CALIFFO (fr. calife, khalife; sp. califa; ted. Chalif, Chalife, Kalif; ingl. caliph, khalīfa)
Nome arabo (khalīfah) del sommo monarca dell'islamismo, in quanto l'insieme di tutti i paesi abitati da musulmani sia concepito come unità politica sottomessa a unico sovrano musulmano. L'ancor diffusissima credenza che il califfo sia per i musulmani una somma autorità religiosa corrispondente a quello ch'è il papa per il cattolicesimo è del tutto errata; il concetto di califfo, invece, è assai vicino a quello dell'imperatore medievale, riguardato come sommo monarca di tutti i paesi cristiani. L'istituzione del califfato è immediatamente consecutiva alla morte di Maometto (8 giugno 632), il quale non aveva provveduto in alcun modo a indicare in qual modo e da chi avrebbe dovuto esser retto dopo di lui lo stato da lui fondato, che allora non usciva dai confini dell'Arabia e che aveva come base la comunanza di fede religiosa, in quanto che i pagani o politeisti non vi erano tollerati, e gli ebrei e cristiani (piccolissima minoranza) erano posti in condizione giuridica assai inferiore a quella dei musulmani ed esclusi da tutti i pubblici uffici. Siccome per parecchi secoli, almeno per i primi quattro dopo Maometto, la diffusione della religione musulmana fuori d'Arabia s' identificò con l'espansione territoriale dello stato musulmano, e siccome quelli che noi diremmo diritti civili appartennero sempre nella loro pienezza ai soli musulmani, si comprende che il diritto pubblico dell'islamismo abbia concepito le terre d'islām come formanti un'unica monarchia, un blocco unico contro tutti i paesi d'altra religione, e non abbia neppure preveduto il caso di musulmani soggetti a potentati non islamici; cosa che in quei secoli sembrava assurda.
Il vocabolo khalīfah in arabo ha due significati principali: "successore" oppure anche "vicario, luogotenente"; è assai verosimile che esso sia stato scelto per il monarca dell'islamismo nel senso di successore di Maometto nella qualità di capo dello stato. Anche altri elementi forse contribuirono a far sorgere o a rafforzare la scelta; ma non è qui il luogo di trattarne. L'espressione "califfo di Dio" che s'incontra non di rado, va intesa nel senso di califfo legittimo, voluto da Dio. A ogni modo nell'uso della cancelleria e nel rivolgere la parola al califfo il vocabolo khalīfah era sostituito dall'espressione amīr al-mu'minīn "il principe dei credenti" che è titolo di pertinenza esclusiva del califfo e che fu assunto forse dallo stesso primo successore di Maometto, Abū Bekr (v.).
Secondo la dottrina sunnita o ortodossa, cioè quella dell'enorme maggioranza dei musulmani, le condizioni indispensabili per essere califfo sono il sesso maschile, la maggiore età, l'essere di religione musulmana sunnita e di condizione libera, la sanità di mente, l'integrità del corpo e la discendenza dai Quraish o Coreisciti, cioè da coloro che formavano la maggioranza della popolazione della Mecca al tempo di Maometto e ai quali Maometto stesso apparteneva. In teoria il califfo è elettivo e i suoi elettori sono le persone aventi autorità ufficiale o morale e residenti non troppo lontano dalla capitale; è ammesso che il califfo in carica designi il successore, previo gradimento di coloro che sarebbero gli elettori. Il principio elettivo fu sempre salvo anche quando, in pratica, il potere califfale si trasmise nel seno della dinastia omayyade o della dinastia ‛abbāside per parecchie generazioni; infatti non esistette mai un determinato ordine di successione o un qualsiasi diritto successorio di membri della dinastia. In ciò abbiamo la diretta continuazione delle norme che valevano in Arabia ancor prima dell'islamismo per la scelta del capo della tribù; come pure all'uso arabo preislamico si collega la solenne cerimonia della bai‛ah, cioè del riconoscimento pubblico del nuovo califfo da parte dei personaggi più ragguardevoli mediante la palmata o stretta di mano. Per i giuristi l'elezione stabilisce un patto bilaterale; sicché se venisse a mancare uno dei requisiti fondamentali per la dignità califfale (p. es. sorgesse miscredenza, alienazione mentale, cecità, prigionia in mano degl'infedeli), il patto verrebbe sciolto e si dovrebbe procedere a nuova elezione; invece la condotta licenziosa o tirannica non furono di solito considerate nella pratica come causa di decadenza.
