Cavour, Camillo Benso conte di
Uomo politico (Torino 1810 - ivi 1861). Lo tenne a battesimo, per procura, e gli diede il nome, il principe Camillo Borghese, di cui suo padre era ciambellano. Ufficiale del genio a sedici anni, prestò servizio a Torino, poi a Ventimiglia, a Exilles e a Genova. Nel 1831 venne trasferito per punizione al forte di Bard per aver manifestato consenso alla rivoluzione di luglio in Francia. L’episodio lo spinse a rinunciare alla carriera militare. Smessa l’uniforme, si impegnò soprattutto come amministratore delle tenute agricole di famiglia, introducendo moderni criteri di conduzione e gestione. Fu in questo periodo che si formarono le sue convinzioni politiche: superata l’iniziale fascinazione per le idee rivoluzionarie, approdò a un liberalismo moderato e pragmatico. Lontano dai valori della democrazia ottocentesca – come la sovranità popolare e il suffragio universale – il suo pensiero politico era fondato sull’idea che l’allargamento delle basi dello Stato dovesse essere attuato con gradualità e incanalato in un sistema monarchico-costituzionale fondato sulla libertà individuale e sulla proprietà privata. Ammiratore del liberalismo britannico, condivideva con quel modello la fiducia nella libertà economica e nella capacità del liberismo di rappresentare non solo un antidoto contro il disordine sociale ma anche un potente motore di riforme e trasformazioni capaci di rendere più dinamiche e moderne l’economia e la società. Si inserì così nel movimento riformatore subalpino, al quale cooperò con iniziative dirette: promosse asili e scuole d’infanzia e fu uno dei fondatori dell’Associazione agraria. Nel 1847 diede vita al giornale moderato «Il Risorgimento», con il quale entrò di fatto nella politica attiva. Nei suoi interventi avanzò la richiesta di una costituzione, pur rivendicando – soprattutto dopo la rivoluzione parigina del 1848 – un’impostazione moderata. Sull’onda delle Cinque giornate di Milano iniziò a interessarsi alla politica estera, caldeggiando l’intervento della monarchia sabauda a favore degli insorti. Eletto deputato nel giugno 1848, si mostrò favorevole all’intervento in Toscana contro il partito rivoluzionario e contrario alla ripresa della guerra contro l’Austria. Nel 1849 sostenne il ministero d’Azeglio contro le correnti di sinistra e nel 1850 intervenne a favore delle leggi Siccardi, che abolivano i privilegi del clero cattolico. Nel 1850 entrò nel governo d’Azeglio come ministro dell’Agricoltura e commercio. Si adoperò per sviluppare l’economia piemontese e per integrarla nel più ampio contesto europeo. Mettendo in atto i propri convincimenti liberoscambisti, siglò importanti trattati commerciali con Francia, Belgio, Austria e Inghilterra e abolì gradualmente il dazio sul grano. L’anno successivo assunse anche il ministero delle Finanze. In questa veste si impegnò in particolare a svincolare il Piemonte dallo stretto legame con la Banca Rothschild, obiettivo che riuscì a centrare grazie a prestiti esteri e a nuove tasse. L’attività ministeriale non lo distoglieva dalla politica generale. Ormai sempre più critico nei confronti dell’atteggiamento moderato di d’Azeglio, nel maggio 1852 stipulò un accordo col «centro-sinistro» di Rattazzi, dando vita al cosiddetto connubio. Prese forma in quel momento il grande disegno politico che avrebbe portato al compimento dell’Unità. Dimessosi dal governo, e dopo essersi allontanato dalla scena politica con un viaggio all’estero, in novembre venne designato nuovo presidente del Consiglio. Il governo rimase in carica fino alla fine dell’aprile 1855 ma, ai primi di maggio, Cavour ebbe dal re l’incarico per la formazione di un nuovo esecutivo, che durò fino al luglio 1859. I quasi sette