PIAZZA, Callisto
PIAZZA, Callisto (Calisto). – Nacque verosimilmente a Lodi, intorno al 1500, secondogenito del pittore Martino e di Angela da Treviglio. Poche le notizie documentarie sulla prima parte della sua vita; dopo un’iniziale formazione avvenuta, con ogni probabilità, nella bottega familiare (insieme ai fratelli Cesare e Scipione, anch’essi pittori), tracce sicure della sua attività si trovano a Brescia, in due dipinti firmati e datati al 1524: il polittico con la Natività e i ss. Simeone e Giuda di collezione privata, proveniente dall’oratorio omonimo – che Francesco Paglia (1708-1713, 1967, p. 77), dice decorato dallo stesso Piazza con affreschi oggi perduti – e l’Adorazione del Bambino con i ss. Stefano e Antonino da Firenze oggi nella Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, già in S. Clemente. Risale al 1525, come si evince dalla data apposta accanto alla firma latina, la Visitazione ancora oggi nella chiesa di S. Maria in Calchera. Sempre nel 1525, in data 29 luglio, l’artista compare come testimone in un atto notarile bresciano (in Boselli, 1977, p. 302) che ne registra la residenza in contrada S. Giulia.
Sulle origini figurative dell’artista le conoscenze sono scarse e frammentarie. Appare comunque probabile che la prima educazione sia avvenuta presso il padre (già morto nel 1523), titolare, insieme al fratello Alberto, della principale bottega pittorica lodigiana.
Partendo dall’attribuzione della S. Caterina d’Alessandria del Museo del Palazzo di Venezia a Roma, siglata «CPLF» (Strinati, 1984; Moro, 1997), vari tentativi sono stati fatti per ritrovare la mano dell’artista in alcune fra le opere più problematiche tra quelle accostate al corpus della prima generazione dei Piazza, dalla Visitazione di Wiesbaden (Tanzi, 2005, pp. 112-117), al polittico di Castiglione d’Adda (ibid.; riprendendo un’idea già in Crowe - Cavalcaselle, 1871, 1912, p. 408; Venturi, 1928, p. 857); tutti dipinti dai caratteri di aurea, silenziosa classicità – con rigorose inflessioni leonardesche e raffaellesche – forse non del tutto compatibili con i successivi sviluppi della carriera di Callisto, qualificati da un vivace estro sperimentale.
Tra i lavori più pacificamente accostabili all’attività giovanile dell’artista va segnalata la Madonna del Latte della parrocchiale di Ombriano, presso Crema (Tanzi, 2005, p. 114; proposte alternative sono invece in Sciolla, 2000).
Nemmeno i motivi del trasferimento a Brescia sono noti; si sa comunque che già nel 1523 anche il fratello minore Scipione era documentato in città, residente presso il convento di S. Domenico (in Boselli, 1977, p. 302; ma cfr. anche Marazzani - Gheroldi, 2005, p. 14). Nel maggio dello stesso anno, in un rogito riguardante una compravendita nel Lodigiano dei figli di Martino Piazza, Callisto è registrato come assente; non è quindi impossibile (Marubbi, in I Piazza, 1989b, p. 353) che il trasferimento fosse già avvenuto in quella data (è comunque arduo pronunciarsi sull’ipotesi – Bora, ibid., p. 239 – di un soggiorno caldeggiato dal padre, che aveva conosciuto il Romanino a Cremona nel 1520).
La prolifica attività in territorio bresciano (in città e nel contado, specialmente in Valcamonica) durò, a ogni modo, per un quinquennio, periodo in cui l’artista risulta pienamente inserito nel contesto artistico locale. I più precoci tra i dipinti bresciani sono forse le due tele, prive di firma e data, con l’Annunciazione, in S. Clemente dal XIX secolo, ma di provenienza ignota. Nel 1525, come si evince dall’iscrizione latina, Callisto dipinse la citata pala con la Visitazione per la chiesa di S. Maria in Calchera, ispirata ai modi del Romanino e di Dosso Dossi. Risale al 1526, come attestato da un’iscrizione sul retro, la Decollazione del Battista alle Gallerie dell’Accademia di Venezia (fino ai primi del XIX secolo nel convento di S. Zanipolo a Venezia), commissionata dal bresciano Giovanni Battista Brunelli (cfr. Ferrari, 1965, pp. 27 s.) e connotata dall’unione tra motivi dosseschi e veneti (Giorgione, Palma il Vecchio, Tiziano, Bonifacio Veronese) declinati in una violenta, sanguinaria espressività.
Nel 1527, anno in cui firmò e datò la Pietà della parrocchiale di Esine, Callisto è documentato a Brescia, domiciliato in un appartamento della canonica di S. Lorenzo affittatogli da Alessandro Averoldi, nipote del legato pontificio committente dell’omonimo polittico di Tiziano (Passamani, in I Piazza, 1989).
