CALDERÓN DE LA BARCA, Pedro
Nasceva a Madrid, il 17 gennaio 1600, da Diego Calderón de La Barca e da Ana María de Henao y Riaño. Trascorse i primi anni a Valladolid, dove il padre dovette trasferirsi seguendo le sorti della corte, di cui era segretario. Nel 1606 la famiglia ritorna a Madrid, definitivamente, e quivi Pedro inizia gli studî. Dal 1609 al 1614 frequenta il Collegio Imperiale, tenuto dai gesuiti, presso i quali acquista il possesso della lingua latina, strumento indispensabile alla cultura del tempo, ma particolarmente necessario per chi in Ovidio e in Virgilio e nelle opere teologiche doveva attingere trame e concezioni per la propria arte. Nell'università di Alcalá de Henares, per un anno, e poi in quella di Salamanca fino al 1620, seguì i corsi di diritto canonico. In questo periodo, nel quale le discipline filosofiche e teologiche gettano i grandi germi, il poeta ímpara a conoscere anche il dolore: la morte della madre, nel 1610, e quella del padre, nel 1615, imprimono nel suo volto i primi segni di composta e amara pensosità. La sua vita, del resto, eccetto qualche breve parentesi e qualche raro episodio, è tutta consacrata al teatro e alla poesia. I pochi avvenimenti, che turbano o variano l'esistenza dell'artista, ci sono noti con l'aridita della cronaca e nulla ci rivelano degli aspetti morali che assumevano nella sua coscienza. Sotto la tutela di uno zio, sostenne una lite giudiziaria per l'eredità paterna, contestata a lui e ai suoi fratelli dalle pretese della matrigna. Nel 1620, in seguito alla morte misteriosa di un certo Nicola, della casa di B. Fernández de Velasco, connestabile di Castiglia, fu coinvolto assieme ai fratelli Diego e José nell'accusa di assassinio. Nello stesso anno, e nuovamente nel '22, prende parte al certame letterario in onore di S. Isidoro, ed è annoverato fra i primi rimatori nell'elogio di Lope de Vega, giudice autorevole del concorso. Nel 1623 cade la composizione di Amor, honor y poder, la prima commedia di data sicura, seguita subito da una produzione instancabile. Dopo un'interruzione per un viaggio in Italia e nelle Fiandre, si apre nella sua attività un periodo fecondissimo. Dal 1626, per più di un decennio, C. stende un gran numero di drammi, tra il favore del re e il successo popolare. In tutte le feste reali, nelle rappresentazioni del Palazzo, nell'inaugurazione del Buen Retiro, si affermarono i suoi lavori, conformi al gusto contemporaneo e alla tecnica tradizionale. Il poeta ne è tutto preso; e Filippo IV per ricompensa gli concede l'onore dell'abito dei Cavalieri di Santiago (1636). Il fratello José pubblica intanto due volumi di commedie con la sua stessa approvazione. Nella prima raccolta, del 1635, figurano alcune tra le opere più celebri (Vida es sueño; La devoción de la Cruz; El Príncipe constante, ecc.), seguite dalle altre della seconda parte (El médico de su honra; El Tetrarca de Jerusalén; A secreto agravio secreta venganza, ecc.). È del 1637 El mágico prodigioso. Pare che il poeta scrivesse degli Autos sacramentales anche prima del 1632, ma solo nel '34 possiamo stabilire una prima notizia sicura.
C. introduce qualche innovazione nella tecnica dell'auto: allarga l'estensione dell'atto, aumenta il commento musicale, e dà maggior rilievo all'apparato scenico. Nella giovinezza, febbrile di opere e fervida di umanità, C. ha tentato e raggiunto le più belle affermazioni. Nel 1637 il poeta è al servizio del duca dell'Infantado, e alla fine del '39 parte per la guerra della Catalogna. Interrompeva la vita artistica per ben due anni, fedele al suo monarca e alla sua nazione, e non solo per freddo dovere, ma per quell'intima persuasione che sovente traluce nelle sue commedie eroiche e cavalleresche. Nel suo stato di servizio, è detto che mai abbandonò il suo posto di combattente "no faltando jamás a su estandarte... como muy honrado valiente caballero". Ma se sentiva la nobiltà della causa e la bellezza del sacrificio, non poteva accettare la vita della milizia. Tornando a Madrid, non ritrovava la capitale d'una volta, che le guerre, le sconfitte e la decadenza sempre più invadente, cominciavano a stremare.