I poteri del califfo sono quelli d'un monarca assoluto, salvo per ciò che riguarda la legislazione. Infatti, concepito dai musulmani il diritto come espressione della volontà divina, conoscibile attraverso i testi sacri e la loro interpretazione affidata ai dottori in scienze religiose (gli ‛ulamā'), ne consegue che, fuori del campo della semplice amministrazione, il sovrano non può legiferare se non in materie molto ristrette, non contemplate dal diritto determinato dagli ‛ulamā'; persino in fatto di tributi i suoi poteri sono circoscritti assai, almeno teoricamente. Il califfo, come qualsiasi sovrano islamico, è un defensor fidei, non in quanto egli abbia autorità religiosa, ma in quanto ha il dovere di difendere la religione e l'ortodossia secondo l'opinione concorde o prevalente degli ‛ulamā'.
L'enorme estensione assunta ben presto dall'Impero musulmano e la lentezza dei mezzi di comunicazione portarono a una larga autonomia dei governatori di provincie lontane, i quali anzi miravano alla formazione di vere dinastie locali. Casi siffatti finirono col ricevere un aspetto legale mediante un atto d'investitura regolare, accordato dal califfo per un determinato territorio e rinnovato volta per volta ai successori del primo investito; la sovranità nominale del califfo era quindi sempre affermata e riconosciuta in maniera che ricorda le investiture feudali accordate dall'imperatore della cristianità a re, principi, marchesi, ecc. Il caso più grave è quello della dinastia dei Buwayhidi (v.) o Būidi, di nazionalità persiana e seguace dell'eresia sciita, per cui i califfi abbāsidi erano sovrani illegittimi; nel 334 èg., 945 d. C., essa occupò la capitale califfale Baghdād e obbligò il califfo ad accontentarsi d'una semplice alta sovranità non solo per le regioni persiane tenute dai Buwayhidi, ma per la stessa capitale; sicché il califfo aveva il pieno dominio e l'amministrazione diretta soltanto di territorî fuori di Baghdād: situazione strana, durata circa un secolo.
I titoli dati di solito a questa specie di sovrani vassalli erano amīr "principe, emiro" o anche malik "re"; soltanto dopo il 1000 circa appare il titolo di sulṭān "sultano". È indispensabile rilevare, di fronte a errati concetti largamente diffusi, che i poteri riconosciuti dal diritto musulmano a questi principi o re o sultani sono assolutamente gli stessi che si attribuiscono ai califfi; il divario riguarda solo l'estensione territoriale, limitata nel caso dei principi vassalli, estesa a tutto il mondo musulmano nel caso dei califfi.
I primi quattro califfi, tutti compagni di Maometto e non legati fra loro da alcun vincolo di parentela, furono Abū Bekr (11-13 èg., 632-634 d. C.), ‛Omar I (13-23 èg., 634-644), ‛Othmān (23-35 èg., 644-656) e ‛Alī (35-40 èg., 656-661); rappresentati come i sovrani ideali procedenti sulle orme segnate da Maometto, essi sono chiamati i califfi rāshidūn ossia "retti, sulla retta via". Secondo i teologi, gli altri, Omayyadi (40-132 èg., 661-750) e ‛Abbāsidi (132-656 èg., 750-1258), non meritano il titolo di califfo per essersi scostati dall'ideale di governo islamico quale risultava dall'esempio di Maometto e dei rāshidūn; essi dovrebbero essere considerati soltanto re oppure imām, vocabolo che nell'uso giuridico designa il principe, il sovrano musulmano, sia esso califfo o no.