Alla seconda metà degli anni Venti si datano numerosi dipinti oscillanti fra gli influssi di Tiziano, Dosso, Romanino e Moretto, come il Concerto della Johnson Collection di Philadelphia, e un gruppo di opere di soggetto sacro improntate a una truce vena popolaresca: il tizianesco Martirio dei ss. Gervasio e Protasio della parrocchiale di Capriolo, la pala di S. Antonio a Breno e gli affreschi di S. Maria del Restello a Erbanno e di S. Antonio a Borno. Una sensibilità più rustica e inquieta è visibile nella coeva Madonna tra i ss. Pietro e Paolo della parrocchiale di Esine e nella Deposizione del Museo Camuno di Breno; con una posizione per certi versi analoga (anche se con un ben maggiore talento e una più spiccata personalità) a quella del caravaggino Francesco Prata, pittore con cui è stato talvolta confuso (per una sintesi: Tanzi, 1987). Non mancano, nelle opere degli anni Venti, tratti ripresi da stampe nordiche e spunti da Altobello Melone e dal polittico Averoldi di Tiziano.
Ultima opera di questa fase è l’ancona della chiesa dell’Assunta a Cividate Camuno, datata 1529, dopo la quale si registra il frettoloso rientro dell’artista in patria per completare, dopo la morte dello zio Alberto, il polittico incompiuto della Strage degli Innocenti per la Scuola di S. Paolo a Lodi, oggi nel duomo della stessa città. A partire dallo stesso anno l’artista fu impegnato nella riqualificazione interna del santuario lodigiano dell’Incoronata, senz’altro il suo più impegnativo ciclo pittorico. La campagna, partita con l’affrescatura del sacello dell’organo, sarebbe poi proseguita a più riprese per circa un trentennio (1530, 1534, 1538, 1552, 1558, 1561) in alternanza con il fratello Scipione (morto nel 1552), per essere poi completata, dopo la morte di Callisto, dal figlio Fulvio. I lavori, forse inizialmente patrocinati dal duca Francesco II Sforza, comprendevano l’affrescatura delle paraste a libro dell’ordine inferiore (con motivi a grottesche su fondo dorato), Profeti e Sibille a mezzobusto nelle lunette e tele e tavole a ornamento di alcuni altari e delle pareti oblique delle cappelle.
Primi a essere eseguiti furono gli ornati in corrispondenza della cantoria, seguiti dai dipinti con Storie del Battista per l’omonima cappella (1531-32), in cui i modelli bresciani, veneti e ferraresi si accendono di un nuovo, vivace cromatismo mutuato dalla coeva pittura cremonese, richiamandosi, nello specifico, alla fase giovanile di Giulio Campi (pala di S. Sigismondo a Cremona). Caratteri analoghi, amalgamati in una felice sintesi compositivamente più vicina al Moretto, sono nella quasi coeva (1533) pala Trivulzio per il duomo di Codogno, in cui, nelle figure dei committenti inginocchiati, emerge l’abilità ritrattistica del pittore (visibile anche nell’effigie oggi al Museo civico di Lodi, del capitano d’armi Ludovico Vistarini).
Una diversa declinazione del multiforme talento piazzesco è nei dipinti della cappella della Croce all’Incoronata, commissionati nel 1534 e collaudati quattro anni dopo, in cui l’artista (che li aveva eseguiti con la collaborazione dei fratelli, in particolare di Scipione) mostra la sua abilità nel saper trarre spunto dalla Piccola Passione di Dürer (Bossaglia, 1964), ma anche da Giulio Romano, Camillo Bocaccino, il Pordenone (Bora, in I Piazza, 1989, p. 245).
Nel ciclo (in particolar modo nella Cattura di Cristo e nell’Andata al Calvario) emerge il lato più drammatico del fare piazzesco; nella muscolare Flagellazione (di cui esiste una poco nota replica, probabilmente autografa, conservata presso la parrocchiale di Costamasnaga) affiorano indubbi esiti protomanieristi, mutuati dal Pordenone.
Chiude il complesso la grande Deposizione (datata 1538), in cui emerge una consumata abilità nell’impaginare una composizione di grande effetto, coniugando tra loro spunti diversissimi, da Dürer a Marcantonio Raimondi.
La vicenda critica di quest’ultimo dipinto è particolarmente confusa, in quanto solitamente identificato con una copia che le fonti (peraltro non del tutto chiare: risultano gli accordi preliminari ma non i saldi finali) dicono commissionata al figlio Fulvio (pittore dagli standard esecutivi molto più modesti), che avrebbe replicato un originale deperito contraffacendo però anche la firma di Callisto e la data (Bandera Bistoletti, in I Piazza, 1989).