Dal '42 al '46 è nella casa del duca d'Alba, e fino al '48 non può rappresentare nessun dramma, per la chiusura dei teatri. Nel '51 è sacerdote, ed è questa la svolta più naturale e ad un tempo più ricca di significato, durante il corso della sua vita.
Nel '53 è a Toledo, nella Cappella reale; poi nella capitale, ospite della Hermandad de Refugio, e cappellano del re. Con questa carica vive nella corte, da dove passa nella Congregazione dei Preti di Madrid, di cui diventa cappellano maggiore. Nella vecchiaia, serena e raccolta, continua a inseguire le idealità del suo mondo drammatico, umano e religioso. In lui la fede e la morale, la vita dello spirito e le esigenze pratiche, si risolvevano nel prodigio del teatro. Morì il 25 maggio del 1681, quando meditava gli autos di quell'anno, ché ommai Madrid li affidava a lui da qualche decennio.
C. esordiva in un ambiente storico e in un clima letterario ormai giunti alla piena maturità. La tecnica teatrale, quale s'era venuta maturando per tutto il '500 e in quel primissimo '600, tentava il suo spirito vario e profondo, con quella sua ricchezza di schemi e di temi e con quell'umano e religioso rigoglio di caratteri e di contenuto. C. ne risentiva le formule e i motivi, per la vigorosa e prepotente adesione al mondo tragico e agl'ideali di fede e di vita, che Lope e Tirso perseguivano con insuperabile genialità. La stilizzazione delle forme drammatiche corrispondeva a una coscienza storica, religiosa, intellettuale e artistica ormai adulta e riflessa: e appunto, nei tradizionali fantasmi del teatro, C. riviveva le idealità sociali e mistiche, morali e nazionali, umane e teologiche, di cui era tutta impregnata la vita spagnola di quel Seicento sfarzoso, ricco di sogni e di conquiste, ma già pervaso dai segni della decadenza.
Le grandezze e le debolezze della sua fantasia hanno perciò salde radici nella realtà della sua epoca, e portano sempre, anche nella nuova sensibilità che le determina, le risonanze della cultura e della storia in cui si educarono. L'auto sacramentale, la commedia tragica, il dramma storico e mitologico, gl'intrecci di "cappa e spada", i brevi episodî degli entremeses, che si alternano nella feconda attività del poeta, portano nella loro composizione strutturale e nello stesso germe lirico numerosi elementi tradizionali. La trascendenza teologica e simbolica nel mistero eucaristico, la schietta umiltà nel dramma devoto, la tragica intuizione dei sentimenti e degl'ideali della vita sociale contemporanea, la levità spirituale che sfiora le commedie di costume e d'intrigo, fino alla fugacità giocosa degl'intermezzi, sono caratteri impliciti nei generi teatrali da lui ripresi.
Un posto centrale nell'opera di C. occupano gli autos, sia per il loro numero, per la serietà umana e la profondità religiosa che l'animano; sia soprattutto per la vasta e prodigiosa concezione in cui si appaga e si esalta l'anima del poeta.
Dai precedenti di Timoneda, del maestro Valdivieso, e meglio di Tirso e di Lope, l'auto si viene costruendo gradatamente, ma attraverso a un'incertezza nei mezzi costruttivi e a una debolezza nella struttura speculativa. È un atto unico che rappresenta drammaticamente il mistero dell'Eucaristia: tuttavia soltanto nel calore della fantasia calderoniana e nella sua esuberante eloquenza religiosa, raggiunge una serrata unità e una piena vigoria di pensiero. La sostanza ideale che materia queste rappresentazioni è sempre simbolica. Le visioni e le allegorie del Vecchio e del Nuovo testamento; gli spettacoli apocalittici, i misteri liturgici, i segreti sovrasensibili dei sacramenti vi si ricantano e vi si dispiegano con mistiche esegesi e con pietose aspirazioni: l'auto diventa fra le f0rme artistiche quella che più profondamente traduce l'ansia concettosa e lirica del suo genio.
