RAVERA, Camilla
RAVERA, Camilla. – Nacque ad Acqui Terme (Alessandria) il 18 giugno 1889, da Domenico e da Emilia Ferrero. Seconda di sette figli tra i quali per tutta la vita rimasero stretti i legami di affetto e solidarietà, fu profondamente influenzata dal padre, funzionario del ministero delle Finanze: uomo colto, ateo e filosocialista. La madre infuse nelle figlie aspirazioni all’indipendenza e all’emancipazione.
Dopo aver frequentato le scuole magistrali a Casale Monferrato, nel 1908 si stabili a Torino, dove era stato trasferito il padre, e dal 1909 al 1913 insegnò italiano, storia e geografia nella scuola complementare magistrale di Virle. Nel 1914, vinto il concorso magistrale e ottenuto un posto alla scuola Rayneri del capoluogo subalpino, si iscrisse alla Scuola di magistero per approfondire gli studi di letteratura e di storia. Intanto, già dal 1912 la morte del padre aveva fatto ricadere su di lei e sulla sorella maggiore Rina la responsabilità della famiglia.
Aveva 24 anni e qualche conoscenza dei fondamenti del marxismo quando, durante lo sciopero durato novanta giorni degli operai metallurgici torinesi, vide un grande corteo di lavoratori e, come avrebbe raccontato, fu «dinanzi a quella colonna di operai in lunga, unitaria e risoluta lotta» che sentì «in modo improvviso e penetrante il pensiero di Marx tradursi in realtà, diventare storia: la storia degli uomini del lavoro, viva e appassionante» (Diario di trent’anni 1913-1943, 1973, p. 9).
A simpatizzare sempre di più per il socialismo giunse per impulso dell’amatissimo fratello più giovane, Cesare, nato nel 1900, già attivo nella sezione socialista torinese dopo i moti dell’agosto del 1917, che sarebbe come lei diventato comunista e avrebbe combattuto in Spagna nelle Brigate internazionali. La guerra mondiale lasciò il segno nella famiglia Ravera: un fratello, Giuseppe, cadde sull’Asiago in quello stesso anno, un altro, Francesco, dato inizialmente per disperso, fu intossicato dai gas. Quando anche Cesare andò al fronte, nel 1918, Camilla Ravera cominciò a frequentare la sezione socialista e si iscrisse al partito, occupandosi del lavoro fra le donne. Nel dopoguerra fece parte del gruppo dell’Ordine nuovo raccolto intorno ad Antonio Gramsci e, con la scissione di Livorno, aderì al Partito comunista. Nella redazione dell’Ordine nuovo, trasformatosi con la scissione in quotidiano, si occupò soprattutto della rubrica Tribuna delle donne. Il 10 marzo 1922 vi pubblicò un articolo Il nostro femminismo, che può essere considerato «il manifesto della politica femminile comunista di quegli anni» (Gabrielli, 1999, p. 30).
Nel testo Ravera sosteneva l’aspirazione delle donne a conquistare l’indipendenza economica, senza però disconoscere «alle particolari funzioni e ai particolari uffici della donna (la maternità, la cura dei bambini e della casa) il valore di una funzione e d’una produzione sociale» (ibid.).
Alla 1a Conferenza delle donne comuniste del 25 marzo questa posizione, appoggiata da Gramsci, prevalse sulla linea più ‘femminista’ che insisteva sulla oppressione di sesso e sull’emarginazione delle donne sul piano legale.
Messasi in aspettativa dall’insegnamento, nel novembre del 1922 fu delegata del Partito comunista d’Italia (PCd’I) al 4° congresso dell’Internazionale comunista (IC): sulla via di Mosca si fermò a Berlino, dove partecipò a un incontro promosso dal Segretariato femminile internazionale per l’Europa occidentale e conobbe Clara Zetkin. Tornata a Torino, si dedicò subito alla riorganizzazione del partito, scompaginato dall’ondata di arresti seguiti alla marcia su Roma, ed entrò a far parte del comitato direttivo della federazione. Fu però presto costretta a raggiungere a Milano Umberto Terracini, che era rimasto il solo membro operativo dell’esecutivo del partito e, dopo il trasferimento di questi a Roma in seguito ai nuovi arresti del settembre del 1923, ricostituì l’ufficio di segreteria facendo la spola fra Milano e Angera sul lago Maggiore, dove si nascondevano altri dirigenti ricercati. Nel 1924 riprese l’attività all’ufficio femminile nazionale del partito e quella giornalistica, sia su l’Unità appena fondata, sia collaborando al quindicinale Compagna. Perso nel frattempo il posto di insegnante e allontanata da tutte le scuole del Regno per la sua «nefasta propaganda», affrontò da quel momento la vita di militante clandestina sotto lo pseudonimo di Silvia. Al 3° congresso del partito tenutosi a Lione nel gennaio del 1926, cui non poté partecipare, fu eletta membro del comitato centrale del partito, e mantenne il suo posto nell’esecutivo, ora denominato anche ufficio politico.