Sempre nel 1538 si colloca l’esecuzione della pala, firmata, della chiesa della Trinità a Crema.
Nel corso del quarto decennio Callisto si era sposato con la nobile Francesca Confalonieri, di origine milanese, da cui, nel 1536, aveva avuto un figlio (Caffi, 1877, p. 130), probabilmente Fulvio.
Dagli inizi del decennio successivo, pur mantenendo la regia per gli incarichi all’Incoronata, Callisto spostò il suo raggio d’azione verso Milano. A testimoniare l’ampliamento degli orizzonti di lavoro vanno ricordate, oltre alla tela con l’Adorazione dei Magi del duomo di Novara (commissionata dal protonotario apostolico Melchiorre Langhi), le pale d’altare dell’abbazia di Cerreto Lodigiano (commissionata in una data non troppo lontana dal cardinale romano Federico Cesi, abate commendatario del monastero) e della parrocchiale di Azzate, firmata e datata 1542, con il ritratto del donatore, il senatore milanese Egidio Bossi. Lo stesso anno Piazza fu incaricato della decorazione della cappella di S. Girolamo in S. Maria presso S. Celso a Milano, per la quale eseguì, oltre a un importante quadro d’altare, anche la decorazione della volta, che, in un documento del 3 settembre, gli veniva richiesta «in maiori excellentia» rispetto a quella di S. Paolo, decorata dal Moretto (che, due anni prima, oltre a eseguire la pala era stato anch’egli pagato per la «pentura de una capella»; Fossaluzza, in Marubbi, in I Piazza, 1989b, pp. 363 s.). I lavori furono saldati definitivamente nel 1544, anno in cui Piazza, insieme al fratello Scipione, è ancora documentato all’Incoronata di Lodi (per dipingere la «cappella del campanile»; Marubbi, in I Piazza, 1989b, p. 364).
Il secondo lustro degli anni Quaranta risulta fitto di commissioni di ogni tipo, in luoghi distanti tra loro, realizzate grazie anche a una studiata divisione logistica con il fratello Scipione, che aveva mantenuto i contatti con la clientela lodigiana. In uno dei frequenti, temporanei ritorni nella città natale, nel febbraio 1545 (Novasconi, 1971, p. 50), Callisto si era ad esempio accordato, insieme ai fratelli, per la manutenzione perpetua delle sue pitture all’Incoronata. L’estate dello stesso anno affrescò l’oratorio di S. Rocco a Dovera, nel Cremasco, con una felice vena popolaresca che si riallaccia agli esiti espressivi della fase camuna. Una testimonianza d’archivio connessa ricorda l’artista come «gobo», con un’inedita notizia su una sua malformazione fisica (Marubbi, in I Piazza, 1989a, p. 287).
La medesima data 1545 si leggeva un tempo anche sul grande affresco con le Nozze di Cana dipinto per il ben più prestigioso refettorio del monastero di S. Ambrogio a Milano (oggi diventato l’aula magna dell’Università cattolica; Rossi, in I Piazza, 1989), e improntata a un registro decisamente più aulico con richiami alla fase matura del Moretto e a un asciutto classicismo di stampo raffaellesco; traccia di un momento di stile in cui l’artista dialogava con i più importanti personaggi del contesto milanese, dal Bambaia al Lombardino.
Risale al 1545-46 l’esecuzione della monumentale ancona per la cattedrale di Alessandria, i cui pannelli laterali sono oggi nel Museo civico della stessa città.
Nel 1549 Callisto fu pagato per una campagna di lavori all’abbazia di Chiaravalle Milanese, con affreschi «di fuori il claustro grande», presso la cappella di S. Bernardo e «sopra la porta della chiesa» (Marubbi, in I Piazza, 1989b, p. 367); ultima, dopo Cerreto e S. Ambrogio, delle tre grandi commissioni cistercensi (del ciclo, quasi completamente perduto, rimane una Madonna sulla lunetta di un portale laterale). Agli ultimi anni del quinto decennio, durante il soggiorno milanese, si data anche la prolungata esecuzione del trittico, oggi diviso tra due collezioni private, commissionatogli da Battista Rusca per Lugano, nel 1548, la cui esecuzione si sarebbe protratta, tra temporeggiamenti e lamentele, fino al 1551 (Marubbi, in I Piazza, 1989b, pp. 366, 370 s.; Tanzi, 2005, pp. 123 s.).
Risalgono al 1552 gli accordi per la pala con la Caduta di s. Paolo realizzata per la Scuola di S. Paolo a Lodi, oggi in una delle cappelle dell’Incoronata (Cremascoli, 1955, pp. 121 s.), che segna l’inizio dell’ultima svolta stilistica del percorso dell’artista.