Gli autos di C., che ascendono a più di settanta, investono così e riplasmano nel loro complesso le voci della grande religione e della grande arte, a cui mirava l'anima spagnola. Nella loro ariosa e luminosa ideazione e nella loro grandiosità scenografica, rievocano veramente le possenti architetture bibliche. Pare che i mezzi umani non debbano essere capaci di rendere l'afflato cosmico che pervade queste supreme concezioni. Il nostro patrimonio spirituale è idealizzato entro l'atmosfera rarefatta del simbolo; la realtà umana, spogliata dalla provvisorietà delle sue contingenze e dalla varietà delle sue individuali apparenze, è proiettata nelle sfere cristalline dell'astratto; dalla concretezza effimera della nostra storia si risale alla purezza universale delle idee e dei concetti; la povera e illusoria materialità è trascesa nelle personificazioni sovrasensibili; la temperie mondana, cangiante e peritura, è annullata nella fissità dei cieli e nell'eternità di Dio. La rappresentazione sempre sovrasta le nostre facoltà intellettive e confina nell'assoluto. Sono drammi che richiedono lo scenario del mondo, in una sintetica compresenza; si concepiscono soltanto nello sfondo dello spazio illimitato, in gara con l'infinità del cielo e il fulgore del sole. In questo simbolismo panteistico, che vede riflessa la Provvidenza negl'innumerevoli aspetti del creato, concorrono e si fondono, attraverso a contrasti e a conciliazioni, a negazioni e a preghiere, il peccato umano e il perdono celeste, il frammento passionale e l'astrazione metafisica, l'istinto cieco e immemore e il libero arbitrio chiaroveggente e operoso, le vanità mondane e gli attributi divini, le abiette inclinazioni verso l'inferno e le alate nostalgie del paradiso: sono allegorie umane e teologiche, che si conchiudono nella fede universale; e sono dolori ed esaltazioni immanenti alla vita, che si placano nell'inno a Dio. Il motivo precipuo è la storia dell'umanità secondo la visione cattolica, dalla nascita alla colpa e da questa alla redenzione, intuita nella fatale necessità e nella drammatica intimità psicologica. Le variazioni e le sfumature in cui si colora l'azione dei singoli drammi, sono molteplici, ma tutte ritengono la concettosità dell'idea fondamentale e la commossa sensibilità della concezione umana. Sicché questa arte oscilla, per organica costruzione, fra l'aridità della dialettica e la lirica contemplazione del dissidio e dell'anelito alla pace. Tuttavia, anche quando qualche auto e singole scene sono sopraffatti dalla formula speculativa, si disvela, al di sotto di questa patina discorsiva, la maliosa poesia del peccato e del dolore, del disinganno e della morte. Nello spirito del poeta il simbolo teologico si risolve in una drammatica vicenda interiore, perché la sua coscienza religiosa è tutta intessuta di addentellati umani. L'apoteosi dell'eternità è cantata nello sfondo della dolorosa caducità mondana. Il poeta, in vista della luminosità divina, discopre e incide le ombre e le aberrazioni della passione.
Trascorre per tutti gli autos, questa intuizione dolorosa e apocalittica del mondo e della vita, dell'umanità e dell'individuo. I miracoli dei Vangeli (El Diablo mudo; El primer refugio del hombre y probática piscina) e le loro parabole (El día mayor de los días; La Siembra del Señor; La Semilla y la Cizaña; La Viña del Señor; El Nuevo Hospicio de pobres, ecc.); i racconti del Vecchio Testamento (Eliv Arca de Dios cautiva; Mística y Real Babilonia; El Arbol del mejor fruto; Primero y segundo Isaac; El Viático cordero, ecc.); i fatti desunti dalla storia e dalla leggenda (La Lepra de Constantino; El Santo Rey Don Fernando; La Protestación de la Fe; La Devoción de la Misa, ecc.); le tradizioni classiche (Andrómeda y Perseo; El divino Orfeo; El divino Jasón; Psiquis y Cupido, ecc.); gli avvenimenti contemporanei (Nuevo Palacio del Retiro; El lirio y la azucena; Las Ordenes Militares; El Indulto General, ecc.); i miracoli di Maria (La primer Flor del Carmelo; A María el corazón; La Hifidalga del Valle); sono tutti pervasi ugualmente di devota ammirazione. Fra essi alcuni sono di incomparabile bellezza, con una figurazione simbolica che, entro le volute architettoniche