CALORIA (Calorius, Calogierus), Caio, detto Ponzio
Poche e vaghe sono le notizie sulla vita del C., di cui non si conoscono con sicurezza neanche il luogo e la data di nascita.
Sembra, tuttavia, che fosse originario di Messina, dove nel XIV sec. viveva Tommaso Caloiro, amico del Petrarca e autorevole rappresentante di una famiglia i cui membri nel XVI e XVII sec. ricoprirono alte cariche. Non è, comunque, provata l'appartenenza del C. a questa nobile casata sulla quale, per altro, non è rintracciabile alcuna notizia per il sec. XV. Anche per la data di nascita ci si deve affidare alle congetture del più autorevole studioso del C., il Rossi, che ha indicato gli anni intorno al 1460.
Nulla sappiamo della prima giovinezza del poeta, il quale dovette condurre in patria i primi studi. Sui vent'anni, come molti altri giovani siciliani, si recò nel continente per completare la propria formazione culturale: nel 1479 lo troviamo, infatti, a Padova, intento agli studi giuridici. Le notizie per questi anni sono offerte dallo stesso C., il quale sia nel poemetto In honorem Venetorum che nella Comedia tratteggia a grandi linee le sue vicende di studente e viaggiatore. A Padova si fermò fino al 1488 e, in attesa di conseguire la laurea in legge (nel 1484 "Caius Calorius Pontius Siculus iuris civilis scholaris" assisteva, in qualità di testimone, al conferimento di una laurea), prese parte alle allegre congreghe studentesche del tempo; anzi di quell'ambiente scapigliato, nel quale era conosciuto col soprannome di Ponzio, il C. fu uno dei rappresentanti più in vista, tanto da essere oggetto di alcuni epigrammi latini raccolti dal Sanuto (Venezia, Bibl. Marciana, Cod. Lat., XII210) e da essere ricordato dal Castiglione nel Cortegiano (II, 89) come autore di una burla nei confronti di un ingenuo contadino. A Padova iniziò anche la sua attività di poeta scrivendo strambotti cui affidò la fama del suo amore per una Margherita, e che godettero senza dubbio di una certa rinomanza se tra il XV ed il XVI sec. il milanese Filippo Schiafenati ne accolse uno in una sua raccolta di poesie. Completati gli studi, il C. si recò a Venezia dove, come egli stesso ricorda nelle sue poesie (Bibl. Marciana, Cod. It. IX 304, c. 35r), si fermò due anni. Introdotto dall'amico Pietro Giannetti nella migliore società, intrattenne, come egli stesso ricorda (ibid., c. 40v), rapporti d'amicizia con molte personalità, tra le quali Paolo Pisani, cui dedicò il poemetto In honorem Venetorum, e Marin Sanuto. Anche a Venezia continuò la produzione letteraria con l'opera sua più notevole, la Comedia, dove è adombrato l'amore del poeta per una certa Maria. Intorno al 1490 abbandonò il Nord e attraverso Ferrara, Bologna, Firenze, Siena, Roma, Napoli ritornò in Sicilia. Dopo questa data non possiamo seguire oltre le vicende della sua vita. Sappiamo soltanto che il suo ricordo rimase vivo negli ambienti veneziani, tanto che il Giannetti, a nome degli amici, inviò al poeta uno scherzoso epigramma (Ibid., Cod. Lat., XII210, c. 26v) per rimproverargli la pigrizia epistolare, e che il C. rispose con il poemetto In honorem Venetorum, estremo omaggio alla città che con i suoi svaghi e la sua spensieratezza aveva illuminato la parte più bella della sua giovinezza.
L'opera poetica del C. si conserva nel citato codice It. IX 304 della Biblioteca Marciana di Venezia; frammenti della Comedia si possono leggere anche nel cod. It. IX. sgo. Nel manoscritto si legge dapprima la "Comedia Caii Pontii Calogieri siculi poetae lepidissimi", la quale fu probabilmente composta dal poeta nell'ultimo periodo del suo soggiorno veneziano, poco prima di recarsi a Ferrara, da dove finge di mandarla, durante il viaggio di ritorno in Sicilia, al marchese Francesco Gonzaga. In questa dedica, anzi, si può rilevare il tentativo del poeta di trovare una decorosa sistemazione presso la corte mantovana.
