CALORE (dal lat. calor; fr. chaleur; sp. calor; ted. Wärme: ingl. heat)
Temperatura e calore. - Il contatto con altri corpi, o la semplice presenza di questi, a distanza più o meno grande da noi, sogliono destare sulla nostra pelle delle sensazioni, che diciamo di caldo o di freddo e che hanno per causa, in quei corpi, certe condizioni particolari, che descriviamo con le medesime parole. Queste sensazioni offrono però soltanto una guida assai malsicura, non solo circa l'intensità più o meno grande di tali condizioni, ma persino circa il presupposto antagonismo di due stati differenti, che si vuole stabilire con quelle denominazioni. Infatti, anche prescindendo dalla ristrettezza dei limiti, entro cui ci è possibile, senza danno per il nostro organismo, giudicare del caldo o del freddo coi nostri sensi, un medesimo ambiente, quale l'interno di una chiesa o di un sotterraneo, ci appare, solo per le mutate condizioni esterne, caldo d'invermo, e più o meno freddo d'estate; e delle nostre mani, immerse simultaneamente in un miscuglio fatto con acqua calda e acqua fredda, dopo che una mano era stata tuffata nell'acqua calda sola e l'altra nell'acqua fredda, l'una lo giudicherà freddo, mentre l'altra lo troverà caldo. In realtà un tale antagonismo non esiste che per l'organismo vivente, fuori del quale vi sono soltanto diversi gradi di calore o delle temperature più o meno elevate, più o meno basse; fra due corpi della medesima costituzione, la temperatura più elevata l'ha quello che desta in noi più intensamente la sensazione del caldo, o meno intensamente quella del freddo. Si noti poi che se due corpi, ai quali le nostre sensazioni attribuiscono delle temperature differenti, si pongono in contatto o anche solamente in vicinanza fra loro, oppure se una simile differenza è avvertita dalle nostre sensazioni tra diverse regioni di un medesimo corpo, essa col tempo tende a sparire, innalzandosi la temperatura dove ci era apparsa più bassa, e abbassandosi dove l'avevamo trovata più elevata, sinché ovunque troviamo un medesimo grado di calore. Ciò dimostra che deve essere passata, dal corpo caldo a quello freddo, o dalle regioni più calde a quelle meno calde quando si tratta di un corpo solo, un qualche cosa che chiamiamo calore e che non deve confondersi con la temperatura; la quale ne indica soltanto il grado, o il livello più o meno elevato; alla stessa guisa come la pressione, - mentre tende ad uguagliarsi, tra due recipienti contenenti un fluido, allorché questi vengano messi in comunicazione fra di loro - è cosa diversa dalla quantità del fluido, che deve passare da uno dei recipienti all'altro affinché quell'uguaglianza si produca. Di tali vicende termiche, come fu detto, le nostre sensazioni ci avvertono in modo poco sicuro; ma l'osservazione insegna che, innalzandosi la temperatura di un corpo, i caratteri fisici di questo subiscono certe modificazioni, e che modificazioni opposte accompagnano l'abbassarsi della temperatura. Tra queste modificazioni, che sono suscettibili di determinazione quantitativa, la più generale è la variazione delle dimensioni e del volume; si dilatano, con l'innalzarsi della temperatura, tanto i solidi ed i liquidi, quanto i gas. Gli uni come gli altri quindi possono fornire il mezzo, e infatti sono adoperati, per il confronto e la misura delle temperature; ma la dilatazione dei gas, assai più forte di quella dei solidi e dei liquidi, e notata perciò per prima sull'aria, ha dato luogo alla costruzione dei primi termoscopî e termometri, cioè di strumenti adatti, gli uni a far valutare approssimativamente, gli altri a individuare con precisione e a confrontare fra di loro le temperature dei corpi.
Il primo a osservare che l'aria riscaldandosi aumenta di volume e raffreddandosi si contrae, pare sia stato l'alessandrino Erone, di cui abbiamo la descrizione di un meccanismo destinato ad aprire ed a chiudere, con l'aiuto di questo fenomeno, i battenti di una porta; e ad Erone probabilmente si sono ispirati tanto l'olandese Cornelio Drebbel (1572-1634), al quale soleva attribuirsi l'invenzione del termometro ad aria, perché nel suo trattato Della natura degli elementi (1608) egli descrive un apparecchio costituito da una storta da cui, quando vien riscaldata, escono delle bolle d'aria per l'orifizio immerso nell'acqua, la quale penetra poi nel collo della storta allorché questa si raffredda; quanto il napoletano Giambattista Della Porta (v.), il quale sin dal 1601 aveva descritto un apparecchio simile, e inoltre aveva notato gli spostamenti che subiva il livello dell'acqua nel collo dello strumento, a seconda che questo si riscaldava oppure si lasciava raffreddare. Né l'uno né l'altro però sembrano aver riconosciuto il vero significato e l'importanza dell'esperimento, descritto come mera curiosità. È dubbio a chi spetti la priorità della costruzione di un vero termometro ad aria ma certamente si tratta di un frutto dello spirito scientifico italiano. I discepoli di Galileo, e specialmente il suo biografo Viviani, la rivendicano al loro maestro, il quale secondo il Viviani tra il 1593 e il 1597, secondo il Castelli nel 1603, avrebbe adoperato un tale strumento per misurare il calore. Ma di Galileo stesso l'unico documento in proposito è una lettera del 1626, nella quale egli dice di aver fatto l'esperienza dell'ampolla vent'anni addietro, cioè nel 1606; con quell'esperienza però semplicemente si constatavano gli spostamenti, che subiva lo specchio dell'acqua nel collo dell'ampolla in relazione con le vicende termiche esterne, e non vi era nessun accenno ad eventuali usi del fenomeno per scopi scientifici e pratici. La trasformazione dei termoscopî, italiani o no, che sin qui soli abbiamo conosciuti, nel termometro, fu compiuta dal medico veneziano Santorre Santorio, il quale nei suoi Commentari sull'arte medicinale di Galeno (1612) parla di un suo strumento, con cui si misura "la temperatura fredda e calda" dell'aria e delle varie parti del corpo umano. Questo strumento (fig. 1), soltanto in un'altra opera dello stesso Santorio del 1625, è chiamato, con evidente allusione all'esperienza di Erone, antichissimo; ma a guardarne l'immagine, a leggerne la descrizione, gli usi varî e le forme differenti a seconda di tali usi, l'originalità del Santorio riesce ovvia. Il nome di termometro, generalizzatosi poi a qualsiasi strumento destinato alla misura delle temperature, si riscontra per la prima volta negli autori che parlano dell'invenzione santoriana, ma non pare del Santorio medesimo; invece la parola temperatura, che egli usa già nella prima sua pubblicazione, pare dovuta a lui stesso.
I termometri ad aria, nella forma primitiva qui descritta, avevano il grave difetto (del quale fu riconosciuta la causa soltanto in seguito alla celebre esperienza del Torricelli), che l'acqua si sposta nella canna non soltanto per effetto di variazioni di temperatura, ma altresì in conformità con le vicende della pressione atmosferica e quindi davano intorno alla prima soltanto indicazioni assai incerte. D'altra parte non si tardò a constatare che anche i liquidi, e persino i solidi, riscaldati aumentano di volume; onde si pensò di ricorrere anche a questi fenomeni per scopi termometrici. La prima costruzione di un termometro ad acqua pare dovuta ad un medico francese, J. Rey, il quale, in una lettera al padre Mersenne (1631), descrive uno strumento di questo genere costituito da una piccola ampolla di vetro sormontata da un cannello stretto e riempita d'acqua sino in quest'ultimo; e, dieci anni più tardi, alcuni strumenti simili, ma contenenti dell'alcool in luogo dell'acqua, e con una scala ad intervalli uguali marcati da granellini di smalto colorato fusi sulla canna, comparivano a Firenze. Questi strumenti, attribuiti al granduca Ferdinando II di Toscana, ma forse dovuti al Torricelli, in poco tempo si resero noti ovunque col nome di termometri fiorentini (fig. 2). Essi rappresentavano un notevole progresso, sia per l'impiego dell'alcool più dilatabile dell'acqua e la cui quantità era regolata in maniera che la sua superficie nella canna arrivava a 20° della scala allorché lo strumento si immergeva nella neve, a 80° quando veniva esposto d'estate ai raggi del sole, sia anche per il fatto che la canna era chiusa in alto, assicurando in tal modo l'invariabilità della quantità di liquido contenuta nello strumento.
All'alcool e all'acqua venne poi sostituito ed è rimasto in uso definitivamente, come liquido termometrico, il mercurio che avevano già esperimentato gli accademici del Cimento e di cui deve essersi servito l'olandese Huyghens, avendo egli osservato (1665) che l'acqua bolle sempre a una medesima temperatura. La costanza della temperatura di fusione del ghiaccio era nota anch'essa; e queste due temperature furono proposte da Renaldini (1694), ed ebbero l'adozione definitiva, come temperature fisse o punti fissi della scala termometrica, dopo che l'adozione di determinate temperature di riferimento era stata riconosciuta come necessaria affinché le indicazioni di diversi termometri riuscissero tra loro paragonabili. La divisione in gradi dell'intervallo tra i punti fissi, e la numerazione relativa ha dato origine a diverse scale termometriche, fra le quali la scienza ha prescelto, e la maggioranza degli stati ha adottato, la scala centigrada (o di Celsius, v.), in cui il punto di fusione del ghiaccio costituisce lo zero e la temperatura alla quale l'acqua bolle sotto la pressione normale ha il numero 100, mentre per temperature superiori o inferiori a quei limiti la scala prosegue ad intervalli uguali, con numerazione crescente al di là del 100 e con numeri negativi sotto lo zero. Nei paesi di lingua inglese invece si è mantenuta la scala del tedesco Fahrenheit, la quale divide in 180° il predetto intervallo e dà il numero 32 al punto di fusione del ghiaccio e quindi 212 a quello d'ebollizione dell'acqua.
Ricordiamo peraltro, che le scale termometriche così stabilite sono puramente convenzionali e legate alla scelta, non solo del liquido, ma anche del materiale che costituisce il bulbo. Infatti, ciò che si osserva nel termometro è la dilatazione apparente del liquido, ossia la differenza tra le variazioni che subiscono, per un dato innalzamento o abbassamento dello stato termico, il volume del liquido e la capacità del bulbo; e non è punto sicuro, e neppure probabile a priori, che le due variazioni vadano di pari passo e con un medesimo rapporto per diversi materiali del bulbo. Al contrario, segnando su un sistema di assi i volumi di una sostanza appartenenti a diverse temperature come ascisse, quelli corrispondenti di un'altra sostanza come ordinate, e congiungendo fra loro le estremità di queste ultime, si ottiene, come hanno mostrato Dulong e Petit, non già una linea retta, ma una curva, diversa per di più a seconda delle sostanze scelte; il che dimostra appunto, che uguali variazioni dello stato termico non dànno luogo, per diverse sostanze, a variazioni tra loro proporzionali nei volumi di queste sostanze. Le indicazioni date, per un medesimo stato termico, da diversi termometri a mercurio, le cui scale sono costruite secondo i principî esposti, presenteranno quindi, se gli strumenti sono fatti con vetro di qualità differenti, differenze più o meno sensibili.