anni trascorsi, pressoché ininterrottamente, alla guida del governo, furono contrassegnati da un’attività intensa, accompagnata da un’incessante lotta politica su due fronti: contro i clericali e i conservatori e contro i mazziniani e i democratici più radicali. Cavour riuscì comunque ad attuare il suo programma, adottando politiche liberoscambiste, riducendo i privilegi dell’aristocrazia, riformando la legislazione sulle corporazioni religiose e sui beni ecclesiastici. In politica estera, invece, lavorò per rafforzare il legame con la Francia, in funzione antiaustriaca. Era, in quella fase, ancora lontano dal condividere l’obiettivo dell’unità nazionale: le sue speranze non andavano oltre un regno italico che, insieme col Piemonte, comprendesse il Lombardo-Veneto e i ducati, più forse qualche provincia dello Stato della Chiesa. Nel gennaio 1855 stipulò l’alleanza con la Francia e l’Inghilterra, da cui conseguì la partecipazione alla guerra di Crimea. Ne derivò, a conflitto concluso, il diritto per il Piemonte di prendere parte l’anno successivo al congresso di Parigi, durante il quale per la prima volta in sede diplomatica fu sollevata la questione italiana. Di fronte a tutta l’Europa il Piemonte si ergeva a rappresentante delle aspirazioni patriottiche dell’intera penisola, riuscendo da quel momento a esercitare una forza di attrazione su tutti i liberali. Persuaso Napoleone III che solo le armi avrebbero risolto la questione italiana, accentuò il carattere antiaustriaco della sua politica. I contenuti dell’alleanza con la Francia furono messi a punto nell’incontro di Plombières del luglio 1858, avvenuto sulla scia dell’attentato di Felice Orsini contro Napoleone III. Scoppiata la concordata guerra con l’Austria nell’aprile 1859, l’improvviso armistizio di Villafranca mise in pericolo il disegno di Cavour, che preferì dimettersi. Pochi mesi dopo, nel gennaio 1860, il re però lo richiamò al governo. Nel marzo, col consenso della Francia e dell’Inghilterra, furono annessi mediante plebiscito la Toscana e i ducati di Parma e Modena e cedute Savoia e Nizza alla Francia. A questo punto Cavour avrebbe voluto fermarsi per qualche tempo, ma il moto unitario appariva ormai non più contenibile: scelse quindi di non opporsi alla partenza dei Mille e, anzi, li fece scortare sino nelle acque della Sicilia. Dopo la liberazione di Palermo, il 6 giugno, l’impresa passò sotto la sua diretta responsabilità. Riuscì a rifornire i garibaldini di armi, uomini e denaro, e al tempo stesso bloccò a Napoli la marcia di Garibaldi, che voleva invece proseguire verso Roma, evitando in questo modo un intervento europeo. Inoltre, per non lasciarsi sfuggire la direzione del movimento nazionale, concepì e fece compiere l’invasione delle Marche e dell’Umbria in modo da bilanciare i successi garibaldini e da impedire una soluzione repubblicana dell’impresa. Effettuati i plebisciti nelle Due Sicilie, nelle Marche e in Umbria, poté trasformare giuridicamente il Regno di Sardegna in Regno d’Italia, facendo proclamare Vittorio Emanuele II re d’Italia, il 17 marzo 1861. Rimaneva irrisolta la «questione romana». Nel suo primo discorso quale presidente del Consiglio del nuovo Stato affermò che Roma sarebbe dovuta essere la capitale d’Italia. Per realizzare questo obiettivo si sarebbe dovuto impostare il rapporto tra Stato e Chiesa sulla base del principio della libertà religiosa e all’insegna della formula, da lui coniata, «libera Chiesa in libero Stato». Tra i maggiori artefici dell’Unità d’Italia, statista di dimensione europea, capace di dare una soluzione diplomatica e monarchica al Risorgimento, Cavour non poté però contribuire alla costruzione del nuovo Stato: morì infatti tre mesi dopo, il 6 giugno.