La scena è posta a Venezia: Ponzio incontra una fanciulla, Maria, e se ne innamora subito, ma la donna lo respinge costringendolo a ricorrere all'aiuto dell'amico Vianello e di una vecchia compiacente, Graziosa. Maria, però, non cede e Ponzio decide di affrontare direttamente la donna amata, la quale, però, si adira e tenta addirittura di ucciderlo. La questione finisce in tribunale, dove le due parti, con vivace sfilata di testimoni, espongono le loro ragioni non risparmiandosi ingiurie di ogni genere. Il giudice, ascoltate le deposizioni, emette la sentenza che è sfavorevole a Maria, ordinando che "per lu cor robatu, o volgia o no, / lidaga lu cor so che staga in pegnu"; a questo punto, con soddisfazione generale, cala il sipario. Sono evidenti nella Comedia gli accenni autobiografici che si manifestano sia nel nome dei protagonista, Ponzio, sia in precisi riferimenti cronologici (la sentenza è emessa "Anno domini / nativitatis mille e quattro centi / e ottanta otto de zenèr currenti…") che adombrano avvenimenti realmente vissuti. Ma l'interesse principale della Comedia, la quale è polimetra, con netta prevalenza di endecasillabi rimati a due a due ad imitazione delle rappresentazioni popolaresche, consiste piuttosto nel particolare atteggiamento assunto dal C. nei confronti della contemporanea tradizione petrarchesca e dello stesso Petrarca, accusato nel prologo di oscurità. Tutti gli studiosi del C. concordano nel ritenere che il poeta (continuatore, suo malgrado, di una certa tradizione che faceva capo al cantore di Laura) volesse, con i suoi irriverenti versi, stigmatizzare più che il Petrarca le aberrazioni dei lirici contemporanei, colpevoli, a suo giudizio, di aver reso incomprensibile una letteratura che il C. voleva francamente ed apertamente popolare. A tal proposito è interessante notare come la Comedia, certamente non destinata alla rappresentazione, armonizzasse nella sua insolita forma diversi filoni letterari in seno ai quali il poeta maturò la sua personalità, a testimonianza di quelle sofferte esperienze con le quali i poeti non toscani si ingegnavano d'avvicinarsi alla lingua dei grandi trecentisti. Il C., infatti, usò un linguaggio sostanzialmente siciliano nel quale, però, si nota chiaramente il tentativo di conformare l'impasto dialettale secondo un registro illustre fortemente impregnato di toscanesimo. Il C., dunque, si pone come iniziatore di quella disputa sulla lingua siciliana che, nel Cinquecento, giunse a maturazione con l'appassionata polemica dell'Arezzo.
Un'importanza decisamente minore riveste il poemetto In honorem Venetorum, in endecasillabi rimati a due a due, composto negli anni in cui il C. si trovava già in Sicilia. Appartenente ad una ricca tradizione panegirica, tuttavia rivela, con alcune osservazioni sul dialetto veneziano, una continuità ed una preminenza di quegli interessi linguistici che, come si è visto, caratterizzano l'opera maggiore.
Bibl.: V. Rossi, Di un poeta maccheronico…, in Giorn. stor. della lett. ital., XI(1888), pp. 32 s., Id., C. C. Ponzio e la poesia volgare letteraria di Sicilia…, in Arch. stor. sicil., n.s., XVIII (1893), pp. 237-275 (poi in Scritti di crit. lett., II, Firenze 1930, pp. 417-45); V. Cian, Ricordi di storia letteraria siciliana da manoscritti veneti, Messina 1899, pp. 5-6; L. Perroni Grande, Undantofilo messinese del Quattrocento, in Eros, I (1900), nn. 8-9, pp. 144-148; V. Cian, Un medaglione del Rinascimento: Cola Bruno Messinese e le sue relazioni con P. Bembo (1480 c. 1542)…, Firenze 1901, p. 8; B. Castiglione, Illibro del Cortegiano, a cura di V. Cian, Firenze 1947, pp. 283-284; G. Santangelo, Lineamenti di storia della letteratura in Sicilia dal sec. XIII ai nostri giorni, Palermo 1952, pp. 41-42, 55.