Dal canto suo, l'impiego dell'aria (o di un altro gas) come sostanza termometrica è stato posto su basi nuove, e più sicure, da Guillaume Amontons (1663-1705), il quale riferisce gli stati termici non già ai volumi di una massa gassosa, ma alle pressioni che esercita quella massa allorché, variando la temperatura, se ne mantiene costante il volume. Sotto questa forma, il termometro ad aria (idrogeno, elio) è diventato lo strumento normale, le cui indicazioni costituiscono il termine di paragone e di controllo per quelle degli altri strumenti. Siffatta preferenza, che si raccomandava per l'ampiezza dell'intervallo delle temperature accessibili allo strumento in questione e per la forte dilatabilità dei gas (che è 20 volte maggiore di quella del mercurio e accanto alla quale quindi diventano quasi trascurabili le variazioni di capacità del bulbo), appariva, in vista del comportamento identico dei varî gas di fronte a variazioni del loro stato termico, come rispondente alla natura intima dei fenomeni del calore. In realtà è puramente convenzionale anche la scala del termometro a gas, ma le ricerche ulteriori hanno rivelato la sua coincidenza, perfetta o quasi, con un'altra scala delle temperature, che è basata su concetti teorici intorno alle relazioni tra calore e lavoro e che, essendo indipendente dal comportamento di un materiale particolare, a giusto titolo può dirsi assoluta.
Calorimetria e calore specifico. - Accanto alla nozione di temperatura cominciò (sec. XVIII) a prendere consistenza il concetto della quantità di calore. Circa la metà di quel secolo Georg Wilhelm Richmann (1711-1753) mostrò che, mescolando a una massa m1 avente (così egli si esprime) il calore u1 una massa m2 avente il calore u2, il calore u della mescolanza risponde alla formula
ossia
La formula, sebbene nelle idee del suo autore i concetti di calore e di temperatura ancora non si siano differenziati, corrisponde ai fatti, qualora con le u si intendano le temperature, e le due masse siano della medesima natura; invece essa fallisce per le mescolanze di materie differenti. La causa del disaccordo venne chiarita nel principio del secolo scorso da J. Black (v.), che per primo fece una netta distinzione tra la quantità di calore raccolta in un corpo e quella che egli chiama la forza interna di questo calore, vale a dire la temperatura. Agitando assieme, p. es., volumi uguali di acqua e mercurio aventi rispettivamente le temperature di 40° e 60°, la temperatura finale, comune all'una e all'altro, risulta, secondo Black, di 45° anziché di 50° come si troverebbe, con le medesime temperature iniziali, per volumi uguali di acqua; e poiché, in quest'esperienza, la quantità di calore guadagnata dall'acqua deve essere quella medesima che ha perduta il mercurio, il Black conchiude che "una data quantità di materia del calore esplica una maggior forza a riscaldare il mercurio che non un'uguale misura d'acqua; ossia che il mercurio ha una minore capacità per il calore che non l'acqua e quindi richiede una minore quantità di calore che quest'ultima per riscaldarsi di uno stesso numero di gradi". Similmente il fatto, che una massa di ghiaccio di temperatura inferiore a 0°, esposta a un ambiente caldo, non si fonde immediatamente dopo che la sua temperatura è arrivata a 0°, ma richiede all'uopo un tempo più o meno lungo a seconda che la massa è più o meno grande, insieme con l'altro fatto che durante questo tempo la temperatura rimane costante, significa, per lo scienziato inglese, che una certa quantità di calore è impegnata in quel processo. Ad analoga conclusione egli arriva anche circa il passaggio dell'acqua allo stato di vapore mediante l'ebollizione, passaggio che si compie a temperatura costante malgrado il continuo riscaldamento richiesto.
Ciò che Black aveva osservato sull'acqua, si trovò poi confermato per i cambiamenti di stato d'aggregazione di tutte le sostanze; sempre il passaggio dallo stato solido allo stato liquido, come pure dallo stato liquido a quello aeriforme, è accompagnato dalla scomparsa di una certa quantità di calore, il calore latente di fusione o di vaporizzazione, quantità caratteristica per la sostanza in questione e che nel ritorno allo stato solido o liquido ridiventa libera, come calore di solidificazione o di liquefazione. Questi fenomeni, mentre fecero precisare il concetto, sino allora rimasto incerto, della quantità di calore, resero pure necessaria l'adozione di una unità, definita con precisione, in ragione della quale si avessero da esprimere numericamente le quantità di calore, qualunque ne fosse l'origine e il processo in cui esse fossero implicate. Si partì all'uopo dall'equazione (1), la quale si può anche scrivere m1 ϑ1 = m2 ϑ2, qualora con ϑ1 e ϑ2 s'intendano l'innalzamento e l'abbassamento, cioè le variazioni che subiscono le temperature delle masse d'acqua mescolandole assieme. Sotto questa forma, l'equazione dice che il prodotto della massa d'acqua per la variazione che subisce la sua temperatura è uguale, in valore assoluto, per le due masse, ossia costituisce, riguardo al processo di mescolanza, ciò che in matematica si dice un invariante; questo invariante evidentemente è la quantità di calore ceduta dall'una delle masse e accolta dall'altra. Ammesso ciò, e ponendo m1 = 1, ϑ1 = 1, oppure m2 = 1, ϑ2 = 1, i due prodotti diventano = 1, ossia rappresentano ciascuno l'unità della quantità di calore, la quale quindi è definita come la quantità di calore che l'unità di massa di una sostanza richiede, affinché la sua temperatura s'innalzi di un grado della scala centigrada oggi universalmente adottata, e che la stessa massa cede raffreddandosi di un grado. E poiché, come già aveva constatato il Black, uguali masse di sostanze differenti richiedono, per uguali variazioni di temperatura, quantità di calore anch'esse differenti, bisogna riferire quella definizione a una determinata sostanza. Fu scelta l'acqua; e poiché, come fu dimostrato in seguito, anche per una stessa sostanza la quantità di calore necessaria perché la sua temperatura s'innalzi di un grado può variare lievemente con la temperatura da cui si parte, si dovette precisare anche questa; e fu adottata come unità della quantità di calore, e chiamata caloria (grande o piccola, caloria-kilogrammo o caloria-grammo, simbolo Cal o cal, a seconda che l'unità di massa è il kg. o il g.), quella quantità di calore che porta la temperatura dell'unità di massa d'acqua da 14°,5 a 15°,5. Questa unità ha valore legale.
Si dice calore specifico (simbolo c) di una sostanza la quantità di calore che l'unità di massa di questa sostanza richiede affinché la sua temperatura s'innalzi di un grado, o che essa cede raffreddandosi di un grado; oppure, con maggior precisione, giacché questa quantità, come per l'acqua così anche per le altre sostanze, può variare con la temperatura, è detto calore specifico a una data temperatura t il rapporto dQ/dt fra una piccola quantità di calore comunicata all'unità di massa di una sostanza avente la temperatura t e l'innalzamento che questa ne riceve. È detta invece calore specifico medio tra 0° e 100° la centesima parte della quantità di calore richiesta per portare da 0° a 100° la temperatura dell'unità di massa della sostanza in questione; e questa definizione, la quale si appoggia, più direttamente che non le altre, sulle possibilità pratiche dei procedimenti di misura, effettivamente dà valori pochissimo differenti da quelli della definizione rigorosa. Infine, si dice capacità calorifica di una massa m la quantità di calore, espressa dal prodotto m•c della massa per il calore specifico della sostanza, che essa richiede per riscaldarsi di un grado, e che cede raffreddandosi di un grado.
Per la determinazione dei calori specifici, e, in genere, per la misura delle quantità di calore, furono creati apparecchi speciali, detti calorimetri. Tiene il primo posto fra i metodi calorimetrici, per la varietà degli usi che consente, il metodo delle mescolanze, che si pratica mediante il calorimetro a mescolanza, detto anche calorimetro ad acqua, perché il liquido in esso adoperato comunemente è l'acqua. Lo strumento è costituito da un recipiente di sottile lamiera metallica, per lo più d'ottone, contenente dell'acqua, nella quale è immerso un termometro; e la determinazione di un calore specifico si fa introducendo in quest'acqua, di cui prima si era letta la temperatura, una quantità pesata della sostanza in questione (eventualmente racchiusa in un cestello di rete metallica) già riscaldata a una temperatura conveniente. La sostanza, raffreddandosi, cede calore all'acqua che per conseguenza si riscalda; e ciò dura sinché fra l'acqua e la sostanza introdottavi si è stabilita l'uguaglianza delle temperature, la quale si manifesta per il fatto che il menisco del mercurio nella capillare termometrica, mentre sino allora era salito, diventa (salvo quanto in proposito si dirà in appresso) stazionario. Sia ϑ questa temperatura finale; e siano t e T le temperature iniziali, A ed M le masse dell'acqua e della sostanza studiata, c il calore specifico di quest'ultima; allora la sostanza, con l'abbassamento di temperatura da T0 a ϑ0, ha ceduto Mc (T - ϑ) calorie, mentre l'acqua, che si è riscaldata da t° a ϑ0, ne ha ricevuto A (ϑ − t); e l'uguaglianza tra le due quantità di calore
fornisce
La fig. 3 rappresenta in sezione il calorimetro ad acqua del Berthelot.
Altri procedimenti calorimetrici si giovano della fusione del ghiaccio, la quale, come per primo aveva osservato il Black, richiede, per ogni unità di massa di ghiaccio, avente la temperatura di 0° e trasformata in acqua della stessa temperatura, una certa quantità di calore, il cosiddetto calore di fusione del ghiaccio, che da misure precise è poi risultato di 79,7 cal per grammo. Ponendo quindi in contatto con ghiaccio a 0° un corpo previamente riscaldato, questo, mentre si raffredda a 0°, fonderà del ghiaccio, ossia darà luogo alla formazione di acqua liquida; e se m è la massa di questa, M la massa del corpo in esperimento, c il suo calore specifico e t la sua temperatura nel momento in cui lo si è messo in contatto col ghiaccio, il bilancio delle calorie cedute da quel corpo e delle calorie consumate nella fusione del ghiaccio si esprime mediante l'equazione:
da cui risulta
Occorre, naturalmente, che alla fusione del ghiaccio non contribuisca altro calore all'infuori di quello ceduto dal corpo studiato. A tale scopo, il calorimetro di Black era formato da un blocco di ghiaccio nella faccia superiore del quale era praticata una cavità, che si chiudeva con una lastra anch'essa di ghiaccio, realizzando così un ambiente nel quale non poteva penetrare del calore dall'esterno. In questo ambiente, alzandone per un momento il coperchio, s'introduceva il corpo da studiare, previamente riscaldato, e mediante una spugna se ne estraeva poi l'acqua formatasi. All'apparecchio, alquanto primitivo, dello scienziato inglese, Lavoisier e Laplace sostituirono un recipiente a doppia parete, la cui intercapedine era riempita di pezzetti di ghiaccio per impedire che del calore penetrasse dall'ambiente nello spazio interno, il quale, contenente un cestello e pieno di ghiaccio anch'esso, costituiva il calorimetro vero e proprio (fig. 4).