Subito dopo l’attentato a Benito Mussolini del 31 ottobre 1926, si trovò con Ruggero Grieco a fronteggiare, senza perdere il suo consueto sangue freddo, l’ondata di arresti che colpì i dirigenti del partito e gli stessi deputati, compreso Gramsci, che invano si era cercato di far espatriare, e fu lei a redigere le relazioni inviate a Palmiro Togliatti che rappresentava il partito a Mosca. Le leggi eccezionali resero sempre più problematica la sopravvivenza, seppur clandestina, dell’organizzazione comunista nel Paese. Si oppose a chi, come Angelo Tasca, riteneva sul momento inevitabile uno scioglimento del partito.
Essendo rimasta l’unica dell’ufficio politico ancora libera e presente in Italia, fu incaricata di organizzare la nuova segreteria: da questo momento il suo pseudonimo fu Micheli. Stabilitasi a Sturla, alla periferia di Genova, riorganizzò il centro interno, assumendosi la responsabilità di prendere continue decisioni, il più delle volte da sola; in questo periodo si recò anche a Parigi per stabilire un collegamento con il centro estero, ivi costituito da Togliatti.
Nel 1928 venne deciso di trasportare l’ufficio centrale all’estero, nei pressi di Lugano. Ravera fu designata alla segreteria, insieme a Togliatti e a Grieco. Ma, ammalatasi gravemente ai polmoni, non poté mantenere l’incarico. Curatasi dapprima a Engelberg, in Svizzera, si recò poi a Mosca, dove fu sottoposta a nuove cure. Rimessasi in salute, partecipò come delegata al 6° congresso dell’IC nel luglio-agosto del 1928. Declinata l’offerta di Clara Zetkin di rimanere a Mosca nel segretariato femminile internazionale, lasciò l’Unione Sovietica (URSS) per la Francia, trascorrendo un periodo di riposo a Saint-Cloud, nei sobborghi di Parigi, per riprendere poi pienamente l’attività di partito nei primi mesi del 1929, quando partecipò alle riunioni dell’ufficio politico che sancirono la condanna delle posizioni di Tasca. Di fronte alla svolta ‘a sinistra’ decisa dal X Plenum del Comintern, ritenendo che anche in Italia stessero maturando gli elementi di una crisi rivoluzionaria acuta, la maggioranza dell’ufficio politico approvò un progetto di riorganizzazione del partito che mirava a spostare nel Paese la direzione. Ravera sostenne con convinzione la svolta, e anche la decisione di espellere i tre membri dell’ufficio politico che vi si erano opposti, pure se in seguito ricorderà questa lacerazione «come uno dei momenti più pesanti e tristi della sua milizia» (Diario di trent’anni, cit., p. 488).
Si assunse il compito di ritornare lei stessa in Italia a ricostituire il centro e, nel maggio del 1930, si stabilì nei pressi di Intra, sul lago Maggiore. Ma fu arrestata in seguito a una delazione il 10 luglio 1930.
Sul suo capo pendevano già numerose condanne in contumacia. Il tribunale speciale la condannò nel novembre del 1930 a 15 anni e sei mesi di detenzione per i reati di ricostituzione del Partito comunista e di propaganda sovversiva. Dapprima fu reclusa nella casa di pena femminile di Trani dove poté condividere la cella con altre due comuniste, Felicita Ferrero e Giorgina Rossetti, con cui strinse un’amicizia che, insieme all’affettuosa sollecitudine dei suoi familiari, le alleviò la durezza della reclusione. Poté anche leggere i libri e le riviste che lei stessa ordinava. Disse poi della sua detenzione in carcere di non aver subito eccessive pressioni per partecipare alle funzioni religiose ed essere stata trattata in generale con rispetto, salvo i malevoli dispetti di una suora che, per il suo professato ateismo, la considerava «un’anima dannata» (Gobetti, 1969, p. 204). A metà novembre del 1933 fu trasferita a Perugia, in regime di segregazione cellulare come la sua condanna prevedeva e in condizioni igieniche e ambientali così gravose da sprofondarla in un forte esaurimento.
Grazie all’amnistia per il decennale e a un successivo indulto, la sua pena fu ridotta a 5 anni: nel luglio del 1935, al momento della scarcerazione, le sue condizioni di salute erano tanto precarie che, prima di essere avviata al confino, fu mandata in licenza a casa sua a Torino, dove rimase fino al novembre del 1936. Destinata per il confino a Montalbano Jonico, in provincia di Matera, luogo malarico e disadatto a una convalescenza, vi rimase per breve tempo, finché cioè le lezioni di alfabetizzazione da lei date ai pastori della zona – su richiesta peraltro del podestà del luogo – provocarono le reazioni dell’OVRA, che la fece trasferire a San Giorgio Lucano. All’inizio del luglio del 1937 fu trasferita a Ponza, e vi ritrovò numerosi compagni, tra i quali Terracini, partecipando alle discussioni politiche e culturali che, malgrado il controllo, coinvolgevano i confinati politici dell’isola.