del mondo e della fede, è sempre sorretta da un'armonica consonanza spirituale. La metafisica vi si tramuta e dissolve nella concitazione rappresentativa. L'atteggiamento è tragico e lirico insieme, più che filosofico. Se è vero che volta per volta si riprende un tema teologico e morale, come quello del libero arbitrio (El gran Teatro del Mundo), della lotta che l'uomo sostiene con l'implacabile tentazione (La divina Filotea, El Año Santo a Madrid), dell'antimonia tra l'anima e il corpo (El pleito matrimonial), tra il dovere e il piacere (Los encantos de la culpa), tra l'eterno e la vanità della vita (El gran Mercado del Mundo), o si esemplifica la storia teologica dell'umanità (El veneno y la triaca, La vida es sueño, El Pintor de su deshonra), sempre è investito l'assiduo travaglio del nostro spirito, scisso tra l'eterno e l'effimero, perennemente inquieto e perennemente ignaro. L'umanità, considerata per sé stessa infelice, si dispiega sotto lo sguardo pessimista del poeta, con le sue fragilità e con le sue perdizioni. È immanente un fatalismo, che si giustifica però e si determina cristianamente, nell'intimità del sentimento. La vita, che porta in sé l'inesorabilità del male, trapassa fugacissima, tra il mistero della nascita e le tenebre della morte. La tragicità del pensiero, che si arrovella nell'ignoto e nell'inconscio, e la nostalgia dell'eterno e del vero, che esulano dalla breve e labile esistenza, sono il dramma e la lirica di questa poesia. In queste gradazioni il poeta disnoda la gamma delle sue esperienze, umane e sentimentali, e la fantasmagoria delle sue visioni bibliche e concettuali. I migliori autos esordiscono e si svolgono in cospetto degli elementi, e la loro azione si protende entro la sagoma architettonica che la natura e la provvidenza hanno impressa al mondo e ai cieli. C'è il senso del divino che vuole riscattarsi dalla realtà empirica; ma c'è anche il gusto fantastico per il barocco, l'imponente, il solenne. Gl'inizî del Gran Teatro e della Vida es sueño sono sinfonici: l'uomo si affaccia, indifeso e stupito, sotto l'ampia vòlta dell'universo, nell'armonia dei colori e delle musiche del creato. Ne Los encantos, ne La Cena del Rey Baltasar, e in Tu prójimo como a tí, si rievocano con potenza fantastica e con dominio spirituale le forze titaniche dell'essere.
Il poeta, nei suoi simboli etici e teologici, non dimentica mai le esigenze della realtà, al pari dei grandi mistici del '500 spagnolo. La vita, nelle sue ansie e nelle sue anomalie, è sempre presente: ora è Ulisse che, pur temprato nelle vittorie dello spirito, risente la lusinga di Circe e l'insinuante poesia dell'amore; ora è l'uomo che, attore del mondo, assolve la sua parte, dolorando o illudendosi, ribelle o rassegnato; ora è la morte che trionfa, devastatrice e macabra, eterna e ineluttabile; ora è la vita stessa, nella sua caducità, che appare al poeta nelle immagini più delicate e più tristi: l'alba che presto declina al tramonto, il palpito delle stelle che scolora alle prime luci aurorali, il fiore che intristisce in un solo meriggio, un'eco che svanisce nel pianto. Ma soprattutto la vita è un sogno, che inganna i sensi e mentisce allo spirito, illusoria e tormentatrice nell'attimo fuggente, amara e implacabile nel risveglio eterno.
Questa attenzione insonne e complessa per l'umano e il divino, materia ugualmente anche il teatro profano. Anzi la distinzione è soltanto formale, poiché nei drammi a tre atti, e soprattutto in quelli più celebri, la sostanza religiosa è sempre sottintesa e operosa, e la struttura simbolica ne è essenziale. Soltanto il contenuto è, per così dire, più storico e più biografico. L'idea universale è perseguita attraverso l'esperienza individuale; al di sopra del mito si afferma il carattere con i suoi sviluppi concreti e umani. Qui C. è insuperabile. Dal punto di vista cronologico, tra gli autos e le commedie non c'è distacco ideale: il rapporto è esclusivamente di tecnica artistica. Se si può osservare, almeno a grandi linee, che negli anni più maturi il poeta preferiva la purezza astratta delle rappresentazioni teologiche, è pur vero che nelle commedie della giovinezza aveva già espresso la medesima ansia concettuale e lirica.