Nell'uno come nell'altro modo di procedere però non tutta l'acqua formatasi nel calorimetro poteva essere raccolta e misurata, una parte rimanendo necessariamente aderente al ghiaccio; e l'impossibilità di valutarla costituiva una causa d'incertezza nelle misure. Questa incertezza fu eliminata da Bunsen il quale, alla determinazione diretta della quantità d'acqua formata, sostituì la misura della variazione di volume, che accompagna la fusione del ghiaccio. Il fatto, a tutti noto, che il ghiaccio galleggia sull'acqua, significa che il primo ha un peso specifico minore, o un volume specifico maggiore, dell'acqua; un g. di ghiaccio alla temperatura di 0° occupa un volume di 1,0908 cmc., 1 g. di acqua alla stessa temperatura soltanto 1,0001 cmc.; la fusione di 1 g. di ghiaccio, che consuma 79,7 cal, è dunque accompagnata da una diminuzione di volume di 0,0907 cmc., ossia ciascuna caloria consumata a fondere del ghiaccio comporta una diminuzione di volume di cmc. 0,001138 = 1,138 mmc. Nel calorimetro di Bunsen, la misura di questa piccola variazione di volume e con essa la determinazione precisa di quantità di calore mediante le quantità di ghiaccio che esse fondono, è stata resa possibile in modo assai ingegnoso (fig. 5).
Per misurare i calori specifici, specialmente a temperature molto basse, il Nernst dà alla sostanza da studiare la forma di un blocco massiccio, oppure, se è un liquido, la introduce in un recipiente di lamiera d'argento. L'uno come l'altro si colloca entro uno spazio, che viene evacuato con la massima cura, per ridurre al minimo possibile le perdite di calore per irraggiamento o per convezione, e che è circondato da aria liquida; il blocco o il liquido nasconde un sottile filo di platino isolato. Per il tramite di questo, la sostanza si riscalda mediante una corrente elettrica; il calore, che la corrente produce nel filo, è = 0,2390 E i τ cal, essendo i l'intensità della corrente espressa in ampère, E la tensione ai capi del filo espressa in volta, τ il tempo in secondi, durante il quale ha agito la corrente. D'altra parte, nota che sia la variazione della resistenza del filo con la temperatura, la misura di questa resistenza fatta prima dell'introduzione della corrente e subito dopo la sua interruzione dà l'innalzamento di temperatura t causato dalla corrente stessa; per cui, essendo M la massa della sostanza studiata, l'equazione:
fornisce il calore specifico c.
La tabella seguente raccoglie i valori dei calori specifici a 18°, che coi metodi descritti furono trovati per un certo numero di metalli:
Le ultime due colonne contengono il peso atomico a del metallo e il valore del prodotto di questo per il rispettivo calore specifico (c•a). Vi si nota una legge, che fu scoperta da Dulong e Petit (1819); secondo questi autori il calore specifico dei corpi semplici, allo stato solido, sarebbe inversamente proporzionale al loro peso atomico: ossia il prodotto fra l'uno e l'altro sarebbe una costante, approssimativamente = 6,4, detta calore atomico. Questa legge però, come risulta dallo specchietto seguente, tolto in massima parte dalle determinazioni di H. F. Weber (1880), va incontro a forti eccezioni, a temperatpre ordinarie o elevate, per alcuni elementi solidi non metallici e viene a mancare completamente, come hanno dimostrato le ricerche fatte coi mezzi frigoriferi odierni, a temperature molto basse. Così, alla temperatura dell'idrogeno liquido in ebollizione (− 250°), il calore specifico del rame è soltanto 1/25 di quello che è a temperature ordinarie; quello del diamante è già a −230° così piccolo da non potersi misurare.
Si ritornerà su questi fatti.
Il calore specifico dei liquidi è generalmente superiore a quello dei solidi e cresce con la temperatura più rapidamente di questo. Più elevato di tutti è il calore specifico dell'acqua il cui valore fu preso come unità, cosicché tutti gli altri calori specifici sono espressi da frazioni proprie. Per sostanze suscettibili dello stato solido e di quello liquido, il calore specifico spettante a quest'ultimo è generalmente superiore, e di molto, a quello che ha la medesima sostanza quando è solida. È notevole il caso del ghiaccio, il cui calore specifico a 0° è = 0,503, cioè appena superiore alla metà di quello dell'acqua.
In via generale, il calore comunicato ad un corpo non si estrinseca tutto nell'innalzarne la temperatura, ma in parte (v. termodinamica) fornisce il lavoro richiesto, nella dilatazione che di solito accompagna l'innalzamento di temperatura, a vincere la pressione cui è soggetto il corpo e che ne contrasta la dilatazione. Viceversa, anche il calore che il corpo restituisce mentre si raffredda, in parte proviene dal lavoro, che in questo caso è eseguito dalle forze esterne. Nei solidi e nei liquidi, però, le variazioni di volume causate da variazioni di temperatura sono così piccole che non si commette un errore sensibile trascurando, come infatti tacitamente si usa, la parte del bilancio termico che ad esse spetta. Non è così invece per i gas, nei quali le variazioni di volume, se non si provvede a controbilanciarle, o totalmente o in parte, mediante congrue variazioni della pressione, sono assai forti (più di ⅓ del volume iniziale per un innalzamento di temperatura da 0° a 100°); e importa quindi, per escludere degli equivoci intorno a ciò che si dice calore specifico di un gas, di precisare le condizioni sotto le quali la variazione di temperatura del gas si vuole effettuata. È sufficiente tuttavia di scegliere all'uopo, tra l'infinità delle condizioni possibili e immaginabili, le due estreme e più semplici: s'intende, cioè, che il gas sia sottoposto a una pressione costante, mentre viene riscaldato o raffreddato, e quindi si dilati contro tale pressione oppure si contragga sotto di essa; oppure che con opportuna variazione della pressione esterna, venga mantenuto costante il volume occupato dalla massa gassosa durante l'innalzamento o lo abbassamento della temperatura. La quantità di calore, che nel primo caso l'unità di massa di un gas richiede per riscaldarsi di 1°, o che cede raffreddandosi di 1°, si dice il suo calore specifico a pressione costante (simbolo cp), mentre nel secondo caso si parla di calore specifico a volume costante (simbolo cv). È ovvio senz'altro, in conseguenza di quanto fu detto innanzi, che cp deve essere, per un medesimo gas, maggiore di cv; e di ciò l'esperienza ha dato piena conferma.
Per determinare il calore specifico a pressione costante, si fa passare il gas, prima attraverso un serpentino circondato da un bagno caldo, poi attraverso un altro serpentino immerso in un calorimetro ad acqua. Il gas deve muoversi abbastanza lentamente, affinché nell'uscire dal primo serpentino esso abbia sicuramente assunto la temperatura del bagno caldo e nell'abbandonare il secondo serpentino esso abbia la temperatura indicata dal termometro, immerso nel calorimetro. Del calore attinto al bagno caldo il gas ha allora ceduto al calorimetro una quantità espressa dal prodotto fra la sua massa, il suo calore specifico e la differenza fra la temperatura del bagno e quella finale del calorimetro. Dal canto suo, il calore ricevuto da quest'ultimo è espresso dal prodotto fra la massa d'acqua (accresciuta del valore in acqua delle parti solide dello strumento) e l'innalzamento di temperatura segnato dal termometro calorimetrico; l'uguaglianza tra le due quantità di calore fornisce il calore specifico ricercato.
Irta di difficoltà sperimentali ancora più gravi si presenta la determinazione del calore specifico a volume costante. Infatti, laddove per avere l'altro si può far passare per i due serpentini una massa di gas abbastanza grande, oppure si può far circolare per l'apparecchio una data massa gassosa un numero sufficiente di volte, perché nel calorimetro ne risulti un innalzamento di temperatura suscettibile di misurazione precisa, la misura del calore specifico a volume costante richiede che il gas sia rinchiuso entro un recipiente; e allora questo, con la sua massa assai più grande, porta nel calorimetro una quantità di calore tanto superiore a quella introdottavi dal suo contenuto, da rendere incerta la valutazione di quest'ultima quantità. Cionondimeno, il procedimento è stato eseguito in condizioni tali da garantirne la precisione; già prima però, il Francese Clément-Desormes (1819), con un procedimento ingegnoso e semplice, aveva determinato il rapporto cp/cv fra i due calori specifici.
Ecco quale era il loro procedimento. Dopo avere compresso leggermente entro un pallone di vetro una massa d'aria e aspettato che il calore generato dalla compressione si fosse perduto nell'ambiente, si leggeva, sopra un manometro congiunto all'apparecchio, l'eccedenza h1 della pressione interna su quella esterna indicata dal barometro. Per un istante si apriva poi il rubinetto che chiudeva il pallone. L'aria contenutavi si espandeva, sinché la sua pressione era diventata uguale a quella esterna; ma l'espansione essendo accompagnata da un abbassamento di temperatura, il ritorno alla temperatura dell'ambiente, che avveniva dopo la chiusura del pallone, vi determinava un aumento h2 della pressione, rispetto a quella esterna. L'analisi del fenomeno insegna, che fra i due calori specifici e le variazioni h1 e h2 della pressione, dalle quali erano seguite le operazioni descritte, sussiste la relazione cp/cv = h1/(h1−h2); e non occorrono quindi che le misure indicate, perché si venga alla cognizione del rapporto κ = cp/cv. La difficoltà sperimentale deriva dalla condizione, richiesta dalla teoria del procedimento, che l'espansione dell'aria sia rigorosamente adiabatica, vale a dire avvenga senza scambio di calore coll'esterno. Per soddisfare a questa condizione, importa operare con variazioni di pressioni lievi e occorre, per misurarle, un manometro rapido e sensibile. Si comprende quindi che le prime misure, essendo state eseguite con mezzi inadeguati, abbiano dato risultati poco precisi e che numeri esatti si siano ottenuti soltanto in seguito a ulteriori perfezionamenti del metodo.
Un'altra via per arrivare alla conoscenza del rapporto x si offre nella misura della velocità con cui, nel gas per il quale si vuole conoscere quel rapporto, si propaga il suono. Secondo le idee di Newton, questa velocità sarebbe legata al rapporto tra la pressione e la densità del gas mediante la formula
secondo Laplace, la formula è invece
perché l'alternarsi tra compressione e rarefazione, nel quale consistono le onde sonore in un gas, si compie con tale rapidità da escludere la neutralizzazione reciproca fra gli innalzamenti e gli abbassamenti di temperatura prodotti dalla compressione e rarefazione. Si tratta, cioè, di un processo adiabatico; e il confronto fra le velocità misurate, le quali debbono corrispondere alla formula di Laplace, e quelle calcolate in base alla formula di Newton fornisce dunque il valore di κ per il gas in questione.
Nella seguente tabella sono raccolti i valori di cp e di κ per alcuni gas. Si tornera sul significato teorico di queste cifre.