Contrasti nel direttivo comunista del confino, in cui figuravano dirigenti autorevoli come Mauro Scoccimarro e Pietro Secchia, erano già insorti con Terracini: questi da un lato negava il carattere finale e irreversibile della crisi capitalistica del 1929, dall’altro auspicava la formazione anche in Italia di un ampio fronte popolare, e Ravera mostrò di condividere le sue posizioni. Il contrasto si riaccese quando, sciolta nel luglio del 1939 la colonia di Ponza, i confinati vennero trasferiti a Ventotene.
Allo scoppio della guerra il direttivo emanò un documento che sposava le tesi dell’Internazionale sull’equidistanza dagli imperialismi in lotta ed escludeva ogni alleanza con gli altri partiti antifascisti. Ravera di nuovo fu d’accordo con Terracini nel criticare questa posizione e nel mettere in chiaro che la vittoria del nazismo avrebbe determinato una fascistizzazione dell’Europa e un aggravamento del pericolo di un’aggressione all’URSS. Il dissenso non fece che approfondirsi, fino a che, al principio del 1943, i due dissidenti furono espulsi dal partito: una decisione di cui contestarono energicamente la legittimità.
Liberata dal confino dopo la caduta del fascismo, dopo un faticoso viaggio raggiunse Torino e quindi San Secondo di Pinerolo, dove erano sfollate le sorelle; ricercata dai fascisti dopo l’8 settembre 1943, vi rimase fino alla Liberazione, di nuovo in preda a esaurimento e con una grave forma reumatica e cardiaca. Rientrò a Torino nel maggio del 1945 dove Togliatti la abbracciò pubblicamente e, riducendo al rango di ‘fesserie’ le misure punitive cui era stata sottoposta al confino, si adoperò subito, come aveva fatto per Terracini, per farla tornare a lavorare nel partito. Lei accettò e riprese l’attività politica come membro del comitato centrale (in cui fu eletta al 5° congresso nel gennaio del 1946), della segreteria federale di Torino, del comitato direttivo nazionale dell’Unione donne italiane (UDI) e del comitato esecutivo della Federazione internazionale democratica delle donne. Consigliere comunale a Torino, venne eletta deputato, per il collegio Torino-Novara-Vercelli, nella I e nella II legislatura. Che fosse per la sua salute – certo divenuta fragile – o per gli strascichi della rottura intervenuta nel 1939, Ravera, al pari del resto di Terracini, non riprese comunque nel PCI un ruolo all’altezza delle sue qualità e dei suoi meriti di partito.
Come deputata fu cofirmataria di progetti di legge soprattutto su materie come la tutela della maternità e la parità dei diritti e delle retribuzioni tra uomo e donna. L’8 gennaio 1982 il presidente Sandro Pertini, che era stato suo compagno di confino, la nominò, prima donna nella storia della Repubblica, senatore a vita. Ma ormai molto anziana partecipò appena all’attività del Senato, del quale presiedette la seduta che ne nominò Francesco Cossiga presidente nel luglio del 1983. Morì a Roma il 14 aprile 1988.
Opere. Camilla Ravera pubblicò libri sulla condizione della donna e sulla lotta per l’emancipazione femminile (La donna italiana dal primo al Secondo Risorgimento, Roma 1955; Breve storia del movimento femminile in Italia, Roma 1978) e diede testimonianza del ruolo che aveva svolto senza alcun accenno recriminatorio o polemico (in particolare nelle sue memorie, Diario di trent’anni 1913-1943, Roma 1973).
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Casellario politico centrale, ad nomen.
P. Spriano, Storia del PCI, I-V, Torino 1967-1975, ad ind.; A. Gobetti, C. R. Vita in carcere e al confino, Parma 1969; A. Coletti, Il governo di Ventotene. Stalinismo e lotta politica tra i dirigenti del PCI al confino, Milano 1978; A. Landuyt, R. C., in F. Andreucci - T. Detti, Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, IV, Roma 1978, pp. 297-303; N. Villa, La piccola grande signora del PCI, Milano 1983; R. Palumbo, C. R. racconta, Milano 1985; G. De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Torino 1995; P. Gabrielli, Fenicotteri in volo. Donne comuniste nel ventennio fascista, Roma 1999. Una bibliografia più analitica ed esauriente in V. Santangelo, Amministratori, funzionari di partito e quadri di partito: il PCI a Torino e in provincia 1946-1970, in Alla ricerca della simmetria. Il PCI a Torino 1945-1991, a cura di B. Mayda, Torino 2004, p. 64, n. 5.