Con la conquista di Baghdād fatta nel 1258 dalle orde tartare o mongole di Hūlāgū, la famiglia ‛abbāside fu distrutta e il califfato ebbe termine; si ebbero poi aspiranti al califfato qua e là (p. es. i sultani Ḥafṣidi di Tunisi, i sultani ottomani del sec. XIX e del principio del XX, e nel 1924 l'allora re del Ḥigiāz, Ḥusain ibn ‛Alī), ma nessuno riuscì a ottenere l'adesione del mondo musulmano e a far risorgere un'istituzione morta da quasi sette secoli e incompatibile con la sovranità europea su molti paesi musulmani.
Intorno al grave errore della diplomazia europea (e anche di molti studiosi), dallo scorcio del sec. XVIII sino al 1916, di credere ai poteri spirituali del califfato e che il monarca ottomano (fra l'altro non discendente dai Quraish e neppure di razza araba) fosse sultano in quanto capo dell'impero turco e califfo in quanto capo della religione musulmana, si vedano gli scritti indicati nella bibliografia. Del resto la Grande Assemblea Nazionale di Angora, che il 1° novembre 1922 aboliva il sultanato e il 18 eleggeva un califfo (‛Abd ul-Megīd) con immaginarî poteri religiosi e senza alcun potere politico, il 3 marzo 1924 abrogò anche questo suo fantastico califfato.
Per le vicende storiche esteriori del califfato, ossia dell'impero musulmano, v. arabi: Storia (III, pp. 826-833); gli elenchi dei califfi ‛abbāsidi e omayyadi si trovano alle rispettive voci. Per la dottrina sciita del califfato, radicalmente diversa dalla sunnita, v. imām. La dottrina ibāḍita differisce dalla sunnita essenzialmente perché ammette la legittimità anche di non Quraishiti e la contemporaneità di due califfi o imām; ciò si spiega col fatto storico del frazionamento della piccola comunità ibāḍita in paesi senza agevole comunicazione fra loro e dell'impossibilità di supporre un monarca ibāḍita universale per il mondo musulmano.
Bibl.: Th. W. Arnold, The Caliphate, Oxford 1924; W. Barthold, Chalif i sultan (in russo), in Mir Islama, I, Pietroburgo 1912, pp. 203-226, 345-400 (ampiamente riassunto da C. Becker, in Der Islam, VI, Strasburgo 1915-16, pp. 350-412); D. Santillana, Istituzioni di diritto musulmano malichita, I, Roma 1926, pp. 12-24 (ottima esposizione); C. A. Nallino, Appunti sulla natura del califfato in genere e sul presunto califfato ottomano, Roma 1917, 2ª ed., 1919, anche in trad. francese e inglese; id., La fine del così detto califfato ottomano, in Oriente Moderno, IV, Roma 1924, pp. 137-153. Per gli avvenimenti di Turchia riguardo al califfato, per l'effimero tentativo di Husain ibn Ali succitato e per il Congresso musulmano mondiale tenuto al Cairo nel 13-19 maggio 1926 si vedano le annate IV-VI (1924-26) dell'Oriente Moderno e i voll. LIX (1925) e LXIV (1926; in questo è la traduzione completa degli atti del congresso del Cairo) della Revue du Monde Musulman di Parigi. Per proposte di musulmani modernisti miranti a far risorgere il califfato sotto una veste molto diversa da quella che l'istituto ha sempre avuto e in modo da renderlo compatibile, con il mondo moderno europeo, si veda Mohammed Berektullah, Le Khalifat, Parigi 1924 (anche in ed. inglese; l'autore è un indiano del Bhōpāl, modernista molto avanzato; cfr. Oriente Moderno, VI, 1926, pp. 125-128), e il grosso libro, di modernismo assai più temperato, di A. Sanhoury, Le Califat, son évolution vers une Société des nations orientale, Parigi 1926.