Sorgenti di calore. - Sono accompagnati da produzione di calore molti processi fisici, quali la solidificazione di una sostanza fusa, o la cristallizzazione di un solido disciolto in un solvente, la liquefazione di un vapore, certe trasformazioni polimorfe, vale a dire passaggi di una sostanza cristallina in un'altra forma dotata di proprietà fisiche differenti, ecc.; ma questi processi non sono, in un certo senso, delle sorgenti di calore vere e proprie, in quanto non rappresentano che la restituzione, come calore di solidificazione, di liquefazione, ecc., di quantità uguali di calore che prima erano state assorbite in processi opposti, come calore latente di fusione, di vaporizzazione, ecc. È invece sorgente di calore l'attrito, per opera del quale l'energia cinetica di un corpo in moto relativo rispetto a un altro scompare per convertirsi, come si vedrà in seguito, in energia di movimenti molecolari; e mentre da una parte l'attrito, e lo sviluppo di calore che ne deriva, si combatte con l'uso di lubrificanti, d'altra parte il medesimo processo costituisce ancora per noi, come già lo era stato per l'uomo primitivo, il mezzo per creare il fuoco. Si trasforma in calore l'energia della corrente elettrica per effetto della resistenza dei conduttori che la guidano; e qui pure, mentre si cerca di ridurre al minimo possibile, con l'abbassare la resistenza di quei tratti di un impianto elettrico che servono solamente a portare la corrente al luogo di consumo, la quantità di energia in essi consumata, in altri tratti invece con apposita resistenza si determina la produzione di calore quando con questo calore si vuole ottenere la luce o lo si vuole utilizzare direttamente per scopi domestici o industriali. Sono accompagnate da sviluppo di calore moltissime reazioni chimiche, dette perciò esotermiche, che una volta iniziate procedono spontaneamente, ma ce ne sono anche altre, chiamate endotermiche, che consumando calore abbassano la temperatura e per procedere hanno bisogno di essere alimentate mediante somministrazione di calore. E vi sono infine dei casi nei quali, a certe temperature, un sistema di sostanze passa da una condizione A ad una condizione B, mentre ad altre temperature il passaggio s'inverte; e si trova allora che, se il passaggio nel primo senso dà luogo alla produzione di una certa quantità di calore, il passaggio opposto assorbe o richiede una quantità di calore uguale. Si dice effetto termico (positivo o negativo) o tonalità di un processo, la quantità di calore, riferita a determinate quantità relative delle sostanze impegnate, che esso svolge e assorbe. Appartiene alla termochimica lo studio delle modalità termiche dei processi chimici in genere; cadono sotto l'argomento qui trattato soltanto le reazioni esotermiche, quali, per es., la formazione del solfuro ferroso o del gas cloridrico dai rispettivi elementi a norma delle equazioni
i quali processi generano rispettivamente 23.800 cal per grammoatomo, 47.300 cal per grammo-molecola delle sostanze impegnate; e fra le reazioni esotermiche primeggia per importanza la combustione, la quale fornisce la quasi totalità del calore prodotto artificialmente. Il calore di combustione, e cioè la quantità di calore, espressa in calorie grandi o piccole, che è generata dalla ossidazione completa, vale a dire dalla trasformazione in anidride carbonica e vapore acqueo, del carbonio e dell'idrogeno delle sostanze organiche, si usa determinare mediante la bomba calorimetrica di Berthelot. È un recipiente d'acciaio rivestito internamente di platino o di smalto nel quale, entro un'atmosfera di ossigeno fortemente compresso, si compie la combustione del materiale da esaminare, che si accende mediante un filo metallico arroventato da una corrente elettrica. Poiché la combustione, in questo apparecchio, avviene a volume costante, manca quel lavoro esterno che, come vedremo, accompagnerebbe l'espansione dei prodotti della combustione; e l'energia liberata dal processo diventa tutta calore, misurabile con il calorimetro, in cui la bomba è immersa.
La determinazione dei calori di combustione apre anche una via per la quale si giunge a conoscere il calore di formazione di un composto, vale a dire l'energia potenziale chimica che scompare convertendosi in calore quando un composto si forma dai suoi elementi. Basta infatti, siccome l'effetto termico di una reazione non è altro che la differenza fra i calori di formazione delle sostanze che nascono e di quelle che scompaiono nella reazione, sottrarre dai calori di combustione dei grammi-atomo, per es. del carbonio e dell'idrogeno, del grammo-molecola di una sostanza organica, il calore sviluppato, a norma delle misure calorimetriche, dalla combustione del grammo-molecola della sostanza stessa, perché si abbia il calore di formazione di quest'ultima. Così, bruciando dell'alcool etilico (C2H6O) si ottengono 340 cal per grammo-molecola, mentre la combustione degli elementi liberi darebbe, giusta la tabella qui sotto riportata, 392 cal; la differenza di 52 cal rappresenta quindi il calore di formazione del composto. Ecco infatti i calori di combustione Q, in cal per g., di alcuni elementi:
Per l'economia domestica e industriale è d'interesse il calore di combustione dei combustibili. Si contano (in cifra tonda, variabile col tipo del materiale) circa 8000 cal per 1 kg. di carbon fossile, 7000 per il coke, 6000 per lignite di buona qualità, 11000 per il petrolio. Da questi numeri va bensì sottratto, per l'uso pratico, l'equivalente termico del lavoro esterno, di cui si dirà poi; ma un computo approssimativo fatto in proposito dimostra che si tratta di così poca cosa, da non alterare sensibilmente i valori riportati.
Natura del calore. - Due opinioni si contendevano il campo, già presso i filosofi antichi, intorno alla natura del calore. Per gli uni esso era una materia, per gli altri un moto. La prima opinione, la quale nel sec. XVII venne modificata e precisata nel senso che il calore sarebbe, non già una materia di quelle comuni, ma un fluido imponderabile, cioè una sostanza tenue e priva di peso, trovava conforto, anche quantitativo, nelle variazioni opposte di temperatura, alle quali dà luogo il contatto fra corpi di temperatura differente, e si conciliava pure con la costanza della temperatura durante la fusione e l'ebollizione, ammettendosi che il calore apparentemente consumato da questi processi in realtà si nasconde soltanto, diventando latente, fra i meati della materia fusa o evaporata. Di un altro fatto, invece, noto ed utilizzato dall'uomo sin dagli albori della civiltà, e cioè della produzione di calore per attrito, la teoria del fluido non offre una spiegazione soddisfacente; essendo inconcepibile, come osserva il Rumford (1798) dopo aver portato all'ebollizione un'ingente massa d'acqua mediante il calore generato per attrito, che quantità illimitate del fluido si siano trovate nascoste nei trucioli staccati per opera di un trapano da un blocco di metallo. E fu questa esperienza, insieme a un'altra eseguita poco dopo dal Davy, il quale provocò la fusione del ghiaccio per lo strofinamento reciproco di due blocchetti di questo materiale, a determinare la vittoria del concetto dinamistico e a dare origine alla termodinamica, scienza delle relazioni fra lavoro meccanico e calore, secondo la quale quest'ultimo non è altro che una forma di energia, che nell'attrito e nell'urto compare in luogo dell'energia meccanica distrutta, e dal canto suo è capace, consumandosi, di produrre del lavoro. La quistione di sapere quale sia la natura dell'energia termica stessa esorbita dal campo della termodinamica propriamente detta, le leggi della quale sono l'espressione pura e semplice dell'esperienza all'infuori di qualsiasi ipotesi. Vi dà invece una risposta la teoria meccanica del calore, la quale dichiara essere il calore medesimo nient'altro che energia meccanica esso pure, e cioè energia del moto disordinato delle molecole e degli atomi, che, per es., nell'attrito e nell'urto viene a sostituire quello che era stato il moto concorde di tutte le particelle di un corpo. I primi successi questo concetto li ebbe nella sua applicazione allo stato gassoso; la teoria cinetica dei gas, enunciata nel linguaggio della matematica da Daniele Bernoulli (1738), approfondita da König, Clausius, Maxwell e Boltzmann, dopo la metà del secolo scorso, poté, sulla base di una premessa quanto mai semplice, e cioè ritenendo le molecole di un gas animate di rapidi moti rettilinei, con direzioni e velocità alterate però a brevissimi intervalli di tempo per effetto di urti fra molecola e molecola oppure fra queste e la parete del recipiente, dedurre le leggi dello stato gassoso, in armonia con l'esperienza, e calcolare il numero delle molecole contenute, sotto una data pressione, in un dato volume. La conferma che il risultato di questo calcolo ha avuto in seguito per opera di ricerche appartenenti ai campi più svariati della fisica, e infine gli studî sul moto browniano e sui fenomeni radioattivi, ove le vicende della singola molecola sono seguite dall'occhio dell'osservatore, hanno fatto sì che la costituzione cinetico-atomica della materia sia passata dal rango di una congettura piu o meno verosimile a quello di uno tra i fatti scientifici meglio assodati.
Il calore che si comunica a un gas, senza che nello stesso tempo venga prodotto un lavoro esterno, il quale si impedisce mantenendo costante, durante il riscaldamento, il volume del gas, in parte accresce l'energia del moto traslatorio delle molecole, cioè innalza la temperatura del gas, nella quale appunto si estrinseca il valore medio di tale energia, e in parte va ad incremento dell'energia interna della compagine molecolare; vale a dire si traduce in un'aumentata energia dei moti rotatorî e vibratorî degli atomi costituenti la molecola, intorno al centro di gravità di quest'ultima. Per la frazione, che l'energia dei moti traslatorî costituisce dell'energia totale della molecola, la teoria dà la formula
nella quale κ = cp/cv è il rapporto fra i due calori specifici del gas. In un gas monoatomico, le cui molecole cioè sono formate ciascuna di un atomo solo, talché non vi possono essere moti interni della molecola, l'energia appartiene tutta al moto traslatorio; abbiamo quindi ξ = 1, e la formula dà κ = 5/3 = 1,66. Ora questo valore del rapporto fra i calori specifici venne trovato in armonia con la previsione teorica per il mercurio, per l'argo, l'elio, il neo, ecc., ossia per tutti gli aeriformi, che già si sapevano essere di struttura monoatomica; per la maggioranza dei gas, invece, avendo essi la molecola formata da più atomi ed essendo quindi ξ una frazione propria, κ deve essere, e infatti si trova, più piccolo del valore citato. Così per l'idrogeno, l'ossigeno, l'azoto e l'ossido di carbonio, tutti con molecola biatomica, il rapporto fra i calori specifici è molto approssimativamente = 1,40, da cui risulta la frazione ξ = 0,6; l'energia del moto traslatorio delle molecole costituisce il 60% dell'energia totale. Dal rapporto fra i calori specifici si deduce poi che i gas monoatomici hanno il calore molecolare a volume costante dato da 3/2 R (essendo R = 1,985 cal la costante, espressa in calorie, dell'equazione caratteristica dei gas p.v = RT), ossia in cifra tonda = 3 cal; e anche qui il valore voluto dalla teoria è confermato da misure eseguite sull'argo.
Ora la teoria dell'equipartizione dell'energia, introdotta dal Gibbs e dal Boltzmann, richiede che al contenuto di energia di un corpo o sistema partecipino in egual misura tutti i suoi gradi di libertà, intendendosi con questo termine il numero delle variabili fra loro indipendenti, di cui è necessario conoscere i valori affinché lo stato del sistema sia completamente determinato. Nella molecola monoatomica, la sua condizione in un dato istante essendo determinata dai valori istantanei delle sue coordinate rispetto ai tre assi di un sistema cartesiano, i gradi di libertà sono tre e si conchiude che a ciascuno di essi appartiene, del valore innanzi dato per il calore specifico e molecolare, la terza parte, cioè R/2. Lo stesso valore compete poi, secondo la teoria, a ciascun grado di libertà anche di sistemi più o meno complessi. Così per un gas semplice a molecole biatomiche, il modello più semplice della molecola essendo quello di due sfere rigidamente collegate fra loro a una certa distanza l'una dall'altra, oltre l'energia del moto traslatorio definito mediante la variazione delle coordinate cartesiane del centro del sistema, si può avere anche quella di un moto rotatorio, al quale in via generale subentrano due rotazioni intorno a due assi ortogonali fra loro e alla retta congiungente i centri delle due sfere, mentre la rotazione avente per asse questa congiungente non contribuirebbe sensibilmente all'energia e quindi può rimanere fuori di considerazione. I gradi di libertà, quindi, sono cinque e la teoria assegna al calore molecolare a volume costante di un gas biatomico il valore di 5R/2 = 4,96, in accordo perfetto con l'osservazione per l'ossigeno, e abbastanza approssimato per alcuni altri gas.