La Vida es sueño, atto sacramentale, è del 1673, ed è la ripresa del dramma omonimo, composto tra il '31 e il '34. Nell'anima poliedrica e titanica di Sigismondo è sintetizzata la più alta concezione dello spirito calderoniano. Le tre fasi della sua esistenza traducono gli stadî attraverso cui trapassa la natura umana, dalla incoscienza bruta alla passionalità disfrenata, fino all'improvviso e salutare rischiararsi dell'intelletto. Rinchiuso in una torre - il cui accesso è interdetto sotto pena di morte, per ordine del padre, re di Polonia, che con la sua scienza s'illudeva di fermare il corso del destino - Sigismondo vive incatenato nelle membra e nel pensiero. La fierezza selvaggia che lo accende disperatamente, e la pensosità tragica che ad intervalli ne tormenta lo spirito, si continuano con umana e possente coerenza nella cieca e incomposta esaltazione dell'istinto e dell'arbitrio. Ma quando il sogno è svanito, e con esso l'effimero impero, e lo rinserrano ancora una volta l'angustia delle catene e la infinita tristezza del disinganno, nel suo spirito appassionato e veemente si crea una condizione nuova, ricca di lontani presentimenti. E allora la parola di una donna, simbolo inconscio della fragilità umana, che gli disvela come verità ciò che per lui era un simulacro, determina la nuova coscienza. Nella consapevolezza della fugacità della vita, che si consuma come una fiammata percossa dal vento, e trascolora nei silenzî e nelle ombre del sogno, Sigismondo intuisce la verietà eterna, al di là dalla morte, nel disprezzo d'ogni vanità terrena. La vita, che è "ombra, parvenza, sogno", lo tempra all'eterno. Quella vigorìa spirituale che ne scoteva le fibre nella solitudine, si tramuta con felice trapasso in una ferma e adamantina coscienza religiosa ed etica. Il simbolo è immerso e storicizzato nella schiettezza umana. Nel Mágico prodigioso del 1637 è ripreso il motivo dell'uomo saggio che non può giungere a Dio, se non attraverso la redenzione e la luce interiore. La sapienza pagana di Cipriano non può salvarlo dalla tentazione; i dubbî ch'essa non può risolvergli sono i germi della perdizione; il baratto dell'anima con il diavolo è il predominio dell'istinto; l'amore repentino e travolgente è il peccato naturale e fatale, che si riscatta soltanto nella fede, improvvisamente intuita attraverso il sacrificio della donna credente e innocente. È sempre un miracolo che opera nel nostro spirito; ma esso è inverato nella nostra coscienza, e si crea per introspettiva rivelazione. Nel Mágico prevale lo spettacoloso e il simbolico: è un dramma assai vicino all'auto, e ne è segnato dallo stesso respiro sovrannaturale e da un'eguale trasfigurazione scenografica. Più audace nella concezione, e altrettanto pregnante di sensi umani è La devoción de la Cruz, del 1633. È il dramma dell'inconscio, dell'incompreso, della luce misteriosa che agisce a intermittenza nelle profondità del nostro essere, fino ad aprirsi il varco verso la verità. C'è una sensibilità acuita, raffinata, delicatissima; e c'è l'intuizione di problemi psicologi e religiosi, intensi e moderni. È un dramma che s'illumina retrospettivamente, e perciò condotto con un gioco di ombre e di bagliori. Eusebio, travolto dall'amore insoddisfatto in una catena di aberrazioni, fuggitivo dalla patria e dal consorzio civile, ha l'inconscia protezione della Croce. Nei momenti più fatali, dalla nascita fino alla morte, il santo segno gli balena alla vista e allo spirito; ma accanto a questo simbolo, che giace nelle latebre dello spirito, lo accompagna l'amore fatale per una donna, che egli insegue dovunque, fino a rapirla dal chiuso della vita monastica. E al pari di Sigismondo e di Cipriano, anche per lui l'innocenza verginale opera il prodigio, e la