sinistra del C. in Parlamento negli anni successivi. In seguito allo scontro tra Garibaldi e La Farina e all'allontanamento dalla Sicilia del La Farina, il C. propone a questo (con una lettera del luglio 1860) di accogliere l'orientamento del Consiglio centrale delle Romagne, favorevole alle sue dimissioni da presidente della Soc. nazionale. Il Comitato romagnolo, in cui erano personaggi che erano stati vicini a Garibaldi (tra questi il C., che lo aveva conosciuto nel 1859, al tempo del primo incontro con Cavour), riunitosi a Bologna il 22 luglio dichiara che la Società e il La Farina avevano fatto la loro parte in Sicilia, ma che recriminazioni e calunnie avevano poi minato l'autorità del La Farina. Il Comitato ritiene dunque non più possibile sostenere la causa personale di quest'ultimo e propone che il Depretis lo sostituisca come presidente. Il C., sollecitando le dimissioni del La Farina, nella sua lettera a questo gli scrive entusiasticamente della necessità che egli compia il sacrificio per ricondurre Garibaldi nella linea della politica cavouriana e per salvare l'unità della Società nazionale e indica in Garibaldi l'uomo che con Cavour, anche se con le armi dell'azione popolare, sta combattendo per l'unità. Con ciò sottovaluta il fatto che La Farina è l'esecutore in Sicilia del piano cavouriano teso a controllare Garibaldi e a sottrargli l'egemonia sulla situazione dell'Italia meridionale. Il La Farina respinge la proposta di dimissioni. Il Comitato centrale della Società nazionale scioglie il Comitato delle Romagne; e questo decide, nell'agosto, di scindersi da essa e insiste nell'offrire la presidenza dell'associazione al Depretis. Subito però nascono dubbi tra i liberali bolognesi sulla legittimità del proprio atto di scissione; i dubbi vengono confermati dall'appoggio che Cavour assicura a La Farina; soprattutto si teme lo scivolamento del Comitato romagnolo fuori della politica piemontese, che continua ad apparire la via maestra per l'unità italiana. Si decide quindi di inviare a Cavour un documento di appoggio e di fedeltà, che il C. accompagna con una sua lettera assai imbarazzata (15 ag. 1860).
Il C. spiega che è convinzione del Comitato che le forze del "Governo" e della "Rivoluzione" "non debbano assolutamente usarsi disgiunte" e che la fiducia dei patrioti romagnoli in Cavour e nel Piemonte sabaudo rimane integra. L'amichevole risposta di Cavour (18 ag. 1860) vuole essere tuttavia una severa lezione di politica. "Non v'ha rivoluzione quando tutto il popolo consente nella forma di reggimento, quando il Governo è un portato della pubblica opinione, che ha mezzi legali per spingerlo o per moderarlo"; "se pertanto quelle forze popolari che impropriamente si chiamano la rivoluzione, costituiscono uno dei maggiori sussidi del Governo nell'opera della redenzione nazionale, esse non conservano la loro efficacia e utilità, se non quando è il Governo che le modera e le dirige" (Lettere, III, pp. 336-339). Il C. consiglia un uso "prudente" della risposta di Cavour da parte dei dissidenti romagnoli. Ma è soltanto la successiva decisione di Cavour di invadere le Marche che salva la Società nazionale dalla crisi, causata dal venir meno di orientamenti unitari, che lo scisma romagnolo aveva fatto emergere.