Nei corpi solidi, ciascuna particella essendo legata, entro l'edificio della materia, a una certa posizione media invariabile, intorno alla quale essa può soltanto oscillare, l'energia termica è energia di queste oscillazioni, che si ha motivo di ritenere eseguite dagli atomi e non dal complesso della molecola; e mentre per il singolo atomo essa passa, come ogni energia oscillatoria, con alternazione regolare da cinetica a potenziale e viceversa, il grandissimo numero delle particelle vibranti fa sì che in qualsiasi istante metà dell'energia totale sia di natura cinetica e metà di natura potenziale. A ciascuna di queste energie, espresse a norma della meccanica teorica mediante la somma di tre quadrati, corrispondono tre gradi di libertà, il numero totale di questi arriva così a sei, e il calore atomico diventa = 6 R/2 = 3R = 5,95, abbastanza vicino a quanto vuole la legge di Dulong e Petit, il disaccordo potendo anche, almeno in parte, assegnarsi al fatto che, mentre i calori specifici calcolati in base alla legge dell'equipartizione dell'energia sono quelli a volume costante, le cifre sperimentali per i corpi solidi e liquidi derivano da osservazioni fatte sotto pressione costante (pressione atmosferica) e contengono quindi il lavoro d'espansione, poco rilevante in questi casi, ma sempre sensibile. D'altra parte però la legge di Dulong e Petit, come fu già detto, va incontro anche a eccezioni fortissime; e mentre la teoria classica non prevede affatto che il calore specifico possa variare con la temperatura in modo continuo, una tale variazione costituisce invece la regola.
I disaccordi sono eliminati da una teoria nuova formulata da Einstein con l'applicare ai moti molecolari la teoria dei quanti, a norma della quale l'energia, non meno della materia, si presenta in parti minime e distinte, non ulteriormente divisibili. Sennonché queste parti, dette quanti, invece di esser sempre e ovunque della medesima grandezza, secondo Planck sono proporzionali alla frequenza con cui la particella, sulla quale si trova il quanto di energia, è capace di oscillare. Cosicché, essendo ν il numero di oscillazioni che la particella esegue al minuto secondo, il quanto ε d'energia risponde alla formula ε = hν, nella quale h, il rapporto fra un'energia e un numero vibratorio, o il prodotto fra la prima e la durata τ di una oscillazione, rappresenta una costante di carattere fondamentale, la costante di Planck o il quanto d'azione elementare. Il suo valore si è trovato, concordemente con varî metodi = 6,54.10-27 erg sec. Ora, dato un sistema di moltissime molecole, e comprendente perciò un gran numero di gradi di libertà, ma sede pure di energia molto rilevante, la distribuzione di questa sui gradi di libertà di tutte le molecole può riuscire, in conseguenza del numero enorme dei quanti di cui quell'energia rappresenta la somma, quasi uniforme, cioè quasi la stessa per ciascuna molecola e ciascun grado di libertà, e quindi praticamente identica con quella che dà la teoria classica. Invece con un numero di particelle d'energia poco superiore o addirittura inferiore a quello dei gradi di libertà di tutte le molecole, la distribuzione, sempre a quanti interi, non riesce più uniforme, ma è governata dalle leggi del caso, così da lasciare senza energia taluni gradi di libertà e da assegnare dei multipli del quanto a qualche altro. Ne viene che per temperature molto basse, alle quali l'energia dei corpi è assai ridotta, la teoria dei quanti fa prevedere, circa il comportamento termico dei corpi, delle leggi profondamente differenti da quelle a cui arriva la teoria classica. Per il contenuto termico del grammo-atomo, Einstein trova, in base alla teoria dei quanti, la formula:
nella quale e è la base dei logaritmi naturali, T la temperatura assoluta, k = R/N il rapporto tra la costante R e il numero di molecole del grammo-molecola (numero di Avogadro). Differenziandola rispetto alla temperatura, si ottiene l'incremento che subisce, per effetto di un innalzamento infinitesimale della temperatura, il contenuto termico del grammo-molecola o del grammo-atomo di un corpo, diviso per quell'innalzamento, ossia il calore molecolare o il calore atomico del corpo a volume costante, espresso dalla formula:
essendosi posto, per brevità, x = hν/kT.
Secondo questa formula, il calore atomico (o molecolare) dei solidi monoatomici, invece di essere costante come lo richiederebbe la legge di Dulong e Petit, è funzione della variabile x ossia, k e h essendo costanti, del rapporto ν/T e quindi, per una data frequenza ν, della temperatura assoluta; per T = 0 (= 273°) il calore atomico diventa = 0, per temperature elevate esso si avvicina al valore, richiesto dalla teoria classica, di ½ R per ciascun grado di libertà.
La frequenza ν delle vibrazioni, che le particelle di un solido sono capaci di eseguire, Einstein, considerando quelle vibrazioni di natura elastica, la esprime mediante una formula, nella quale entrano il peso atomico, la densità e il coefficiente di comprimibilità del corpo in quistione. Altri invece, ammettendo anche la possibilità di più periodi vibratorî per un dato atomo, mentre la teoria di Einstein ne contempla uno solo, identificano le rispettive frequenze con quelle dei cosiddetti raggi residui, di quei raggi cioè i quali, da un fascio comprendente tutte le lunghezze d'onda, rimangono soli in seguito a ripetute riflessioni sul corpo in quistione. In ogni caso però, tra quelle varie frequenze appartenenti a un medesimo corpo, ve ne sarà una a cui corrisponde la massima energia e la quale perciò domina riguardo al calore specifico. Rappresentando allora il calore specifico come funzione del rapporto T/Θ fra la temperatura assoluta e una certa temperatura Θ, detta caratteristica della sostanza in quistione e definita mediante l'equazione T/Θ = kT/hξν, nella quale ν è la frequenza vibratoria d'intensità massima, la curva che raffigura questa dipendenza risulta identica per tutti i solidi monoatomici (fig. 6).
Come i moti vibratorî, anche gli eventuali moti rotatorî delle molecole intervengono, con ciascuno dei gradi di libertà che rappresentano e a norma delle frequenze rotatorie, analoghe a quelle vibratorie, nel determinare i valori del calore specifico. Solamente, data la piccolezza dei rispettivi momenti d'inerzia, dai quali, come è noto, dipendono i periodi vibratorî, la frequenza ν di questi movimenti suol essere elevatissima, assai piccolo quindi, salvo a temperature elevate, il rapporto kT/h e con esso il contributo dei moti rotatorî all'energia molecolare. Ciò si verifica, oltreché per alcuni solidi - come il diamante, il cui calore molecolare, a temperatura ordinaria = 1,4 anziché = 6, a −230° non si distingue più da zero - anche per i gas pluriatomici. Così, per l'idrogeno, il calore molecolare a volume costante venne trovato da Eucken a
Alla più bassa di queste temperature, ancora lontana dallo zero assoluto, il calore molecolare dell'idrogeno non differisce più da quello dei gas monoatomici; in essa l'idrogeno è già, secondo il linguaggio della fisica dei quanti, completamente degenerato.
Calore raggiante. - La constatazione che un corpo caldo perde il calore, oltreché per conduzione che richiede il contatto diretto con altri corpi, specialmente solidi, e per convezione operata dal moto di un fluido materiale, anche all'infuori dell'intervento di qualsiasi agente ponderabile, mediante il processo dell'irraggiamento, s'impone con tale evidenza da dover essere stata fatta anteriormente a qualsiasi indagine scientifica. Il fatto, che nell'istante stesso, in cui il Sole riappare dietro una nuvola, dalla quale era stato nascosto, se ne avverte l'azione calorifica, dimostrava poi la grande rapidità, con cui il processo in questione viaggia attraverso lo spazio, e la proprietà, nota anch'essa da lungo tempo, per cui gli specchi concavi e le lenti convergenti concentrano in un punto o in piccole porzioni dello spazio il calore come la luce, dovette far pensare a una profonda analogia fra l'uno e l'altra. Tuttavia la denominazione di calore raggiante sembra essere stata creata soltanto nel 1777 dallo svedese Scheele, il quale chiaramente distinse il calore irradiato in tutte le direzioni dal fuoco che arde. Circa la stessa epoca il Lambert parla di raggi di fuoco e di calore oscuro osservandone la riflessione; il Pictet distingue il calore raggiante da quello propagato, e alla fine del secolo Herschel scopre la parte infrarossa dello spettro solare, vale a dire l'esistenza, nella radiazione emessa dal Sole, di raggi invisibili al nostro occhio, e che nello spettro costituiscono una parte situata al di là dell'estremo rosso. Lo scienziato inglese aveva interpretato questo fatto ravvisando in ogni punto dello spettro la sovrapposizione di due fenomeni distinti, luminoso l'uno e termico l'altro; ma le ricerche classiche dei nostri Nobili e Melloni, mentre rivelarono l'esistenza, fra i raggi oscuri, di differenze analoghe a quelle che per la luce si manifestano nel diverso colore, d'altra parte hanno messo fuori di dubbio l'identità intrinseca di tutti i raggi dello spettro, i quali ci sembrano appartenere a gruppi di natura differente soltanto a causa della diversità degli organi, da cui sono percepiti, e delle diversità di certi effetti, i quali, prodotti con particolare intensità da un gruppo piuttosto che da un altro, sono tuttavia comuni a tutti. In realtà, tanto la luce, quanto quello che si dice calore raggiante si debbono a vibrazioni che hanno sede nell'interno dell'edificio atomico e si trasmettono tutt'intorno alla guisa di un moto ondulatorio; se la lunghezza delle onde è superiore, nell'aria o nel vuoto, a circa 800 milionesimi di millimetro, e quindi la frequenza delle vibrazioni è inferiore a 400 bilioni al minuto secondo, nulla se ne rivela al nostro occhio; e lo stesso vale se la lunghezza d'onda è inferiore a 400 milionesimi di mm., e la frequenza delle vibrazioni superiore a 800 bilioni al secondo. Soltanto le vibrazioni, la cui frequenza è compresa entro i limiti predetti, agiscono sul nostro occhio; ma al pari di queste vibrazioni, anche quelle di maggior frequenza, le quali si rivelano precipuamente per la loro azione chimica, e così pure quelle di minor frequenza che spiegano un'intensa azione termica, costituiscono dell'energia raggiante; e lo studio dei loro caratteri fisici e del meccanismo della loro propagazione appartiene, non già alla scienza del calore, ma all'ottica.
Fisiologia. - Tutti gli organismi viventi producono calore (termogenesi) che deriva dai processi ossidativi (catabolici) che in essi si svolgono. Pertanto la quantità di calore dipende dall'intensità di detti processi. Soltanto negli animali omeotermi (Mammiferi e Uccelli) nei quali la temperatura del corpo è costante e quasi sempre superiore a quella dell'ambiente, la produzione di calore è evidente, ed è anche agevole mostrare la sua dipendenza dall'attività vitale. Negli animali pecilotermi nei quali la temperatura del corpo si eleva e si abbassa con l'elevarsi e con l'abbassarsi della temperatura dell'ambiente, non solo la quantità di calore prodotta è molto minore, ma non sempre essa riesce ad elevare la temperatura del corpo al disopra di quella ambiente a causa della evaporazione dell'acqua, specie nell'aria secca, dalla superficie del corpo. Lo stesso accade nelle piante dove il calore si produce tanto lentamente che si disperde nell'ambiente a misura che si sviluppa, causa soprattutto l'intensa evaporazione. Ma con mezzi adatti (calorimetria) si riesce sempre a dimostrare che tutti gli organismi viventi producono calore.