croce gli brilla dinnanzi, a eterna salvezza. È il dramma più complesso: l'anelito di Eusebio per la donna è passione istintiva, alla stregua dell'apparizione misteriosa, che è la fede latente. Non appena il valore del segno è contemplato nella sua sacra purezza, anche la passione si rivela immacolata, poiché in essa palpitava inconsapevolmente l'amore fraterno per la sorella ignorata. In questi drammi la religione si conquista nel dissidio, e la vicenda umana si placa solo al tramonto della vita. Così, tra l'altro, in Los dos amantes del cielo e in El Purgatorio de San Patricio. Invece in El Príncipe constante, del 1629, la poesia nostalgica delle illusioni terrene e il lirismo della fede che si conosce e si sublima nell'anima, si contemperano in una serena e dolce pace interiore. È il dramma dell'eroe cristiano, che combatte e soffre in servigio della fede e della patria; è l'ideale del '600 spagnolo, che univa nello stesso culto fanatico la religione e l'onore, l'obbedienza a Dio e la devozione al re. Don Fernando, cavaliere crociato, fa gettito della libertà e della vita, senza tragedia e senza rimpianto. Il suo sacrificio, lungo e accettato, è una continua ascesa, ed egli passa in mezzo alle lotte e alle insidie terrene, pensoso e regale. La grandezza della sua figura sta nella comprensione della realtà umana, che in lui si placa e si nobilita. Possiede una norma interiore che trasfigura ogni avvenimento, tragico o idillico, e ogni passione, schietta o ignobile, in una ferrea volontà di redenzione. Non è già l'oblioso misticismo che spezza ogni rapporto con la vita esterna, ma il dominio spirituale che signoreggia le vicissitudini. Più che il dramma della devozione, è l'esaltazione dell'eroismo umano. In queste rappresentazioni, da Sigismondo a Don Fernando, il poeta scandaglia il labirinto della passione e del pensiero. Le più profonde idealità, e insieme le più fanatiche passioni del mondo umano e della società spagnola, trovano rispondenza nella poesia di C. La dignità umana, la fierezza aristocratica, il punto d'onore, il decoro cavalleresco e domestico, variamente si atteggiano nella figurazione artistica, secondo il complesso esercizio della vita.
El Alcalde de Zalamea ha una tragicità scultorea. È il dramma dell'onore ferito, che si purifica nel sangue e si fa giustizia da sé. L'atmosfera lirica sprigiona, in ogni scena e in ogni situazione, quella particolare educazione cavalleresca e puntigliosa, affettuosa e generosa, della Spagna tradizionale. Ma nel dolore del padre, che invano ha custodito il candore della figlia e la purezza della casa, e nella sua vendetta decisa, irrevocabile, compiuta come un comandamento divino, l'arte si fa universale. Il frammento passionale è dilatato per tutta una vita; il patrimonio morale delle generazioni è immerso nell'esperienza concreta e individuale.
È sorprendente la tecnica teatrale, entro cui C. dispiega la sua pluriforme personalità. Nel chiuso dell'anima egli incide e ingigantisce la passione tormentata ed erosiva, sicché ne esplode la tragedia finale, fatale, logica, necessaria quanto interiore. Sullo schermo dei grandi fantasmi della fede, dell'obbedienza al re, del "punto d'onore", l'umanità tutta, e non solo quella della sua Spagna, ripassa e ritorna sotto lo sguardo vigile e preciso del poeta. La gelosia che corrode nel silenzio dello spirito; il sospetto che si nutre nella tacita e spietata solitudine morale; la vendetta che avvolge tutte le facoltà e si prepara segreta e inesorabile, sono le grandi e possenti tracce di altri capolavori: El Médico de su honra; El Pintor de su deshonra; A segreto agravio secreta venganza; El Tetrarca de Jerusalén. Vi si affina una realtà umana, senza simboli e senza testi articolata e individualizzata.