Dopo avere partecipato, nel settembre 1860, all'assalto vittorioso contro la guarnigione pontificia di Urbino, il C. si dedica alla politica comunale e dal 1861 al 1865 è assessore al comune di Bologna. Nel 1865 viene eletto al Parlamento, in occasione di quelle elezioni che espressero la prima insoddisfazione del paese verso la politica della Destra. Il C. sceglie la propria collocazione nel gruppo di quel terzo partito in formazione, nell'ambito del quale va maturando la Sinistra costituzionale. È significativo il fatto che entri in Parlamento in una posizione assai vicina a quella di uomini come Francesco De Sanctis, e ne esca nel 1873, con la sua morte, nel corso del tentativo, nato nell'ambiente politico del De Sanctis e affidato inizialmente proprio al C., di realizzare una unione parlamentare tra la Sinistra parlamentare e la Destra di Minghetti. Vota contro il primo ministero La Marmora, giudicandolo arrendevole nella applicazione della Convenzione di settembre, e il 7 maggio 1866 pronuncia il primo discorso parlamentare, in cui esprime il proprio accordo con gli sforzi di chi si batte per la formazione di un grande partito nazionale progressista. Nel 1867 (in una lettera stampata sul giornale L'Indipendente di Firenze) il C. precisa le sue posizioni, accusando la Destra e la Sinistra tradizionale di non combattere seriamente per l'unità e di non sapere risolvere la questione romana. Parla di un partito progressista che si sta consolidando e invita a leggere il giornale Il Diritto che ne è l'organo. A nel 1867 infatti che il De Sanctis teorizza sul Diritto il concetto di una libertà progressiva, contro le interpretazioni moderate della formula "libertà della Chiesa". Nell'aprile 1868 il C. assiste alla insurrezione contadina contro la tassa sul macinato, scoppiata nel Bolognese, e afferma, in Parlamento che quegli avvenimenti sono stati provocati non da agitazioni di partiti eversivi, ma da un malcontento profondo di carattere sociale. Spinto anche da una riflessione su questi episodi di lotta sociale, si pone a capo, a Bologna, di un comitato che prendeva il nome dal liceo Galvani dove si riuniva e che chiedeva profonde riforme: i suoi membri erano definiti come moderati che non militavano nel partito governativo. Nel luglio 1869 vince le elezioni amministrative a Bologna e diventa sindaco, raccogliendo una coalizione di forze che prende il nome di Partito degli azzurri.
Nella sua politica amministrativa difende nettamente la laicità delle istituzioni statali, si occupa della riforma dell'istruzione elementare, del riordinamento delle scuole, delle biblioteche, dei musei, dei progetti urbanistici e, inoltre, degli aiuti alla Società operaia. È costretto a lasciare la carica di sindaco nel febbraio 1872 in seguito allo scandalo Guadagnini, che lo coinvolge, e da cui tuttavia esce "netto".
Nel maggio 1873 pronuncia il suo più maturo discorso parlamentare contro la legge delle Guarentigie. Afferma che il partito conservatore tende sempre più a diventare un partito neocattolico che sostiene la conciliazione col Papato; è invece necessario secondo il C. non dimenticare la necessità della lotta a oltranza contro il clero, se non si vuole consentire ai conservatori di avvalersi della religione come di uno strumento politico, nel momento stesso in cui gli uomini di scienza la rifiutano e la combattono. La legge delle Guarentigie crea una duplice sovranità poiché consente al papa di essere parte integrante dello Stato: in questo modo, mentre si compie l'unità territoriale, si compromette l'unità politica. Anche in politica estera, secondo il C., l'Italia si dimostra debole e incapace di rafforzare i rapporti con quella Germania bismarckiana con cui l'Italia ha in comune interessi e nemici. Conclude con l'affermazione, su cui in quegli anni insiste tutta la Sinistra costituzionale, che una chiara delineazione di partiti intorno al tema dei rapporti tra Stato e Chiesa è l'aspetto più urgente della realtà politica italiana, per superare la grave cristallizzazione della vita parlamentare.
Caduto il governo Lanza, si forma il governo Minghetti. Il gruppo della Sinistra costituzionale decide di appoggiare il Minghetti nella prospettiva di una soluzione dei problemi più urgenti del paese, che consenta nel contempo il confluire in un più vasto partito di tutte le forze parlamentari progressiste. Al C. viene affidato l'incarico di iniziare le trattative prendendo contatti col Minghetti.
Poco però può fare il C., perché muore il 21 apr. 1874 a Bologna.
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