Patologia. - Si chiama colpo di calore la sindrome morbosa che si sviluppa in seguito a permanenza più o meno prolungata in ambiente soprariscaldato. È dovuto probabilmente all'ipertermia centrale che si sviluppa in tali condizioni consecutivamente alla paralisi dei centri termoregolatori, e alle alterazioni regressive che si manifestano a carico dei parenchimi degli organi interni, con probabile formazione di sostanze autotossiche. Fattori adiuvanti sono la fatica muscolare, certe tossicosi croniche (alcoolismo) e l'umidità dell'atmosfera. La sintomatologia è complessa. Nei casi tipici è caratteristica l'ipertermia, con tachicardia, tachipnea, congestione cutanea, spesso anidrosi. Poi si hanno fenomeni nervosi gravi di tipo paralitico (incoscienza, coma, paraplegia, ecc.) o, più raramente, di eccitazione (convulsioni, delirio). L'insorgenza è spesso brusca con lievi prodromi (cefalea, vertigine, vomito, ecc.). Nei casi benigni la guarigione è progressiva e graduale. Nei casi gravi, la morte avviene in coma e durante un attacco apoplettiforme. A volte persistono dei postumi (demenza, epilessia). La durata di tutta la malattia oscilla da pochi giorni a tre o quattro settimane. Dal punto di vista anatomo-patologico si trovano alterazioni non molto profonde consistenti essenzialmente in fenomeni congestizî a carico del cervello e del midollo e in processi degenerativi dei parenchimi interni (fegato, rene). La terapia è scarsa di effetti nei casi conclamati. Sono indicati il salasso, le frizioni cutanee fredde. Molto più importante e utile è la profilassi.
Conduzione del calore.
Si è già notato che se poniamo in contatto tra loro due corpi aventi temperature differenti, ha luogo un passaggio di calore dal corpo più caldo verso quello più freddo. Per effetto di questo passaggio il corpo caldo, perdendo calore, tende a raffreddarsi, mentre quello freddo tende a riscaldarsi; il passaggio di calore prosegue fino a che le temperature dei due corpi non si sono uguagliate.
Si sogliono distinguere tre modi coi quali il calore può passare da un corpo caldo ad uno freddo: la conduzione propriamente detta, o conduttività interna, la convezione e l'irragaamento. La conduzione propriamente detta ha luogo in un corpo quando vi siano delle differenze di temperatura fra le sue parti; in questo processo il calore si trasferisce da molecola a molecola del corpo, senza essere accompagnato da un trasporto di materia. Così, p. es., se riscaldiamo un estremo di una sbarra metallica per mezzo di una fiamma, sentiamo, dopo qualche tempo, che anche l'altro estremo si riscalda; il riscaldamento è dovuto a calore che si è trasmesso per conduzione lungo la sbarra metallica.
Il trasporto del calore per convezione è caratteristico dei gas e dei liquidi. Se riscaldiamo p. es. un recipiente contenente dell'acqua, ponendolo sopra ad un fornello, l'acqua a contatto col fondo, direttamente scaldato dalla fiamma, si riscalda e, in conseguenza, diminuisce di densità, e sale perciò alla superficie, trasportando con sé il suo calore. Si produce così, per effetto del riscaldamento, una corrente di acqua calda (corrente di convezione) diretta dal basso verso l'alto; contemporaneamente si produce una corrente discendente di acqua fredda.
Il passaggio del calore per irraggiamento ha luogo invece tra due corpi, anche quando tra l'uno e l'altro non è interposta alcuna sostanza. Così, p. es., il calore del Sole giunge, per irraggiamento, sulla Terra attraverso gli spazî interplanetarî. Il meccanismo della trasmissione del calore per irraggiamento è il seguente. Tutti i corpi irradiano nello spazio circostante una radiazione che, a parità di altre condizioni, cresce rapidamente di intensità col crescere della temperatura del corpo. Finché la temperatura è inferiore a 400°-500°, la radiazione è costituita da raggi infrarossi; oltre queste temperature viene emessa anche luce visibile, e vediamo infatti che i corpi diventano incandescenti. Quando due corpi si trovano uno in presenza dell'altro, ciascuno irradia energia, e anche ne assorbe, poiché viene colpito dall'energia raggiante irradiata dall'altro corpo. Se un corpo si trova in un ambiente, che abbia tutto la sua stessa temperatura, la quantità di energia perduta da esso per irraggiamento risulta esattamente eguale a quella che esso acquista assorbendola dalla radiazione emessa dai corpi circostanti; per modo che in questo caso il corpo non perde né acquista calore. Se invece il corpo è più caldo dell'ambiente, la quantità di calore da esso irradiata è maggiore di quella che esso assorbe; per modo che il corpo cede calore all'ambiente. L'opposto accade se il corpo è più freddo dell'ambiente (v. energia raggiante).
Conduttività interna. - La propagazione per conduttività interna è specialmente notevole attraverso i metalli che si dicono pertanto buoni conduttori del calore: essa è invece molto piccola in altre sostanze, come vetro, legno, ecc. (cattivi conduttori), e anche nei liquidi e nei gas. Lo studio matematico della propagazione del calore per conduttività interna è stato fatto dal Fourier, nel 1822. La teoria del Fourier è anzi uno dei primi esempî dell'applicazione dell'analisi matematica alla fisica. Partendo da ipotesi molto semplici, suggerite da una generalizzazione di fatti sperimentali, il Fourier ne ha dedotto un insieme di conseguenze che costituiscono una teoria perfettamente coerente. I resultati ottenuti dal Fourier sono di per sé interessanti, ma più interessante ancora è l'esempio del metodo seguito. Né si deve passare sotto silenzio che lo studio della conduzione termica ha condotto il Fourier a studiare e risolvere un problema di analisi di grandissimo interesse, e cioè quello di esprimere una qualsiasi funzione f(x), per tutti i valori della variabile compresi tra −π e + π, mediante una serie di seni e di coseni (serie di Fourier).
Fondamenti della teoria del Fourier. - Supponiamo che tutti i punti di un corpo si trovino inizialmente alla stessa temperatura; e che, in un certo istante, un punto qualunque di esso venga portato e mantenuto permanentemente a una temperatura diversa, p. es. superiore, a quella di tutti gli altri. A partire da questo istante, si inizia il fenomeno della propagazione del calore; dapprima si ha il cosiddetto periodo variabile, durante il quale la temperatura di ogni punto del corpo varia continuamente col tempo; segue poi il periodo stazionario o permanente, caratterizzato dal fatto che la temperatura di ogni punto del corpo (diversa, in generale, nei diversi punti) rimane tuttavia stazionaria (indipendente dal tempo). Se il corpo è isolato, e immerso in un mezzo a temperatura costante, il solo regime stazionario possibile è quello in cui ogni punto del corpo ha la temperatura del mezzo (regime stazionario uniforme); si hanno invece regimi stazionarî non uniformi quando due regioni distinte del corpo vengano mantenute permanentemente a diversa temperatura. Le superficie isotermiche (luogo dei punti del corpo considerato, aventi in un certo istante la medesima temperatura) che, nel periodo variabile, si spostano continuamente, deformandosi in maniera più o meno complicata, nel periodo stazionario assumono certe configurazioni fisse e costanti. Si suppone che il calore si propaghi secondo le traiettorie ortogonali a queste superficie isotermiche (linee di flusso), perché, se la propagazione del calore avvenisse secondo linee oblique rispetto alle superficie isotermiche, vi sarebbe una componente della propagazione tangente alle superficie stesse, cioè si avrebbe propagazione di calore da un punto a un altro di una stessa isoterma, ciò che è manifestamente impossibile perché i due punti hanno la stessa temperatura.
Siano dunque σ e σ′ due isoterme infinitamente vicine (rappresentate in sezione nella fig. 1); sia T la temperatura dell'isoterma σ, T + d T la temperatura della isoterma σ′ (supporremo che il calore proceda da A′ ad A), d σ, un elemento infinitesimo di σ, d σ′ l'elemento corrispondente di σ′, cioè l'elemento di superficie limitato, su σ′, dalle linee di flusso passanti per il contorno di d σ; sia infine d x la distanza tra le due isoterme.
Si ammetta che la quantità di calore d Q che passa in un tempuscolo d t dall'elemento d σ′ all'elemento d σ sia intanto proporzionale all'area d σ dell'elemento di isoterma considerato e al tempo d t, purché questo sia così piccolo che le temperature delle due isoterme possano ritenersi costanti. Il Fourier ha supposto inoltre che tale quantità di calore sia direttamente proporzionale alla differenza di temperatura fra le due isoterme, cioè a d T, e inversamente proporzionale alla loro distanza d x. Si ha dunque
essendo k una opportuna costante, detta coefficiente di conduttività termica interna. Questa costante rappresenta evidentemente la quantità di calore che passa, in una unità di tempo, attraverso un'area unitaria, supposto che fra due isoterme, distanti dell'unità di lunghezza, si abbia la differenza di temperatura di un grado. La formula scritta sopra rappresenta anche la quantità di calore che attraversa, nel tempo d t, un elemento di superficie qualsiasi, condotto per un punto generico (interno) del corpo considerato, essendo allora il quoziente d T/d x la derivata della temperatura presa rispetto alla direzione x, normale all'elemento.
Coefficiente di conduttività esterna. - Consideriamo invece un elemento d σ della superficie esterna del corpo. La quantità di calore d Q, perduta nel tempo d t da questo elemento, è manifestamente proporzionale all'area d σ e al tempo d t; ammetteremo (legge di Newton) che essa sia anche proporzionale alla differenza fra la temperatura T della superficie e quella T0 dell'ambiente, almeno finché tale differenza si mantiene abbastanza piccola. Avremo dunque
dove la costante k′ (detta coefficiente di conduttività termica esterna) misura la quantità di calore perduta nell'unità di tempo dall'unità di superficie, per una differenza di temperatura unitaria.
Le formule scritte sopra conducono subito alla equazione del Fourier, che rappresenta la propagazione del calore entro un corpo qualsiasi.
Equazione del Fourier. - Sia M (fig. 2) il corpo attraverso il quale si propaga il calore; consideriamo un elemento infinitesimo di volume avente la forma di un parallelepipedo ortogonale, i cui spigoli siano paralleli ai tre assi coordinati e abbiano le lunghezze d x, d y e d z. Indichiamo con dQ1 la quantità di calore che attraversa, nel tempo d t, una faccia dell'elemento, ad esempio la faccia AB, perpendicolare all'asse delle x, e conveniamo di attribuirle il segno positivo o negativo, secondo che la propagazione ha luogo nel senso positivo dell'asse x o nel senso opposto. Avremo:
Il segno negativo premesso al secondo membro dipende dal fatto che d Q1 deve essere positivo se T decresce al crescere di x (derivata rispetto a x negativa), e negativo nel caso opposto.
Consideriamo ora la faccia opposta C D del parallelepipedo elementare, e sia d Q′1 la quantità di calore che la attraversa nel tempo d t. Per calcolarla, basta osservare che la derivata normale ∂ T/∂ x non ha più il valore di prima ma, in seguito all'incremento d x subito dalla variabile indipendente, ha ricevuto un incremento dato da
e quindi ha assunto il valore:
Avremo allora
La quantità di calore d Qx assorbita o perduta dall'elemento di volume attraverso le due faccie normali all'asse delle x sarà dunque:
o anche:
dove si è chiamato d V il volume infinitesimo dell'elemento, ossia si è posto d V = d x • d y • d z. In maniera del tutto analoga si calcolano i contributi delle altre due coppie di faccie e cioè:
e quindi la quantità di calore d Q, complessivamente assorbita o perduta dall'elemento:
A questa somministrazione o sottrazione di calore corrisponde una variazione di temperatura d T secondo la nota formula
(γ calore specifico, ρ densità dell'elemento); e poiché ci interessa di conoscere la variazione della temperatura dell'elemento in funzione soltanto del tempo, potremo scrivere:
sicché, uguagliando le due espressioni di d Q, avremo.
o anche:
avendo posto α2 = k/γ ρ, e avendo indicato col simbolo Δ2 l'operatore del Laplace in tre variabili (v. armonico, IV, p. 530).