Una delle qualità di C. è appunto questa molteplicità inesauribile di forme e di atteggiamenti, che gli consentono di tradurre, con eguale vigore, l'astrazione dell'idea e l'universalità del sentimento, la simpatia umana per l'idillico e il lirico, e il gusto per lo spettacoloso. La fecondità delle commedie di "cappa e spada", così chiamate per il costume, attesta questa sensibilità pronta, duttile, seguace. In questi drammi a lieto fine e di getto, la sua indole si rivela festosa, lieve, pieghevole. Nella varietà esuberante degl'intrecci e degl'intrighi, nella vena inestinguibile delle battute sentimentali e giocose, nella delicata leggerezza del disegno psicologico e nella tenue poesia dell'amore umano e borghese, che si fa ideale e lirico, C. continua a sviluppare la sua prodigiosa personalità. Vi si sbozzano figure di cavalieri e di damigelle, di amore e di amicizia, di onestà e di brio, fortemente legate alle abitudini e ai pregiudizî del tempo; ma al contatto dell'anima calderoniana si illuminano di una serietà psicologica e di una nobiltà morale, che ne sono l'impronta originale e il legame diretto con tutto il teatro del poeta. La Dama duende; Dar tiempo al tiempo; Guárdate del agua mansa; No siempre lo peor es cierto; El secreto á voces; El Galán fantasma; Manos blancas no ofenden, e così via, idealizzano la vita d'ogni giorno, con riposante levità spirituale e, sovente, con commossa animazione sentimentale. Anche in esse, gli elementi passionali sono purificati e nobilitati, e le idealità e le consuetudini contemporanee sono sollevate nelle sfere dell'umanità superiore, di là dalla provvisoria contingenza. Ciò che caratterizza meglio il teatro complessivo di C. è quest'anelito a trasportare gli aspetti empirici della sua Spagna e della sua esperienza entro un respiro universale. Nelle maglie del conflitto spirituale, o morale, o passionale, si escludono le accidentalità della vita piatta e opaca. All'occhio di C. il vario spettacolo umano si eleva, volta per volta, nelle plaghe superiori dell'eroico, del sublime, del lirico. Quelle predilezioni barocche e quel preziosismo culterano, proprî dell'epoca, concorrono non di rado a falsare o intorbidare la genuinità di queste aspirazioni alate e tragiche; ma sono quasi sempre superate dalla vigorìa umana in cui si livellano. La lettura di un dramma calderoniano, sacro o realistico, teologico o d'intreccio, mistico o tragico, ci dà sempre il senso dell'ansia titanica che accoglie e tramuta gli elementi umani nella vita dell'eterno. La tradizione spagnola, feudale e leggendaria, teologica e cavalleresca, devota e mistica, monarchica e fanatica, converge e si potenzia nel genio di C. E già con la sua morte si delineava il crepuscolo delle grandezze imperiali e spirituali della Spagna.
Ediz.: Primera parte de las comedias de Don P. C. de la B., recogidas por Don Joseph Calderón de la Barca,su hermano, Madrid 1636. Sono 12 drammi. Se ne conoscono attualmente due esemplari (uno nella Bibl. naz. di Parigi: cfr. M. Toro y Gisbert, in Bol. de la R. Ac. Esp., 1918; l'altro nella Bibl. di Monaco). Lo stesso José pubblicò la Segunda parte, Madrid 1637, che contiene altre 12 commedie. Entrambe le edizioni furono rinnovate nel 1640-41. La Tercera parte è del 1664 a cura di Seb. Ventura de Vergara, amico del poeta. La Cuarta parte del 1672 è dovuta a un anonimo; ma sempre con l'approvazione dell'autore, il quale era costretto a ripudiare altre edizioni, tanto che nel 1680 si decise a fare una lista: 111 commedie e 70 autos. Secondo questa l'amico J. de Vera Tassis diresse la pubblicazione postuma (1682). Risultano in complesso 120 commedie, 80 autos, 20 entremeses, e componimenti minori (jácaras, loas, ecc.): oltre una raccolta di poesie di lieve interesse (Poesías de C., Cadice 1815; Poesías inéditas de C., Madrid 1881: ove figurano anche i versi del 1622 del certame di S. Isidro).
Gli autos, oltre a edizioni singole, ebbero una prima silloge parziale in vita dell'artista: Autos sacr. alegóricos é historiales por Don P. C., Madrid 1677. Nella Bibl. Naz. di Madrid esistono manoscritti contemporanei e qualche autografo. Difetta un'edizione integrale moderna, e ancora bisogna ricorrere alle vecchie stampe, Autos sacr., ed. Pando y Mier, Madrid 1717; ed. J. Fernández de Aponte, Madrid 1759, 6 voll.; ed. E. González Pedroso, in Bibl. Aut. Esp., LVIII; Comedias y Entremeses, ed. J. E. Hartzenbusch, in Bibl. Aut. Esp., VII, IX, XII, XIV; ed. J. G. Keil, Leipzig 1827-30, voll. 4; Teatro selecto, ed. M. Menéndez y Pelayo, in Bibl. Clas., voll. 36-39, Madrid 1881; Teatro escogido, ed. R. Ac. Esp., Madrid 1868, 2 voll. Edizioni singole: El mágico prodigioso, ed. A. Morel-Fatio, Heilbronn 1877; M. Krenkel, Klassische Bühnendichtungen der Spanier (La vida es sueño; El Mágico; El Alcalde de Zalamea), Lipsia 1881-87, voll. 3; Las Órdenes militares, ed. E. Walberg, in Bul. hisp., 1903-1904; La vida es sueño, ed. M. A. Buchanan, Toronto 1909; ed. G. Groeber, in Bibl. Esp., vol. 8; El Mágico, ed. W. Wurbach, in Bibl. Esp., 73-74; El Alcalde de Zalamea, ed J. Geddes, New York 1918; La vida es sueño, ed. A. Gasparetti, Firenze 1928; A. Valbuena Prat, Autos sacramentales (I: La cena del Rey Baltasar; El gran Teatro del Mundo; La vida es sueño; II: El pleito matrimonial del cuerpo y el alma; Los encantos de la culpa; Tu prójimo como a tí), Madrid 1926-27, voll. 69 e 74 dei Clásicos Castellanos. L'elenco completo dei lavori di C. in J. Cejador y Frauca, Historia de la lengua, ecc., Madrid 1916, V, p. 84 segg. Cfr. J. Alenda, Catálogo de autos sacramentales, in Bol. Ac. Esp., 1921 segg.; A. Valbuena Prat, Los autos sacr. de C.: clasificación y análisis, in Rev. hisp., 1924.