Opera faticosa, ma di buona qualità, la tela mostra palesi richiami all’analogo dipinto del Moretto a S. Celso a Milano, in un’interpretazione più manierista, con fredde cromie argentee e metalliche, esili figure allungate ed eleganti svolazzi di drappeggi.
Tratti analoghi (con esiti meno felici, anche per l’esecuzione frettolosa e condotta con l’ausilio di collaboratori) affiorano nelle quattro Storie di s. Antonio abate per l’Incoronata, connotate da una curiosa sensibilità visionaria e richieste al pittore lo stesso anno (in sostituzione del fratello Scipione, appena morto), per ricoprire gli affreschi eseguiti a inizio secolo dal padre e dallo zio. Sempre nel 1552 il capitano di giustizia milanese, Niccolò Secco (per cui aveva eseguito perduti affreschi di soggetto mitologico in un palazzo di Porta Orientale, a Milano; Lomazzo, 1591, 1973) ingaggiò Callisto per decorare la cappella del Sacramento nella parrocchiale di Caravaggio. L’incarico fu abbandonato per l’intromissione di Bernardino Campi (Lamo, 1584, in Zaist, 1774), personalità dominante di questa fase del manierismo lombardo: un fallimento sintomatico dell’inizio del declino di Piazza di fronte ai nuovi mutamenti del gusto artistico.
Non è invece chiaro a quale momento della fase milanese spettassero i perduti affreschi di S. Maria in Passerella, distrutti nel XIX secolo.
Nel 1553 Callisto è nuovamente documentato in S. Maria presso S. Celso per ornare a fresco le volte di alcune cappelle (Bora, 1977, pp. 51-53; Fossaluzza, in Marubbi, in I Piazza, 1989b); incarico protrattosi fino al 1557 e segnato dallo spiacevole episodio dell’accusa dei fabbricieri al figlio Fulvio di sottrazione di oro ai materiali di cantiere (1556). In chiusura del lungo soggiorno milanese va ricordato il piccolo ciclo della cappella Simonetta in S. Maurizio (1555) eseguito insieme allo stesso Fulvio, ormai suo principale collaboratore. A Lodi, lo stesso anno, Callisto fu incaricato di progetti per l’orologio e il campanile del duomo.
Rientrato definitivamente in patria, tra l’estate del 1558 e la primavera del 1560 Callisto decorò la cappella di S. Anna all’Incoronata, con dipinti stilisticamente affini alle Storie di s. Antonio. Nel 1560 firmò la tela, oggi rovinatissima, della canonica di S. Giovanni a Busto Arsizio, già in S. Maria della Pace a Lodi (Bora, in I Piazza, 1989, p. 257). Agli stessi anni risalgono la Deposizione della parrocchiale di Pandino, l’affresco di S. Lorenzo a Lodi e il polittico di S. Giuseppe, oggi nel Museo civico della stessa città.
È del 1561 l’incarico per la decorazione del vano d’ingresso all’Incoronata con il consueto schema a grottesche dorate; opera poi eseguita dal solo Fulvio.
Morì a Lodi, ai primi del 1562 (Marubbi, in I Piazza, 1989b, p. 385).
Le opere della poco studiata fase tarda, mostrano, in più di un’occasione, cadute e scadimenti qualitativi, in parte imputabili alla fatica dell’anziano pittore nell’affrontare l’ennesima svolta di stile richiestagli dal nuovo clima manierista; ma anche all’ampia delega esecutiva al meno dotato figlio Fulvio. Ne esce confermata l’immagine di un pittore camaleontico, senz’altro tra le voci più autorevoli nella pittura lombarda della prima metà del Cinquecento, anche se talvolta eccessivamente preoccupato di condurre il lavoro in modo imprenditoriale.
Oscillante anche la sua valutazione da parte della critica: dopo gli elogi della memorialistica lodigiana (in cui Callisto aveva offuscato la memoria del padre e dello zio) e, in parte, bresciana (con l’erronea informazione anagrafica di Ridolfi, 1648, I, 1914), appare, in età romantica, il giudizio meno lusinghiero di Alexis François Rio (1855, 1857, p. 173), che lo leggeva come esponente della decadenza della bottega familiare, oltre che poco felice «imitatore dello stile di Giorgione». Interpretato come secondario esponente della scuola bresciana da Cavalcaselle (in Crowe- Cavalcaselle, 1871, 1912, pp. 407 s.), Piazza fu rivalutato in senso precaravaggesco da Longhi (1929, 1968) e correttamente collocato dal punto di vista critico dagli studi della Ferrari (1965), di Novasconi (1971), Sciolla (1966, 1990) Moro (1987), Tanzi (2005) e dai vari saggi della mostra del 1989.
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