Nella fase di regime, quando cioè la temperatura di ogni punto è indipendente dal tempo, si ha ∂ Τ/∂ t = 0, e quindi l'equazione (1) si riduce a:
Queste sono le celebri equazioni differenziali, stabilite dal Fourier per rappresentare la propagazione del calore, cioè le equazioni cui deve soddisfare una certa funzione delle coordinate x, y, z ed eventualmente del tempo t, per rappresentare la temperatura di ogni punto del corpo, in un istante qualsiasi. L'integrazione delle equazioni del Fourier è possibile solamente in certi casi particolari, e per determinare completamente la funzione T (x, y, z, t) è necessario aggiungere le condizioni alle quali questa funzione deve soddisfare in alcune regioni del corpo, e la forma che deve assumere per determinati valori della variabile t.
Equazione alla superficie. - La funzione T (x, y, z, t) deve soddisfare, altresì, in tutti i punti che si trovano alla superficie esterna del corpo, ad un'altra equazione, la quale esprime che la quantità di calore ceduta in un certo tempo da un elemento di superficie esterna al mezzo ambiente è uguale alla quantità di calore che, nello stesso tempo, giunge sull'elemento di superficie per conduttività interna. Quest'ultima quantità è, come sappiamo, espressa da:
avendo indicato con n la normale all'elemento d σ; mentre la quantità di calore ceduta al mezzo ambiente è data da:
Avremo dunque:
o anche, chiamando μ il rappono tra i due coefficienti k′ e k:
Periodo stazionario. Caso del muro. - Molto interessante per le applicazioni pratiche è lo studio della propagazione del calore attraverso un muro (cioè una lastra indefinita omogenea a facce piane e parallele) durante il periodo stazionario, nella ipotesi che la faccia A B (fig. 3) venga mantenuta ad una temperatura costante T1, e la faccia C D ad una temperatura differente T2. È intanto evidente, per ragioni di simmetria, che le superficie isotermiche nell'interno del muro saranno piani paralleli alle due faccie, e quindi le linee di flusso del calore saranno rette normali alle faccie stesse. Allora, se riferiamo il muro ad una terna di assi coordinati x, y, z, in modo che il piano y z coincida con la faccia A B e l'asse delle x sia ad essa normale, l'equazione del Fourier, nel periodo stazionario, assume la forma semplice:
la quale, integrata, fornisce la funzione:
Le due costanti m ed n si determinano subito, osservando che per x = 0, deve essere T = T1, e per x = s (chiamando s lo spessore del muro), deve essere T = T2. Avremo dunque:
cioè:
e quindi:
La temperatura di un punto generico del muro è dunque una funzione lineare della distanza del punto dalla faccia A B, sicché, se i segmenti M N e P Q rappresentano, in una scala qualsiasi, le temperature T1 e T2 delle due faccie, l'andamento della temperatura lungo il segmento MP è rappresentato dalla retta N Q. Così la temperatura del punto R è data dal segmento R S, ecc.
La quantità di calore che passa in un tempo t da una faccia all'altra si può calcolare molto facilmente partendo dalla equazione
la quale si può integrare sia rispetto a σ che rispetto a t, poiché d T/d x è indipendente dalle grandezze σ e t, le quali sono indipendenti fra loro. Avremo:
ma per quanto abbiamo visto:
e quindi:
Questa formula, stabilita per un muro indefinito, vale anche, con buona approssimazione, per un muro di dimensioni finite, purché di spessore piccolo rispetto alle dimensioni trasversali, e si usa continuamente nelle applicazioni. Ad essa si suol dare la forma:
dove si è indicato con S l'area comune delle due facce, e con ρ una costante (uguale al reciproco di k), detta resistività termica interna o anche resistenza specifica termica interna della sostanza di cui è fatta la parete. Alla grandezza che si trova al denominatore della (3) si suol dare il nome di resistenza termica interna della parete, sicché ponendo
e considerando la quantità di calore che passa attraverso il muro in una unità di tempo, cioè l'intensità della corrente termica J, potremo scrivere:
formula che richiama alla mente la notissima legge di Ohm per l'intensità della corrente elettrica attraverso un conduttore.
L'unità pratica di resistenza termica si chiama fourier: diremo che una parete ha la resistenza termica di un fourier quando, nel periodo stazionario, esistendo tra le due faccie la differenza di temperatura di un grado centigrado, passa da una faccia all'altra una quantità di calore uguale a una grande caloria all'ora.
Tuho cilindrico indefinito - È del pari interessante, per le applicazioni industriali, lo studio della propagazione del calore attraverso la parete laterale di un cilindro cavo di lunghezza indefinita, costruito di materiale omogeneo, nell'ipotesi che le superficie interna ed esterna (di raggio r1 ed r2), vengano mantenute costantemente alle temperature differenti T1, T2. Ci occuperemo soltanto di ciò che avviene nel periodo stazionario. Intanto è chiaro che le superficie isotermiche debbono essere superficie cilindriche coassiali al cilindro dato, come la superficie σ della fig. 4 e quindi le linee di flusso calorico saranno normali all'asse del tubo (radiali); sicché la teoria del Fourier ci permette di scrivere, chiamando r il raggio dell'isoterma generica σ:
da cui (nel periodo stazionario, e per un tratto l di cilindro):
cioè:
Integrando questa semplicissima equazione differenziale a variabili separate, avremo:
La costante d'integrazione C e l'altra costante Q si calcolano facilmente, tenendo conto che sulle superficie estreme del cilindro regnano le temperature T1 e T2 date; cioè che dev'essere:
otteniamo in tal modo:
e inoltre
La (4) serve per i calcoli correnti, potendosi applicare approssimativamente anche a tubi di lunghezza finita, purché grande rispetto al raggio e allo spessore. La (5) mostra che l'andamento della temperatura nell'interno del tubo non è lineare: essa è rappresentata dalle linee A B e C D della fig. 4.
Conduttività esterna. La perdita di calore subita da un corpo per effetto dell'irraggiamento e della convezione complessivamente, costituisce la cosidetta trasmissione per conduttività esterna. Se il corpo ha una temperatura T, poco diversa da quella T0 dell'ambiente, la quantità di calore trasmessa nel tempo d t da un elemento d σ di superficie è data, come già sappiamo, da
Nel periodo stazionario questa relazione si integra immediatamente, poiché T è indipendente da t, e abbiamo allora:
o anche, ponendo 1/k′σ = Re (detta resistenzta termica esterna della superficie σ):
Se poi si indica con J il rapporto Q/t (intensità della corrente calorica), avremo, anche questa volta, un'espressione uguale a quella già trovata nel caso della conduttività interna, cioè:
Supponiamo invece che il corpo che perde calore per conduttività esternanon sia mantenuto a temperatura costante, ma, avendo inizialmente una temperatura T1, sia in un certo istante (istante iniziale) collocato in un ambiente a temperatura T0. Sia T la temperatura del corpo, che supporremo costante in ogni punto, dopo un certo tempo t; nel tempuscolo successivo d t, il corpo cederà dunque all'ambiente una quantità di calore data da:
e quindi la sua temperatura diminuirà di una certa quantità
essendo E l'equivalente in acqua del corpo (prodotto del calore specifico per il peso).
Avremo dunque
da cui
Se supponiamo che tanto E quanto Re siano indipendenti da T (ciò che approssimativamente si verifica in pratica, almeno entro un certo intervallo di temperatura), otteniamo, per integrazione:
Per determinare la costante d'integrazione C osserviamo che nell'istante iniziale (cioè per t = 0) dev'essere T = T1; e quindi
Sostituendo avremo:
cioè
Si vede dunque che l'eccesso della temperatura del corpo su quella dell'ambiente decresce nel tempo con legge esponenziale. Il raffreddamento subito dal corpo nel tempo t sarà dato allora da:
e potremo così calcolare la quantità di calore Q, trasmessa dal corpo all'ambiente nel tempo t:
Trasmissione del calore fra due fluidi in riposo. - Il caso generale, interessante nelle applicazioni, è quello della trasmissione del calore da un fluido caldo a un fluido freddo attraverso uno o più corpi solidi. Se consideriamo, per es. (fig. 5), due fluidi aventi le temperature T1 e T2 (e supponiamo T1 > T2), separati da una parete A B C D (indefinita), possiamo dire che la trasmissione del calore si compone di tre fasi distinte, e cioè: 1. dal fluido a temperatura T1 alla faccia AB per conduttività esterna; 2. dalla faccia A B alla faccia C D per conduttività interna; 3. dalla faccia C D al fluido a temperatura T2, ancora per conduttività esterna.
Nel periodo stazionario, le quantità di calore dovute alle tre distinte trasmissioni in un certo tempo t saranno tutte uguali, sicché potremo scrivere, adottando le solite notazioni e indicando con T1 e T′2 le temperature della faccia AB e rispettivamente CD nel periodo stazionario:
Eliminando fra queste tre equazioni T′1, T′2 e risolvendo rispetto a Q otteniamo
o anche, posto R = Re + Ri + R′e (resistenza termica totale)
Quanto alle temperature delle due facce della parete, avremo:
L'andamento della temperatura nei varî punti dei fluidi e della parete divisoria è rappresentato nella fig. 5. Il salto di temperatura T1 − T2 tra i due fluidi si scinde nei tre salti T1 − T′1, T′1 − T′2 e T′2 − T2, ciascuno dei quali è proporzionale alla rispettiva resistenza termica.
Se la parete ha una struttura più complicata e, per es., è fornita di intercapedini, la quantità di calore trasmessa in ogni unità di tempo si determina, calcolando separatamente le resistenze termiche esterne ed interne inerenti alle varie fasi della trasmissione; e assumendo come resistenza termica totale la somma delle anzidette resistenze termiche.
Trasmissione fra fluidi in movimento. - È talora necessario ottenere che lo scambio di calore fra due fluidi attraverso una parete sia il più intenso possibile; occorre allora che uno o entrambi i fluidi vengano fatti scorrere lungo la parete di separazione. Quando uno solo dei fluidi si muove, abbiamo la circolazione semplice; quando si muovono entrambi, la circolazione doppia (diretta o inversa, secondo che essi si muovono nello stesso senso ovvero in senso opposto). Abbiamo, ad esempio, una circolazione semplice nella trasmissione di calore tra il fumo caldo che percorre un condotto da stufa e l'aria ambiente, che possiamo considerare come stagnante e a temperatura uniforme: ovvero, nel caso delle celle refrigerate, tra il liquido freddo che percorre i tubi e l'aria della cella. Si ha invece circolazione doppia nei condensatori a pioggia degli impianti di refrigerazione, negli apparecchi detti a serpentino per il rapido riscaldamento dei liquidi, ecc.