Bibl.: Per la biografia, dalle notizie di Vera Tassis premesse alla sua edizione, bisogna scendere a C. Pérez Pastor, Documentos para la biografía de C., Madrid 1905; N. Alonso Cortés, Algunos datos relativos a C., in Rev. de fil. esp., 1915. Lo studio complessivo è dovuto a E. Cotarelo y Mori, Ensayo sobre la vida y obras de C., parte I: La vida, Madrid 1924. Per la bibl., cfr. le raccolte generali: J. Cejador y Frauca, op. cit., p. 89 segg.; J. Fitzmaurice Kelly, Spanish bibliography, Oxford 1925; J. Hurtado e A. González Palencia, Hist. liter. esp., Madrid 1925. Il primo saggio è di M. Menéndez y Pelayo, C. y su teadro, Madrid 1881: ha il merito di investire tutta l'arte di C., rettificando la critica apologetica del Romanticismo. Descrittivi i saggi: F. Sánchez de Castro, C., estudio crítico, Madrid 1881; El Ateneo de Madrid en el centenario de C., Madrid 1881; E. Günthner, C. und seine Werke, Friburgo 1888, voll. 2; U. González Serrano, La dramática de C., in Rev. de Esp., CXXV, p. 343. Buona la conferenza di Blanca de los Ríos, De C. y de su obra, Madrid 1914; H. Breymann, Die C. Literatur, Monaco 1905; A. Sánchez Moguel, Memoria aurea de "El Mágico" de C., Madrid 1881, ecc. Intesi a cogliere l'afflato filosofico e singoli sentimenti generali: A. Graf, La vita è un sogno, in Studî drammatici, Torino 1878; G. Reynier, Le drame religieux en Espagne, in Rev. de Paris, 1900, pp. 821-72; A. Losada y Diéguez, Simbólica e ideas filosóficas en "La vida es sueño" de C., Santiago 1910; A. Castro, Algunas observ. acerca del concepto del honor..., in Rev. fil. esp., 1916; A. Farinelli, Mistici... all'alba del dramma di C., in Rev. fil. esp, 1914; J. Mariscal de Gante, Los autos sacr., Madrid 1911; L. P. Thomas, La genèse de la philos. et le symbol. dans "La Vie est un songe", in Mélanges Wilmotte, Parigi 1910; A. Monteverdi, Le fonti de "La vida es sueño", in Studi di fil. moderna, 1913 ecc. Ma occorre ricorrere al lavoro di A. Farinelli, La vita è un sogno, Torino 1916, voll. 2: è la sintesi del pensiero calderoniano, inserito nella storia dell'umanità e tracciato nei suoi vertici più lirici e più tragici. In fondo all'opera, una doviziosa messe bibliografica. In Italia gli studi del Farinelli furono seguiti da A. Monteverdi, che la recente ci ha dato delle pagine fini sui migliori drammi calderoniani (C. de la B., Drammi tradotti, voll. 2, Firenze 1920, 1921). Cfr. la recente introduzione di A. Valbuena Prat agli autos cit. (1926-27), ove però si ripete il giudizio, convenzionale ed erroneo, che contrappone l'astrattezza di C. alla concretezza di Tirso e di Lope.