Nella circolazione semplice, se immaginiamo, ad es., che il fluido caldo scorra in un condotto, immerso entro il fluido freddo, si dimostra che la temperatura del primo decresce, a partire dalla sezione iniziale, con legge esponenziale, cioè (supponendo per semplicità che la temperatura del fluido esterno sia uguale a zero)
essendo T0 e T le temperature del fluido interno, alla sezione di origine e in un'altra sezione qualsiasi a distanza x, ed α una costante, che dipende dal diametro del condotto, dalla natura e dalla velocità del fluido caldo, e dal coefficiente di conduttività esterna della parete. Allora, la quantità di calore ceduta dal fluido caldo al fluido freddo in un certo tempo t sarà espressa da:
essendo E l'equivalente in acqua della quantità di fluido che passa, nel tempo t, attraverso una sezione del condotto (supposto che tale quantità sia costante col tempo).
Propagazione del calore lungo una sbarra. - Immaginiamo che un estremo di una sbarra omogenea lunga e sottile, la cui sezione abbia l'area s e il perimetro p, venga riscaldato permanentemente ad una temperatura costante T0. Dette x e x + d x le distanze dall'estremo di due sezioni infinitamente prossime fra loro, e supposto che il calore si propaghi nel senso delle x crescenti, la quantità di calore che entra nel tempo d t attraverso la prima sezione è data da
mentre la quantità di calore che esce dalla seconda sezione è:
D'altra parte nel tempo d t passa all'ambiente esterno (che supporremo alla temperatura 0°), attraverso la superficie laterale della sbarra, una quantità di calore
(k′ coefficiente di conduttività esterna). Nell'elemento di volume limitato dalle due sezioni considerate, resta dunque nel tempo d t una quantità di calore
D'altronde, detta ρ la densità del materiale e γ il calore specifico (supposto costante), abbiamo:
Uguagliando, avremo:
o anche:
Se supponiamo di essere nel periodo stazionario (T indipendente da t), avremo:
ovvero:
dove si è posto a2 = k s/k′ p.
L'equazione (6) ha per integrale:
Le costanti A e B si determinano tenendo presente che per x = 0 deve essere T = T0, e inoltre che l'equazione alla superficie
deve essere soddisfatta ponendo in luogo di x la lunghezza l della sbarra. La prima condizione fornisce intanto la relazione
mentre la seconda ci dice che
ossia che
Queste relazioni (8) e (9) ci permettono di calcolare A e B.
Avremo:
In particolare, se supponiamo che la sbarretta abbia una lunghezza grandissima rispetto alle dimensioni trasversali, potremo porre A = 0, B = T0; e allora la funzione (7) sarà:
Questa importantissima relazione mostra che la temperatura, lungo una sbarra riscaldata a un estremo e avente dimensioni trasversali piccole rispetto alla lunghezza, decresce con legge esponenziale, anziché lineare, come avviene entro un solido di sezione indefinita (muro); in particolare: al crescere secondo una progressione aritmetica delle distanze dall'estremo riscaldato, le temperature, o meglio gli eccessi delle temperature su quella dell'ambiente, decrescono in progressione geometrica.
Questa è la legge del Lambert, verificata dall'esperienza; essa ha servito, come vedremo, a determinare in misura relativa i coefficienti di conduttività termica interna delle varie sostanze.
Misura dei coefficienti di condutttvità termica. - Una misura relativa dei coefficienti di conduttività termica, cioè la determinazione del rapporto tra i coefficienti di conduttività interna relativi a due sostanze differenti, fu eseguita per la prima volta in maniera assai grossolana dall'Ingen-Housz. Egli adoperò un recipiente di lamiera metallica, nel quale penetravano per alcuni centimetri varie sbarrette lunghe e sottili, di dimensioni identiche, ma di sostanze diverse, tutte spalmate con cera. Per mezzo di acqua calda, collocata nel recipiente di lamiera, gli estremi di tutte le sbarrette venivano portati a una temperatura elevata; e da essi il calore si propagava a poco a poco, lungo le sbarrette medesime, provocando la fusione della cera. Dalle distanze a cui arrivava la fusione della cera nelle varie sbarrette, dopo raggiunto il periodo stazionario, si poteva dedurre il rapporto tra le conduttività interne.
Infatti se d1 e d2 sono queste distanze per due diverse sbarrette, le cui conduttività indicheremo con k1 e k2, detta T0 la temperatura dell'acqua calda e T il punto di fusione della cera, si ha evidentemente:
dove, al solito, p ed s indicano il perimetro e l'area della sezione retta, e k′ il coefficiente di conduttività esterna, uguali (approssimativamente) per le due sbarrette. Sicché possiamo dire che
È chiaro che questo metodo consente soltanto un'approssimazione molto grossolana. Esperienze più precise sono state poi istituite dal Despretz e successivamente da Wiedemann e Franz, nelle quali si misurava la temperatura in molti punti equidistanti di una lunga sbarretta riscaldata ad un estremo, dopo raggiunto il periodo stazionario. In tali condizioni l'andamento della temperatura lungo la sbarra (supposto l'ambiente a 0°) è rappresentato, come sappiamo, da
dove A e B sono due costanti, x è la distanza di una sezione generica dell'estremo riscaldato e a è data da:
Da questa relazione è facile dedurre che, dette T1, T2 e T3 le temperature di tre punti equidistanti della sbarra e d la distanza fra due consecutivi, si ha:
Misurando dunque, su due sbarre delle stesse dimensioni ma di sostanze diverse, le temperature di tre punti equidistanti (o meglio di parecchie terne di punti equidistanti) si può dedurre il valore che, per l'una o per l'altra sbarra, assume l'espressione
Se α1 e α2 sono i valori delle due espressioni, relative alle due sbarre, abbiamo dunque:
dalle quali si ricava
Si può dunque calcolare il rapporto a1 : a2 e quindi il rapporto tra i coefficienti di conduttività termica interna delle due sostanze.
Le esperienze di Wiedemann e Franz erano eseguite sopra sbarre lunghe e sottili, di dimensioni identiche, tutte ricoperte di un sottile strato di argento e accuratamente lucidate, in modo che il coefficiente di conduttività esterna si potesse ritenere costante per tutte le sbarrette. Esse erano collocate nell'interno di una campana di vetro nella quale si praticava il vuoto; la campana era alla sua volta immersa in un'ampia vasca di zinco piena d'acqua, allo scopo di mantenere attorno alle sbarre una temperatura sensibilmente costante. Un estremo delle sbarrette era riscaldato per mezzo di un manicotto metallico in cui circolava del vapor d'acqua, e la temperatura dei varî punti delle sbarrette veniva determinata mediante coppie termoelettriche. Per ogni sostanza vennero così misurati, in numero rilevante, i rapporti (T1 + T3) : T2 e quindi calcolati i rapporti tra il coefficiente di conduttività interna di ogni sostanza e quello dell'argento, che si assume uguale all'unità.
Conduttività termica delle lamine sottili. - I metodi or ora descritti valgono soltanto per sostanze che si possono foggiare a fili o sbarre lunghe e sottili. Per le sostanze non suscettibili di assumere una tal forma, ad es. per le stoffe, è stato usato dal Fourier il seguente dispositivo. Un pezzo della stoffa in esame veniva collocato sopra una lastra metallica riscaldata con vapore d'acqua: sulla stoffa veniva appoggiato il cosiddetto termometro di contatto, cioè un vaso di vetro col fondo costituito da una sottile membrana di camoscio, pieno di mercurio. Il calore della lastra metallica si propaga, attraverso la stoffa, fino al mercurio facendone aumentare la temperatura; dopo un certo tempo, però, la temperatura assume un valore costante, perché il mercurio perde, per conduttività esterna, tanto calore (in ogni unità di tempo) quanto ne riceve attraverso la stoffa in esame. Detto allora T l'eccesso della temperatura del mercurio su quella dell'ambiente, si può ritenere che il calore perduto dal mercurio nella unità di tempo sia proporzionale a T (legge di Newton), e quindi che sia proporzionale a T anche il calore passato attraverso la stoffa. Il Fourier ha così potuto confrontare i coefficienti di conduttività termica delle stoffe più comuni. Il metodo è assai grossolano e serve soltanto a stabilire una graduatoria di conduttività.
Valore assoluto dei coefficienti di conduttività. - Coi metodi ora descritti si può determinare soltanto il rapporto tra le conduttività di due sostanze diverse; per avere invece la misura assoluta di un coefficiente di conduttività interna, bisogna ricorrere ad altri procedimenti. Il più semplice di essi consiste nel prendere un pezzo della sostanza in esame, foggiato a forma di lastra a faccie parallele; una delle faccie viene portata e mantenuta a una temperatura elevata (ad es. a 100°) mentre l'altra faccia è coperta di ghiaccio. Raggiunto il periodo stazionario, si osserva che in un certo tempo t viene fusa (in un ambiente a 0°) una certa quantità di ghiaccio, a causa del calore che attraversa la lastra. Se p è il peso in grammi del ghiaccio disciolto, la quantità di calore passata sarà data da
essendo 79,7 la quantità di calore occorrente per provocare la fusione di un chilogrammo di ghiaccio. Ora detta σ la superficie della lastra e s il suo spessore, la quantità di calore che traversa la lastra può essere calcolata con la formula del muro, cioè:
Sostituendo in luogo di Q il suo valore, dato dalla esperienza, si può allora determinare l'unica incognita k. La formula del muro è stata stabilita nella ipotesi di una lastra di superficie grandissima, rispetto allo spessore: per realizzare praticamente, per quanto è possibile, questa condizione, la lastra in esame, di forma circolare, viene circondata con un blocco anulare della stessa sostanza, detto anello di guardia.
Con questo e con altri metodi, sono state determinate le conduttività assolute delle sostanze più svariate, e si è trovato che i coefficienti relativi dipendono in generale dalla temperatura. Alcune sostanze, riscaldate, conducono meglio il calore, in altre invece avviene l'opposto. La influenza della temperatura sulla conduttività è tuttavia assai piccola nei metalli puri, un po' maggiore nelle leghe metalliche. Riportiamo qui sotto i coefficienti di conduttività interna (medî) delle sostanze più comuni, avvertendo che essi sono misurati in unità del sistema tecnico, cioè rappresentano la quantità di calore, espressa in grandi calorie, che traversa in un'ora ogni mq. di un muro indefinito, avente lo spessore di un metro, costituito con la sostanza considerata, se tra le due faccic è mantenuta la differenza di temperatura di un grado centigrado.
Conduttività termica dei cristalli. - I cristalli non appartenenti al sistema monometrico e, più in generale, tutti i corpi anisotropi, presentano una conduttività termica diversa nelle varie direzioni.
Lo studio della conducibilità dei cristalli si può fare riscaldando a temperatura elevata un punto interno di un cristallo (o di una sottile lamina cristallina, tagliata ora in una direzione e ora in un'altra) e determinando la forma delle superficie isotermiche. Si è trovato che tali superficie sono sfere, se il cristallo è del sistema monometrico (conduttività uguale in tutte le direzioni), sono ellissoidi in ogni altro caso. Tuttavia, nei cristalli otticamente uniassici si hanno ellissoidi di rivoluzione, aventi l'asse parallelo all'asse ottico del cristallo, talché la conducibilità termica è la stessa in ogni direzione perpendicolare all'asse, ma diversa lungo l'asse; nei cristalli biassici le isoterme sono invece ellissoidi a tre assi disuguali; questi assi segnano le direzioni di massima, media e minima conducibilità (assi principali di conducibilità). Anche altri corpi anisotropi non cristallizzati hanno conducibilità diversa nelle varie direzioni. Così il legno ha una conducibilità maggiore nella direzione delle fibre, che non nella direzione perpendicolare.